SE LO STATO (VATICANO COMPRESO) NON È AL DI SOPRA DELLA LEGGE
di Paolo Atzori
da Notizie Radicali
Lunedì 28 giugno, la Corte Suprema statunitense ha rigettato un ricorso che rivendicava, per la Città del Vaticano, l’immunità rispetto a casi di abusi su minori compiuti da preti. Di fatto, la Corte Suprema, ha semplicemente deciso di non esaminare tale ricorso, avallando la posizione della Corte d’appello dell’Oregon che tale immunità aveva negato. Il merito della questione, particolarmente complicato, verte sulla possibilità o no di considerare un prete come un dipendente della Città del Vaticano, dei cui comportamenti quest’ultima possa essere tenuta responsabile. Non di questo voglio, né, mancandomi le competenze, posso discutere. L’aspetto sul quale voglio invece porre e richiamare l’attenzione è la rivendicazione fatta dal Vaticano dell’immunità per il Papa come capo di uno Stato riconosciuto da oltre 170 altri Stati della Comunità internazionale. Il ricorso si basava sul testo del Foreign Sovereign Immunities Act, del 1976. Si tratta di una legge con la quale gli Stati Uniti, oltre trent’anni addietro, cercavano di metter ordine in una sfera sensibile e assai delicata del diritto e della giurisdizione. Quella appunto relativa alla possibilità di sottoporre a giudizio uno stato straniero presso un tribunale o una corte degli Stati Uniti. La legge del 1976 si basa sul principio dell’immunità degli Stati stranieri (e loro organismi). La legge indica alcune eccezioni, molto specifiche e altrettanto complicate.
A me interessa il “riflesso” che si manifesta nel ricorso presentato in base alla rivendicazione di immunità. Uno Stato della comunità internazionale, rivendicando l’immunità, si pone come soggetto di diritto. Nella pratica come si è andata definendo in decenni di “relazioni internazionali”, allo Stato è demandato il compito di difendere i diritti degli individui. E di farsene dunque interprete. A fianco a questa visione (tuttora maggioritaria) del diritto internazionale, si è andata costituendo la dottrina del diritto soggettivo, che vede gli individui come soggetti portatori di diritti e pone gli Stati nazionali nell’obbligo di rispettarne alcuni, a prescindere dalle regole interne proprie di ogni ordinamento. Si può dire che secondo questa interpretazione del diritto internazionale, lo stato non è al di sopra della legge.
Questa dottrina, che ha iniziato il proprio tortuoso cammino con i Tribunali dei vincitori (Norimberga e Tokyo), si è poi riproposta come mezzo per garantire la giustizia internazionale (postuma) alle popolazioni vittime di abominevoli crimini quali il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Il Tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi nell’ex Iugoslavia e l’omologo per il Ruanda sono un riconoscimento da parte della comunità internazionale del proprio fallimento (senz’altro politico) ad impedire il perpetrarsi di atroci violazioni di diritti umani fondamentali. La loro creazione è stata l’ammissione, da parte della comunità internazionale intesa come associazione di Stati Nazionali, che in talune circostanze, i meccanismi tradizionali, quelli derivanti dall’idea della sovranità nazionale assoluta, erano incapaci di affrontare situazioni di crisi estreme.
Con la nascita della Corte Penale Internazionale, per mezzo della ratifica dello Statuto di Roma, la comunità internazionale si è dotata di uno strumento potenzialmente preventivo rispetto a certi crimini. Infatti, il passaggio dai tribunali ad hoc, con la pletora di limitazioni al loro mandato e la vita non sempre stabile, alla Corte Permanente, segna il consolidarsi di un principio (primo segmento) di giurisdizione internazionale affrancata dal monopolio della sovranità nazionale assoluta. Per questo motivo quanto compiuto a Roma nel 1998 rappresenta, da parte degli stati nazionali, un atto di coraggio che va riconosciuto poiché consiste in una volontaria cessione di competenze e prerogative. Costituisce soprattutto una dichiarazione molto ambiziosa quanto alla direzione che si auspica per il presente e futuro cammino del diritto internazionale, sempre più inteso come il nucleo inviolabile di diritti di cui l’individuo (gli individui) gode e gli strumenti atti a meglio garantire e difendere tali diritti o a perseguire le eventuali violazioni e gli autori di queste. In alcuni casi, si tratta, come è ovvio, di (ex) capi di stato. Il diritto internazionale è ad un bivio. (Quante volte ci si è trovati in una situazione simile nel corso degli ultimi 100 anni?). La Corte Penale Internazionale indica l’inizio di un percorso che potrebbe riuscire a risolvere la questione difficile dell’equilibrio tra diritti degli stati e diritti degli individui. Si potrebbe dire forse tra diritti delle istituzioni e diritti dei cittadini. Banalmente direi che secondo me una soluzione ideale sarebbe quella che, garantendo stabilità e legittimità alle istituzioni, riuscisse ad attivare meccanismi di promozione e salvaguardia dei diritti inalienabili del cittadino. Diametralmente opposta, si trova la direzione di chi invoca immunità per le proprie istituzioni (e non mi sto esprimendo sul merito della sentenza americana sia ben chiaro). Posizione che non solo non tiene conto dei progressi segnati con lo statuto di Roma (la Città del Vaticano, come ahimè gli Stati uniti e, meno sorprendentemente, un gruppo di altri paesi che vanno dall’Iran, alla Libia, dalla Russia, al Laos, dal Sudan alla Repubblica Popolare Cinese, da Cuba al Vietnam, dall’Arabia Saudita allo Zimbabwe, ecc., non ha firmato lo statuto). Ma, soprattutto, si profila come ostacolo al progresso della giurisdizione internazionale che la Corte Penale Internazionale contiene in sé.
Chi sono gli aventi diritti? Chi interpreta i diritti? Chi è preposto a garantirli e a sanzionare violazioni? Chi è membro della comunità internazionale? Chi e che cosa sono destinate a difendere le istituzioni internazionali? Sono queste consessi di stati nazionali che, informalmente, si accordano tra loro nello spirito della ragion di stato e per il vantaggio dell’uno e dell’altro? O sono piuttosto organismi che legano gli stati nazionali ai vincoli di convenzioni internazionali per la promozione dei diritti degli individui e li sottopongono al monitoraggio da parte di apposite entità istituzionali ? Siamo sicuri che la dimensione dello stato nazionale sia la massima garanzia per il godimento e la salvaguardia dei diritti? O non finisca piuttosto col produrre una “confisca” dei diritti fondamentali?
Alla luce di queste domande è possibile interpretare anche la crescente pressione alla quale sono sottoposte istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite (si pensi alla vicenda della dichiarazione sull’orientamento e l’identità sessuali); la Corte per i Diritti Umani di Strasburgo (si pensi anche solo alla questione del crocifisso). E tutte le istituzioni sovranazionali soprattutto nella loro funzione legislativa e emanatrice di diritto e giurisdizione. (Ricordiamoci del lungo, noioso e fallace dialogo sulle radici giudeo-cristiane dell’Europa ). In fondo penso si possa riassumere dicendo che si stanno opponendo una visione evolutiva del diritto internazionale ed una visone di quest’ultimo di matrice indubbiamente reazionaria. In modo analogo, un nazionalismo stantio e fesso sta cercando pateticamente ma pericolosamente di riconquistare il terreno perduto a vantaggio delle istituzioni comunitarie europee. Si incrociano due strade, una per la quale si accorcia sempre più la distanza dall’ideale stato repubblicano di Kant (e vale per questo cammino quanto dice), l’altra che, nella migliore delle ipotesi, ci riporta nei pressi del Congresso di Vienna.