Aprirsi agli altri, cioè risorgere – Commento a Lc 7,11,17
Paola Cavallari
La resurrezione del figlio della vedova di Nain è superbamente rappresentata nella pala d’altare del pittore Lucas Cranach il Giovane (1569 circa), situata nel Stadtkirche di Wittenberg: si snoda un corteo mesto, come si addice al percorso che conduce al sepolcro un giovanetto. Stupisce la posizione geometrica che i corpi dei tre attori principali del racconto – la vedova, Gesù e il ragazzo- assumono. Il corpo di Gesù si interpone tra il giovanetto e la madre. Non solo: Gesù tiene per mano entrambi, come anello di una catena. Egli sta tra i due, come a designare una membrana che separa e al tempo stesso unisce. Nell’ebraismo è decisivo ciò che fa da diaframma che separa gli individui, rendendoli persone, singolarità individualmente determinate. La stessa circoncisione è segno “fisico e simbolico” di separazione dall’utero materno.
Il fatto che il figlio di cui si parla nella narrazione sia figlio unico e la madre sia vedova sono dettagli che vengono quasi sempre interpretati secondo una lettura lacrimevole, volta ad enfatizzare una sventura impregnata da habitus sentimentalistico. Si ricorre alla retorica della madre, figura che le religioni -storicamente patriarcali- hanno voluto appiattire alla dimensione oblativa, che risolve la sua esistenza di donna in funzione esclusiva dei figli. Per di più qui si tratta di una vedova, e sappiamo che la condizione delle vedove in Israele era particolarmente esposta alla marginalità e alla miseria nei periodi di scarsità o carestia. Il figlio maschio rappresentava quindi, oltre che un sostegno nel vuoto di protezione economica, un riparo contro la precarietà simbolica cui la figura della vedova era soggetta.
Ma il gesto di Gesù ci sprona a una lettura più avvertita. Nella vedovanza, il figlio- e figlio maschio unico in specie- può essere indotto inconsciamente – dai parenti, dalle convenzioni – a ricoprire un ruolo deviato: divenire il sostituto del padre morto. Il legame tra la madre e “suo” figlio può connotarsi di una impronta opaca, soffocante, chiusa alle relazioni esterne, instaurando un’ipoteca sul divenire sia dell’autonomia del figlio che su quella della madre. Entrambi, dopo il lutto del marito-padre, potrebbero aprirsi di nuovo al mondo: ma tali comportamenti non sono favoriti dal contesto patriarcale, anzi scoraggiati. E i soggetti del nostro racconto- forse- non hanno saputo o potuto metterli in atto. Gesù ha misericordia di loro. Pur non interpellato dalla donna, si intromette, irrompe fra le fila del corteo. Sembra aver intuito questo vissuto opaco dei due. Ecco che fa rialzare (ἀνίστημι significa rialzarsi e insieme risorgere) il ragazzo e: ” … lo restituì a sua madre”, dice il testo. Ma chi erano prima e chi sono dopo l’intervento i due personaggi?
Nel vangelo di Marco( Mc. 5, 22-43) ci viene narrata una vicenda simmetricamente analoga. Anche in questa occasione si tratta di un adolescente su cui si opera il segno della resurrezione, e vengono pronunciate parole quasi identiche: “Io ti dico: àlzati!”
È l’episodio della resurrezione della figlia di Giàiro. Questa volta è un padre a supplicare Gesù per la morte insostenibile della figlia adolescente.
Entrambe le figure parentali dei due brani hanno un tratto emotivo comune: evocano un rapporto soffocante tra genitore e figlio adolescente, dipingono un ambiente familiare chiuso, claustrofobico.
L’adolescente sembra essere stato sommerso da questo amore, invasivo e pervasivo, che ha impedito di respirare l’ossigeno necessario alla propria crescita, alla propria ricerca di identità, di avventurarsi da solo/a per trovare la propria vita.
Gesù è, ancora una volta, colui che apre alla vita. È consapevole della paura che avvinghia i genitori, soprattutto nel caso della donna vedova, ma la paura opprime, blocca (Mt. 28, 5: “Ma l’angelo disse alle donne: «Non abbiate paura»”). Il soffio dello spirito è penetrato: è l’aria fresca invitante all’apertura esistenziale, cioè alla resurrezione.
(Adista Notizie n° 17 del 07-05-2016)