QUANDO I GIUDICI SI IMPROVVISANO TEOLOGI

di Sandro Magister
da L’Espresso, 6 luglio 2010

In questo inizio d’estate, nel dramma della pedofilia è entrato in scena clamorosamente un nuovo attore, il giudice. Il 24 giugno, in Belgio, forze di polizia agli ordini della magistratura hanno perquisito persone e luoghi nevralgici per la Chiesa del paese: l’arcivescovado di Malines-Bruxelles mentre vi erano riuniti i vescovi, l’abitazione del cardinale Godfried Danneels e la sede della commissione indipendente creata dalla Chiesa belga per indagare sugli abusi sessuali. Qui gli inquirenti hanno sequestrato 475 dossier, molti dei quali riguardanti vittime che si erano rivolte a questa commissione invece che alla giustizia civile per salvaguardare la loro vita privata.

Inoltre, lo stesso giorno, nella cattedrale di Saint Rombout a Malines sono state violate le tombe dei cardinali Desiré-Félicien Mercier, Jozef-Ernest Van Roey e Léon-Joseph Suenens, alla vana ricerca di presunte prove della complicità della Chiesa belga negli abusi.

Il 29 giugno, negli Stati Uniti, la corte suprema ha invece rifiutato di prendere in esame la richiesta della Santa Sede di impedire la chiamata in causa delle massime autorità vaticane, come imputate, in un processo nell’Oregon per abusi sessuali commessi da un religioso. La richiesta della Santa Sede aveva ricevuto l’appoggio dell’amministrazione Obama. Anche nel 2005, durante la presidenza Bush, il dipartimento di Stato americano aveva definito illegittima la chiamata in causa di Benedetto XVI in un processo nel Texas per abusi sessuali, in forza dell’immunità di ogni capo di Stato e quindi anche del papa. E quella volta il giudice accolse il parere dell’amministrazione.

Ma la corte suprema ha ritenuto di non esprimersi sulla questione, come del resto fa per la stragrande maggioranza delle 7-8 mila richieste di giudizio che riceve ogni anno, delle quali ne prende in esame non più di 60-70.

Di conseguenza, la corte suprema ha rimandato il giudizio a un grado inferiore, in questo caso la corte d’appello federale dell’Oregon. Teoricamente, quindi, questo tribunale potrebbe convalidare la chiamata in causa come imputati di papa Benedetto XVI, del suo segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, del prefetto della congregazione per la dottrina della fede cardinale William Levada e del nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Pietro Sambi. Ciò diverrebbe possibile qualora la corte dell’Oregon stabilisse che il religioso autore degli abusi, morto nel 1992, fosse un “dipendente della Santa Sede”.

Un’analoga chiamata in giudizio delle massime autorità della Chiesa è in atto nel Kentucky e un’altra ne è stata avviata pochi giorni fa a Los Angeles.

Che a questo si arrivi, cioè a tradurre in tribunale il papa per i crimini di un suo “dipendente”, è improbabile. Ma che prima o poi una corte si arroghi di stabilire con criteri propri ciò che la Chiesa è e quale rapporto abbia la gerarchia con i suoi “dipendenti” non è più un’ipotesi da escludersi tassativamente.

Le perquisizioni ordinate dalla magistratura belga – definite “brutali” dallo stesso ministro della giustizia di quel paese, Stefaan De Clerck – non sono affatto rassicuranti. Lì la Chiesa è stata considerata alla stregua di una cosca di malfattori.

Non solo in Belgio e negli Stati Uniti, ma un po’ ovunque, cresce la tendenza a giudicare la natura e l’organizzazione della Chiesa ignorando ciò che essa è e i suoi ordinamenti originari e peculiari, che pure sono entrati nella migliore cultura giuridica e sono stati riconosciuti da patti di validità internazionale.

L’auspicio, quindi, più volte espresso dalle autorità della Chiesa, che il foro civile e quello canonico operino ciascuno nel proprio ordine per contrastare gli abusi sessuali del clero, non sempre si traduce in pacifica e fruttuosa cooperazione.

La Chiesa, da qualche tempo e soprattutto grazie all’impulso di Joseph Ratzinger cardinale e papa, sta facendo molto per correggere le proprie colpe e omissioni. Ma la giustizia civile deve anch’essa far meglio. Le sue prove nel campo, nei passati decenni, sono state spesso deludenti. Ma se oggi prevaricasse, attribuendosi competenze e ruoli che non le spettano e agendo di conseguenza, farebbe ancor peggio.

