Razzismo e dintorni
di p. Arnaldo DeVidi
1. Cultura e razzismo.
Un esploratore francese assoldò alcuni indios come portatori e li fece camminare per ore a passo accelerato. Alla sosta essi si rifiutarono di proseguire: dovevano aspettare la loro anima che era rimasta indietro. L’esploratore dapprima incredulo, curioso e divertito, concluse poi che la cultura degli indios spiegava perché essi fossero così arretrati.
L’aneddoto illustra un mancato dialogo tra due culture. I francesi accettano la provocazione di Albert Camus che scrisse: “State correndo troppo, non siete più uomini”; ma continuano a credere che la lentezza degli indios è arretratezza e l’accelerazione dei bianchi è progresso. Che dire della proposta di decrescita dell’economia per ricuperare la salute culturale e ecologica!?
Il dialogo culturale è difficile perché la cultura è naturamente “etnocentrica”. Cioè ogni cultura pretende d’essere la migliore, anzi la cultura. Io lo capisco se penso all’educazione ricevuta.
Il rapporto di mio padre -con cose/piante/animali, -con le persone e -con Dio (sono questi i tre livelli principali di relazioni del vivere umano), io lo consideravo l’ottimo. Se ce ne fosse uno migliore, mio padre l’avrebbe adottato. Ai miei occhi, mio padre non era un uomo ma l’uomo; la sua cultura era la cultura; non era possibile vivere diversamente e degnamente. Mi è stato necessario vivere tre anni con i cinesi per ottenere la mia “illuminazione” o “rivoluzione culturale”, vedendo che i cinesi vivono diversamente (dagli occidentali) e degnamente.
Insomma, noi nasciamo inevitabilmente etnocentrici: dentro di una cultura che è nostro cordone ombelicale e carta d’identità; ma dobbiamo poi aprirci al dialogo e all’intercultura, altrimenti diventiamo razzisti. Il razzista è una persona dallo sviluppo mancato, senza apertura.
E se ieri era possibile essere etnocentrici senza creare problemi, perché le occasioni di contatto tra persone di cultura differente erano rare, oggi non più. Il mondo è villaggio globale con i cinesi e altri stranieri come vicini di casa; le culture si stanno influenzando e ibridando: l’interculturalità è indispensabile. Scuola e chiesa devono insegnarla e possono farlo meglio che la stessa famiglia.
2. Cittadini del mondo o cittadini d’Italia?
In casa, a scuola, in parrocchia mi avevano insegnato che c’è la patria e che fuori della patria vivono i nemici, i quali a volte sono nostri alleati. Quindi noi italiani abbiamo la patria, cioè un territorio, una etnia, una cultura, una storia, una lingua, una legislazione e, se Dio vuole, un’unica religione. Se c’è una guerra, è perché dobbiamo difendere i beni e valori della patria, che sono i nostri, da qualcuno che ce li vuol rubare, o dobbiamo espanderli a fin di bene. Ecco gli alpini che difesero sulle Alpi con la vita il sacro suolo della patria; ecco mio zio aviatore che andò in Somalia a portare agli africani la fede e la civiltà in cambio della terra di cui avevamo bisogno. La divisione del mondo in patrie – con il Jus soli jus sanguinis – caratterizzò gli ultimi tre secoli; e fu all’origine di molte guerre.
Ma l’Italia è diventata sempre più insufficiente per gli italiani. Molti nel fior degli anni decisero di emigrare, portando altrove la loro forza e il loro ingegno; e paesi ospitali aprirono loro le porte. Fu un bene per ambedue. Se ogni emigrato italiano partì col sogno di rimpatriare, egli nella pratica seguì il consiglio del profeta Geremia il quale disse agli esiliati: “Lottate per il progresso della città dove vi trovate e pregate Dio per essa, perché il suo progresso è il vostro progresso” (Ger 29,7).
Gli emigrati diventarono “bi-nazionali”: italiani e brasiliani, italiani e americani, italiani e australiani (ma c’è una lunga storia di tagli, nostalgie, sogni svaniti…); i loro figli già erano più brasiliani, americani e australiani che italiani; e i nipoti sognano l’Italia… per visitarla come turisti. Chi emigra capisce che essere cittadini del mondo viene prima che essere cittadini d’Italia. Si continua però ad addurre motivi per un patriottismo ad oltranza: la cultura… che però è sempre più ibrida; la religione, ma Dio è padre di tutti e chiede d’amare lo straniero; il diritto alla sopravviven-za; ma che me ne faccio della legittima difesa se mio fratello straniero muore?, dice Balducci.
