Israele e Palestina: quale futuro per i colloqui di pace?

Ingrid Colanicchia
Adista Notizie n. 35 del 11/10/2014

Gli scambi di accuse di questi giorni tra Netanyahu e Abu Mazen lasciano poche speranze su quelli che potranno essere i risultati dei colloqui di pace del Cairo. Ma d’altronde a pensare che a partire dai negoziati – guidati dai ben poco imparziali Stati Uniti o dall’Egitto di al-Sisi, acerrimo nemico di Hamas – possa emergere una pace giusta forse non sono rimasti in molti.

Che le cose al Cairo non fileranno lisce lo si è capito già dal 23 settembre scorso, quando un’unità speciale dell’esercito israeliano ha eliminato Amer Abu Aisha e Marwan Qawasme, i due palestinesi sospettati di essere i responsabili del sequestro e dell’omicidio dei tre giovani coloni che in giugno ha dato il via a centinaia di arresti e perquisizioni in Cisgiordania e fornendo da pretesto, poi, all’inizio di luglio, per l’operazione Margine protettivo (che ha causato la morte di più di 2mila palestinesi, perlopiù civili, e di 71 israeliani, di cui 66 militari).

Un’esecuzione mirata quella dei due sospettati, come hanno sottolineato da parte palestinese, che ha indotto la delegazione giunta al Cairo il giorno precedente per il primo round dei colloqui a sospendere le trattative in segno di protesta.

A far temere che non condurranno a nulla di buono stanno anche le dinamiche interne al governo guidato da Netanyahu. Con i consensi in caduta libera durante l’operazione militare, le divisioni create all’interno della compagine governativa dalla decisione di firmare la tregua (con i ministri Avigdor Lieberman e Naftali Bennet nettamente contrari a ogni eventuale concessione) e lo spegnersi dei riflettori a livello internazionale – come sempre al termine dei conflitti –, Netanyahu potrebbe infatti ritenere più proficuo continuare a seguire il suo solito copione: vale a dire mostrarsi, a parole, interessato ai negoziati e al raggiungimento di un accordo, salvo poi dimostrare, coi fatti, l’esatto contrario.

Svuotando insomma di ogni contenuto i colloqui di pace. Lo lascia pensare, per esempio, la decisione annunciata a inizio settembre di dichiarare aree demaniali 400 ettari di terre tra Betlemme ed Hebron al fine di ampliare la colonia di Gvaot. Annuncio accolto non a caso con favore da Bennett – che l’ha definita una giusta rappresaglia per l’omicidio dei tre coloni (Nena News, 3/9) – ma avversato, almeno a parole, dal ministro delle Finanze, Yair Lapid, e dalla ministra della Giustizia, Tzipi Livni. Così come l’annuncio, il 2 ottobre scorso, della decisione di rilanciare il progetto per la costruzione di 2mila nuove abitazioni nella colonia di Givat Hamatos, a Gerusalemme Est.

Lo scenario risulta ulteriormente complicato dallo scambio di accuse, davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, tra il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen e il premier Netanyahu.

Nel discorso pronunciato il 26 settembre scorso il presidente dell’Anp ha accusato Israele di genocidio e ha rivolto critiche durissime alla colonizzazione israeliana, chiedendo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvi una risoluzione con un calendario preciso per la fine dell’occupazione israeliana e l’istituzione dello Stato palestinese.

La risposta di Netanyahu non si è fatta attendere. Nel discorso tenuto due giorni dopo nella stessa sede, il premier ha difeso l’operazione Margine Protettivo e l’esercito israeliano – che ha definito il più «morale» al mondo – lanciando accuse anche al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, il quale, per Netanyahu, «ha tradito la sua missione di proteggere gli innocenti», diventando «il consiglio per i diritti dei terroristi».

Ma se la dura replica di Netanyahu era ampiamente prevista, brucia invece il no di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia già incassato dalla proposta di Abu Mazen.

Di nuovo uniti

Sul fronte palestinese, destavano qualche preoccupazione per la tenuta del governo di unità nazionale le tensioni delle settimane passate tra Hamas e Anp, con Abu Mazen che accusava Hamas di portare avanti un “governo ombra” a Gaza e Hamas che in risposta accusava il presidente dell’Anp di sabotare l’accordo di riconciliazione (ma i problemi interessavano anche il mancato pagamento da parte dell’Anp degli stipendi dei dipendenti del governo di Hamas a Gaza, come precedentemente stabilito).

Tensioni che tuttavia sembrano essere acqua passata: Fatah e Hamas hanno infatti annunciato di aver raggiunto un accordo per la ricostituzione di un governo di unità nazionale che comprenda tutti i territori palestinesi.

Tribunale Russell

Negli stessi giorni in cui a New York si consumava la rottura dei rapporti tra Netanyahu e Abu Mazen – che vedremo come e se inciderà sui colloqui del Cairo che dovrebbero riprendere in questo mese di ottobre – a Bruxelles si riuniva la sessione straordinaria del Tribunale Russell per la Palestina allo scopo di esaminare gli attacchi sferrati contro Gaza durante l’operazione Margine Protettivo. Le conclusioni del Tribunale Russell, presentate al Parlamento Europeo, non destano alcuna sorpresa.

Israele, per la giuria del Tribunale Russell – composta da giuristi, intellettuali e difensori dei diritti umani di prestigio mondiale tra i quali Ken Loach, Vandana Shiva, Richard Falk –, è colpevole di gravi crimini. Tra cui «omicidi volontari; distruzione di proprietà non giustificata da necessità militari; attacchi diretti intenzionalmente contro la popolazione civile e contro obiettivi civili; uso sproporzionato della forza; attacchi contro edifici religiosi e scuole; uso di palestinesi come scudi umani; impiego di armi, proiettili, materiali e metodi nelle azioni di guerra di natura tale da causare danni eccessivi e inutili sofferenze; uso della violenza per diffondere terrore tra la popolazione civile».

Nelle sue conclusioni il Tribunale richiama Israele all’adempimento dei suoi obblighi secondo il diritto internazionale e invita lo Stato di Palestina ad accedere, senza ulteriori ritardi, allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Ma il richiamo del Tribunale Russell è anche alla comunità internazionale che deve collaborare per mettere fine alla situazione di illegalità che deriva dalla occupazione israeliana, dall’assedio e dai crimini nella Striscia di Gaza. «Tutti gli Stati – si legge in una nota diffusa al termine dei lavori – devono prendere in considerazione appropriate misure per esercitare una sufficiente pressione su Israele, compresa l’imposizione di sanzioni e l’interruzione di relazioni diplomatiche, collettivamente, attraverso organizzazioni internazionali o, in assenza di consenso, individualmente rompendo le relazioni bilaterali con Israele».