Qui di seguito, ecco un’analisi approfondita della questione aperta dai casi belga e americano. L’autore, il professor Pietro De Marco, insegna all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

SUI GIUDICI E LA CHIESA

di Pietro De Marco

Naturalmente nessuna corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato, come ha titolato un giornale, che “il Vaticano si può processare”, né che sia “civilmente responsabile degli atti di un prete”, come si è espressa un’agenzia. Non solo perché non è nei poteri di una suprema corte nazionale decidere in materia di eventuali illeciti internazionali, ma perché, anzitutto, uno Stato non è “processabile”.

L’imputazione di un comportamento a uno Stato è possibile a partire da una condotta individuale che possa essere attribuita a quello Stato. E la condotta posta in essere è imputabile a uno Stato solo se quell’individuo è un suo organo, non semplicemente un suo membro. Ma un titolo di giornale è solo un titolo, disinformativo quanto basta. Più esatto sarà parlare di una non-decisione della corte riguardo alla “immunity” della Santa Sede, cioè all’immunità che protegge un sovrano dalla giurisdizione e dalla responsabilità derivante dall’esercizio di un potere discrezionale. Semplicemente la corte non ha accolto la richiesta della Santa Sede – che aveva ottenuto il parere favorevole del “solicitor general”, il procuratore generale del governo federale presso la corte – di accertare la validità degli atti compiuti dai giudici ordinari presso i quali è pendente il caso John Doe (l’usuale nome generico che copre qui quello della vittima di atti di pedofilia risalenti al 1965, di un prete dell’Oregon deceduto nel 1992).

Con ciò la corte sembra non escludere in principio la praticabilità, in sede di diritto internazionale civile, di una imputazione di responsabilità alla Santa Sede. Lascia a un giudice ordinario la chance di tentare questa strada. Ma lo spiraglio di plausibilità è molto stretto. Non solo un sacerdote, ma neppure un vescovo sono propriamente un “organo” della Santa Sede, non si dica dello Stato della Città del Vaticano (tra parentesi, basterebbe la confusione tra queste dizioni a invalidare sia atti formali che considerazioni giornalistiche). Il clero non la rappresenta, né agisce ordinariamente su suo impulso. L’autorità e la forza di indirizzo della Santa Sede, in ultimo del pontefice, sulle Chiese locali, clero e fedeli, non è quella di una catena di comando, di una linea gerarchica militare o aziendale. La sede di Pietro è una istanza che anima, guida e sanziona, in casi ben circoscritti, con riguardo ai fini ultimi della Chiesa stessa. È importante ricordare che la nozione originaria di “gerarchia”, persistente fino all’Ottocento in alcune lingue come la tedesca, designa un ordinamento sacro o un corpo religioso; mentre “gerarchia” come assetto di comando di un qualsiasi apparato è un’innovazione linguistica di fine Settecento. La gerarchia cattolica resta un corpo e un sacramento, non un organigramma aziendale; la posizione di ogni membro della Chiesa è coerente con questo ordine di diritto sacro.

Da un lato, dunque, lo Stato della Città del Vaticano gode sicuramente della “immunity” di ogni Stato; dall’altro lato la Santa Sede, protetta dallo scudo di diritto internazionale dello Stato della Città del Vaticano, non intrattiene con i membri delle Chiese locali i rapporti tipici di una catena di comando.

Tutto questo è espressione di una realtà storica universale che la scienza giuridica del Novecento ha visto bene: la Chiesa è ordinamento originario e peculiare. L’alta dottrina giuridica che riconobbe e sanzionò con rilevanza internazionale questa evidenza millenaria, è alla base, ad esempio, dei Patti Lateranesi del 1929 entrati poi nella costituzione italiana. Nessuna istanza esterna può, infatti, definire ciò che la Chiesa è – chi è suo membro, quale rapporto abbia con la gerarchia – prescindendo dalla regolazione che la Chiesa dà di se stessa. Un’istanza esterna può solo “riconoscere” questa autodefinizione. Quindi la corte americana non ha deciso, ma neppure pensato, credo, che “un sacerdote può essere ritenuto un dipendente del Vaticano”, come ci ha annunciato un altro quotidiano. E non c’è chi abbia autorità di decidere che lo sia. Non è così nell’ordinamento della Chiesa, e questo basta. Insistere è arbitrio ingiustificabile, oppure è – tra gli avvocati e in qualche giudice – giocare d’azzardo.