3. Ricordati che fosti forestiero (1Re 8,41).
Il problema del razzismo per noi italiani emerge con il fenomeno migratorio. Eppure gli emigrati di ieri dovrebbero essere solidali con quelli di oggi. Albert Schweitzer invitava coloro che fossero passati per una grande sofferenza nella vita, a formare un’associazione per essere solidali con chi soffre oggi. Un paese che ha vissuto il fenomeno dell’emigrazione, deve aprire le porte alla immigrazione sempre che gli sia possibile. Non è facile, ma è dovuto. Noi italiani dobbiamo anche ricordare che siamo stati accolti (relativamente) bene in più di un paese. Per es., il Brasile nel 1890 aprì le porte, ma solo agli emigrati dell’Europa; e nel 1945 il privilegio fu rinnovato da Getúlio Vargas. Oggi gli emigrati dell’Est europeo e dell’Africa dovrebbero ricevere dall’Italia la stessa accoglienza… anche perché sono simili a noi italiani di allora: spinti dalla necessità, giovani e disposti a duro lavoro. La nostra cattiva accoglienza – a Lampedusa, Crotone, Gorizia, Caltanisetta, Bari-Palese… – è peccato di ingratitudine. Io credo che non possiamo dirci e ritenerci cristiani se siamo xenofobi.
4. Semplicemente migrazione.
A nessuno sfugge quanto sia cresciuto il fenomeno migratorio verso l’Italia, anche se per molti migranti l’Italia è quasi terra di mezzo, di passaggio. È bene tener presente una caratteristica di tale fenomeno attuale: esso non è controllabile, cioè non esiste più emigrazione-immigrazione ma semplicemente migrazione. Mai come oggi i confini mostrano d’essere virtuali, fittizzi. In un mondo globalizzato in cui c’è libero flusso di notizie, prodotti, beni, mezzi e, soprattutto, capitali, è inevitabile il libero flusso di persone. Lottare contro la migrazione, è lottare contro il vento dei mulini. Oggi i nostri figli e nipoti vanno in Inghilterra o Spagna, domani in Pakistan o Nigeria… Patria, addio! “Io, la mia patria or è dove si vive” (Pascoli). Anche in tal senso andiamo verso una società “liquida”, dove le persone sono sempre più apolidi e cosmopolite.
5. La legge del taglione.
C’è un’aggravante. La storia – quella rispettosa della verità – parla di saccheggi e latrocini, di ieri e di oggi, del Nord a spese del Sud. Qualche accenno: nel 1545 i conquistatori spagnoli scoprirono le miniere d’argento di Potosì, in Messico, dove otto milioni di indigeni minatori schiavi sarebbero poi morti di fatica e stenti. I portoghesi, non trovando subito né oro né argento in Brasile, fecero del sangue degli indios l’oro rosso della loro avidità nelle “encomendas”. Gli schiavi africani furono l’oro nero dei colonizzatori. L’oppio fu l’oro bianco di inglesi e statunitensi in Cina. E… oggi ci sono navi-cisterna, della capacità di 250 milioni(!) di litri, che contrabbandano l’acqua dolce (oro azzurro) del Rio delle Amazzoni per l’Europa e l’Oriente Medio.
Ultimamente noi del primo mondo abbiamo letteralmente reso inabitabile dal punto di vista socio-economico-ambientale il terzo mondo. Perciò i terzomondiali “migrano”, vagano alla ricerca di un luogo dove sia possibile vivere. Deprecare la venuta dei terzomondiali nel primo mondo? Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Secondo la legge del taglione – dente per dente, occhio per occhio – noi del primo mondo dobbiamo dare ai terzomondiali nel nostro paese la casa che abbiamo loro distrutto. Dobbiamo riceverli senza esigere documenti e con forte commozione.
Per concludere, speriamo che il razzismo abbia i giorni contati. La storia travolgerà i razzisti nostrani, è solo questione di tempo. La recrudescenza di Lega&C è come quell’inatteso miglioramento del malato in metastasi che prelude la fine. Ma quando assisto scene dove l’intolleranza si une alla crudeltà, mi assale il sospetto che siamo stelle già spente, morte da tempo, così lontane che solo danno l’impressione di brillare ancora.
Io resto devoto di Ugo di San Vittore:
Chi ama la patria è ancora un principiante;
chi ama ogni paese come se fosse sua patria, è già una persona più matura;
ma solo è perfetto colui che si sente straniero in ogni paese.
“Sentirmi straniero dapertutto”: solo così sarò un pellegrino dal piede leggero, per rispetto verso la madre terra.