E’ stata una gran
bella festa. Poterci rivedere, a Firenze, dopo tanti anni di
silenzio e di lontananza, per confrontarci sul “Vangelo che abbiamo
ricevuto”, e poter conoscere tanti amici e fratelli di cui si
ignorava la fedeltà operosa alla Parola in tante parti d’Italia, ci
ha ridato una grande speranza. Non tanto per il rinnovamento, così
difficile, così faticoso, della Chiesa italiana, quando per la gioia
di vedere all’opera, oggi come sempre, lo Spirito che fa nuove tutte
le cose, dentro e fuori l’istituzione, con tutta la splendida
libertà che agita la sua creatività inesausta.
Giustamente, come ha ricordato Marcello Vigli, “dentro o fuori” non
fa differenza: l’importante è avere cuori, occhi e orecchi capaci di
riconoscerLo. Noi che veniamo da Milano siamo venuti a Firenze
portando pesanti fardelli di amarezza per l’indurimento dei cuori
che nell’ex capitale morale d’Italia, e in tutta la Lombardia, da
anni ha messo all’opera i germi velenosi dell’egoismo xenofobo che
credevamo estinto da tanto tempo e che invece le astuzie proterve
della politica sono tornate a sfruttare per cumulare un reddito
elettorale di cui come cristiani ci vergogniamo. Ma da Milano
abbiamo portato anche la nostra riconoscenza allo Spirito per la
parola decisa di un vescovo come Tettamanzi che ci rende orgogliosi
della parresia cristiana, sentendoci confortati anche dalla
coraggiosa sapienza biblica di Martini che anche nel suo ultimo
libro mette in discussione temi (come quello del celibato dei preti
e delle forme di celebrazione dell’eucarestia) che il monolitismo
della curia vaticana pareva aver cancellato dall’agenda della
discussione intraecclesiale.
Tante
voci, tantissime esperienze che si sono confrontate: a Firenze è
iniziata sicuramente una nuova stagione del cristianesimo italiano,
che sta a noi tutti far maturare perché dia buoni frutti.
Personalmente, mi permetto di esprimere due auspici a proposito del
lavoro che ci sta di fronte nei prossimi anni.
Credo
anzitutto che, a differenza di quanto accadde per la fervida
stagione del movimento delle comunità di base nate dal dissenso
degli anni Settanta e Ottanta, sia indispensabile un’apertura
dell’orizzonto del confronto fra di noi che non privilegi quasi
esclusivamente il tema del rapporto fra fede e politica, fra
testimonianza cristiana e responsabilità sociale. E’ necessario dare
impulso anche ad un urgentissimo lavoro di riflessione teologica da
cui scaturiscano, come hanno chiesto molti dei fratelli intervenuti
a Firenze, “parole nuove” per dire oggi, qui, la nostra fede in Gesù
morto e risorto. Il nostro annuncio infatti è troppo spesso
prigioniero di formule antiche che non siamo ancora capaci di
tradurre nel linguaggio del nostro tempo, di incarnare dentro lo
spirito della società “postmoderna”: siamo invece anche noi
attestati su una frontiera linguistica e di pensiero (e anche di
sensibilità ) che ci schiera dalla stessa parte del magistero più
chiuso e retrivo. In particolare penso al tema del sacro e del suo
rapporto col potere, a quello dell’ateismo cristiano nei confronti
di tutti gli idoli (come critica radicale alla scala di disvalori
alienanti di questa società assoggettata al dominio del Mercato
planetario), penso al tema della grazia che fuori della Chiesa
compie miracoli a dismisura, chiedendo a tanti altri uomini di “non”
essere cristiani per essere fedeli ad una diversa chiamata alla
Verità e all’Amore (ecumenismo non è ritorno di tutti i cristiani
allo stesso ovile, ma la capacità di ringraziare e riconoscere lo
Spirito che è all’opera ovunque).