La “immunity” di diritto internazionale degli organi di governo dello Stato della Città del Vaticano si combina dunque, sotto l’aspetto sostanziale, giuridico-religioso, alla forma peculiare della comunità dei cristiani, della Chiesa, nel suo insediamento e ordinamento terra per terra, popolo per popolo, “unum et plura”, una sola realtà e ad un tempo molte. Il governo e il popolo della Chiesa sono individuabili; il suo territorio è l’ecumene; essa si sovrappone, tendenzialmente ovunque, ai territori e ai popoli governati dal sovrano politico. Non è uno Stato di tipo moderno; anzi, istituzionalmente lo precede e lo trascende. Continuerà a esistere anche quando lo Stato moderno sarà sostituito da altra forma politica.

La Chiesa non è nemmeno una “corporation”, o una organizzazione internazionale. Commentatori e giuristi farebbero bene a ripassare la distinzione classica tra istituzione e organizzazione. Nella Chiesa vi sono organizzazioni, come ve ne sono nello Stato. Ma essa non è un’organizzazione, come non lo è lo Stato. Così come la famiglia è un’istituzione e non un’organizzazione.

Questo va ricordato, perché l’odierno attacco giuridico alla Chiesa di Roma ha una premessa sociologica, secondo cui la Chiesa sarebbe un’entità solo empiricamente rilevante (fedeli, influenza politica, peso economico: tutte dimensioni che si ritiene vulnerabili) ma non avrebbe una consistenza diversa da una qualsiasi associazione volontaria. Così, nel Belgio di forte tradizione laico-irreligiosa qualcuno ha pensato di sconciare l’immagine pubblica della Chiesa, e quindi indebolirne l’autorità, trattando il consiglio episcopale come una riunione di affiliati a una cosca. Quegli uomini, quell’edificio, quelle tombe (tra cui quella del grande cardinale Mercier) per il giudice istruttore che ne ha ordinato l’ispezione non sono parte di un’istituzione universale, non rappresentano la storia spirituale che ha portato quella terra alla dignità dell’Occidente cristiano. Sono un contingente gruppo di cittadini tra vecchie mura, rispetto ai quali valgono le illazioni ridicole (come si sono poi rivelate) di un prete protagonista.

Il ceto dei giuristi abbia il coraggio di un esame autocritico! La loro incapacità di vedere istituti e storia oltre gli individui è coerente con l’assillo protettivo dell’arbitrio utilitaristico di singoli uomini e donne. Ma la tutela di libertà e diritti fine a se stessi, l’odierna “laicità” insomma, fa di una quota di giudici dei manipolatori di realtà storiche che essi non conoscono in quanto giuristi e che nemmeno dovrebbero osare toccare. Per capirci: un ordinamento giudiziario conosce dei fatti sociali solo ciò che, in essi, richiede la protezione della legge. Il giurista come tale, ad esempio, non “conosce” la famiglia, che eccede il diritto, ma quanto in essa va giuridicamente protetto. Ogni passo ulteriore, che pretenda di ridisegnare in tutto la famiglia, sarebbe una ferita all’istituzione, inferta alla cieca o deliberatamente manipolatoria. Lo stesso deve valere per gli interventi del giurista laico sulle istituzioni religiose, a maggior ragione quando esse siano dotate di ordinamento e scienza giuridica propri. Verrebbe da esclamare: “iudices ne ultra crepidam”, non andate al di là di ciò che sapete fare!

Carl Schmitt lo vide bene, quando scrisse che i giuristi legittimano, al posto dei teologi, gli istituti della modernità, e hanno con sé la forza del sovrano, l’esecuzione. Negli ordinamenti mondiali come negli istituti della società, nell’antropologia e nella bioetica come nella decisione su chi governa, agisce oggi una nuova ondata di giuristi “rivoluzionari”, alcuni consapevoli e altri no, e non si sa cosa sia peggio. Sfugge a molti analisti che tra gli effetti perversi della tarda modernità questo è uno dei più perniciosi.