Il
secondo suggerimento che mi permetto di proporre è quello di un
“cammino sinodale” che sia fatto non solo di parole ma anche
significativi gesti pubblici comuni. Mi è dispiaciuto che
l’assemblea di Firenze non abbia potuto esprimersi su due mozioni
che sarebbe stato utile discutere per offrirle poi alla società
italiana come giudizio cristiano sulle emergenze che viviamo in
questi tempi difficili. La prima, quella di Vittorio Bellavite,
avrebbe richiesto una parola di condanna contro la violenta politica
dei re-spingimenti dei migranti (e ci avrebbe fatto sentire molto
vicini alla stessa Cei che sta facendo doverosamente argine alla
deriva xenofoba e leghista del governo italiano). La seconda (*),
sul tema della povertà collettiva della chiesa come condizione di
credibilità e sull’urgenza (almeno) di una revisione delle modalità
di applicazione dell’8 per 1000, stavo per proporla io stesso, ma mi
è stato chiesto di non farlo (salvo poi sentirmi dire da tanti
fratelli presenti che l’avrebbero votata volentieri): mi permetto di
allegarla a queste note come base per una possibile futura eventuale
iniziativa del movimento delle CdB.
Le opere
e non solo le parole, questo chiedo e propongo. Credo infatti che
“dalle loro opere li riconoscerete”, non dalla comunione che avrete
espresso dentro la comunità ecclesiale. La chiesa è per l’Annuncio,
non per se stessa: se ci vogliono tensioni e rotture, non dobbiamo
temerle. Perciò dobbiamo fare insieme dei passi comuni per dare
credibilità al Vangelo che abbiamo ricevuto e che non possiamo
imprigionare in troppe prudenze.
Ho
ricordato nel mio intervento che quest’anno si celebra il
cinquantenario della morte di don Primo Mazzolari: profeta di pace,
profeta della parresia cristiana contro il totalitarismo fascista,
profeta del dialogo con i comunisti, profeta della chiesa dei
poveri, ma soprattutto indomito servitore della profezia, spesso
colpito e umiliato dall’autorità, salvo essere riabilitato troppo
tardivamente da Paolo VI: un cristiano che ci ha insegnato, nelle
condizioni imposte dai suoi tempi, a non temere lo scandalo della
verità e della critica. Non possiamo celebrarlo da morto se non
siamo animati, da vivi, oggi, dalla sua stessa profezia coraggiosa e
priva di calcoli opportunistici o di opportunità.
Nel
1928, quando si stava per celebrare lo scempio del Concordato
cattolico con lo Stato fascista, Mazzolari non esitò a gridare forte
che la Chiesa non poteva barattare la sua libertà con privilegi che
l’avrebbero resa innocua se non complice della prepotenza del
regime. Disse brutalmente che si stava per legare la Chiesa italiana
alla “greppia” del fascismo. Forse dobbiamo aggiornare la sua
critica e mettere pubblicamente in discussione la politica del
“Terzo Concordato” (il secondo fu la revisione del primo patteggiata
dal Vaticano con Craxi) tenacemente perseguita per due decenni da
Ruini, che lavorò alacremente per far cadere Prodi e riconoscere in
Berlusconi (e nella politica delle destra) il ruolo di
provvidenziale difensore dei valori cristiani (quali?!) in cambio di
una “corsia preferenziale” per i provvedimenti bioetici ed anche
economici tanto cari al vertice della Cei: ne paghiamo oggi le dure
conseguenze (mano libera alla Lega e al criptofascismo di questa
maggioranza) al punto che anche l’Avvenire è costretto a prendere le
distanze dal Cavaliere, censurando le violazioni dei diritti della
persona, delle leggi sulla sicurezza e anche le sue discutibili
performance in fatto di etica privata e familiare.
Perché
non organizzare su questo “Terzo Concordato”, mai dichiarato ma nei
fatti siglato e perseguito dall’efficace ma rovinosa diplomazia di
Ruini, il prossimo convegno delle Comunità di Base italiane?
Gilberto Squizzato,
della CdB di Busto Arsizio
(*)
MOZIONE SULL’8 PER MILLE