Carceri: detenuti da morire

Tania Careddu
www.altrenotizie.org

Si uccidono a centinaia e ci provano a migliaia. Ogni due detenuti che muoiono, uno passa inosservato. Di alcuni si ha certa contezza. “Nel 2013 abbiamo contato, nelle carceri italiane, 6.902 atti di autolesionismo, 4.451 dei quali posti in essere da stranieri, e ben 1.067 tentati suicidi. Cinquecentoquarantadue sono stati gli stranieri che hanno provato a togliersi la vita in cella e che sono stati salvati dalla Polizia Penitenziaria. Più stranieri che italiani si sono resi protagonisti di episodi di ferimenti – quattrocentonovantacinque sui complessivi novecentoventuno – e di colluttazione.

Sulle morti in carcere, invece, il dato si inverte: più italiani. Dei quarantadue suicidi accertati nelle celle lo scorso anno, ventidue erano italiani e venti stranieri e, anche sui decessi per cause naturali, centoundici complessivamente, gli italiani erano la maggioranza, ottantasette. Trasversale, invece, la composizione del numero complessivo di detenuti che hanno dato vita, nel 2013, a ben settecentosessantotto manifestazioni contro il sovraffollamento carcerario a favore di indulto e amnistia: hanno aderito a queste proteste, complessivamente, 85.066 ristretti”.

Questi i dati forniti dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (ma per Ristretti Orizzonti, il notiziario dal carcere, i suicidi sono quarantanove) che confermano che la frequenza dei suicidi tra i detenuti è venti volte superiore a quella che si osserva fra i “liberi cittadini”. Sì perché, numeri a parte, i carcerati sono tutti soggetti a rischio se posti in una situazione a rischio. Con l’intensificarsi del sovraffollamento, con la diminuzione delle opportunità di lavoro interno, delle risorse economiche per il trattamento dei detenuti e del personale penitenziario che se ne occupa, la detenzione diviene appunto un rischio.

Nel dettaglio: la popolazione detenuta, dal sessanta a oggi, è raddoppiata, mentre la capienza delle galere è aumentata solo di diecimila posti; le celle sono ancora dimensionate – otto metri quadrati più quattro per il bagno annesso – in base al Regolamento di Igiene Edilizia delle Strutture ad Uso Collettivo del 1947 e ospitano anche fino a tre inquilini; il lavoro nelle carceri, obbligatorio, è raro; la Riforma della Medicina Penitenziaria, iniziata nel 1999, è ancora in corso e, nel frattempo, bassi investimenti da parte delle Aziende Sanitarie Locali hanno peggiorato i livelli di assistenza per i detenuti malati.

Condizioni disumane che esseri umani, già vulnerabili, percepiscono di meritare perché non più portatori di alcun diritto, di alcuna identità. Con l’horror vacui, tradotto dagli operatori del settore come mancanza di prospettive, che accomuna i suicidi appena arrestati e quelli che stavano per terminare la pena.

Il tutto spiegato puntualmente ad Altrenotizie dalla coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone, Susanna Marietti: “Nello scorso 2013, nelle carceri italiane, si sono contati 6.902 atti di autolesionismo e ben 1.067 tentati suicidi, quarantadue dei quali riusciti. Sono numeri sproporzionati rispetto a qualsiasi paragone esterno. Il segno, certamente, di un’utenza carceraria già selezionata in ingresso e andata a pescare in quella fascia di marginalità sociale che più di tutte frequenta la disperazione e la mancanza di prospettive. Ma anche il segno di un’incapacità del sistema di intercettare le singole storie di vita. Dietro ogni suicidio c’è una scelta personale ma c’è anche il fallimento di un’istituzione che non sa leggere la disperazione individuale delle persone detenute”.

Intanto, dopo appena tre mesi del 2014, i suicidi nelle celle sono già undici. E niente lascia intravvedere un panorama ancor più drammatico per i prossimi mesi. Amnistia, depenalizzazione dei reati minori, abrogazione della Bossi-Fini e della Fini-Giovanardi, che oltre ad essere incostituzionali e condannate dalla giurisprudenza europea, sono le cause principali dal punto di vista numerico del sovraffollamento, restano ancora cammini impercorribili. La politica, del resto, ha cose più importanti di cui occuparsi. O no?

—————————————————————–

Tre sadici e una cella. A Poggioreale va in scena l’orrore

Valentina Soria
popoff.globalist.it

Tre aguzzini sadici che di notte si divertono a inveire a suon di percosse sui detenuti nelle viscere di un carcere, lì dove l’occhio delle telecamere non arriva. Una storia agghiacciante che promette ulteriori sviluppi poco rassicuranti. Non si tratta di una pellicola dalla sceneggiatura drammatica, dove i “secondini” assumono tratti arroganti e spietati. Nessuna finzione. Il luogo degli orrori è reale e si trova a Napoli: il carcere di Poggioreale.

Circa novanta denunce in tutto per maltrattamenti subiti nel carcere sono state rilasciate alla Procura partenopea. Cifre destinate, probabilmente, a crescere, ma sufficienti per smuovere gli ambienti della magistratura napoletana. Nel mese di gennaio è partita l’inchiesta condotta dal pm Pietro D’Avino. Ogni giorno aumenta il numero dei detenuti o ex-reclusi del carcere che decidono di denunciare i maltrattamenti subiti all’interno della struttura ad opera di quella che essi stessi definiscono “la squadretta della uno bianca”, in memoria degli avvenimenti che dal 1987 al 1994 terrorizzarono Bologna. Ventiquattro omicidi, centotre tra rapine e assalti furono allora compiuti dalla banda criminale guidata dai fratelli Savi, tutti poliziotti.

La “squadretta”, secondo i detenuti, sarebbe composta da tre o quattro agenti di polizia penitenziaria, ai quali i carcerati hanno assegnato diversi soprannomi. C’è “ciondolino”, che «quando arriva da lontano lo riconosci per via di quel tintinnio del mazzo di chiavi attaccato ai pantaloni». Ci sono “melella” e “piccolo boss”. Quest’ultimo «non è molto alto di statura, però picchia forte e zittisce chiunque».Tutti riconoscibilissimi, visto che agirebbero a volto scoperto.

Nelle testimonianze dei detenuti è ricorrente il riferimento a una camera, sprovvista di videosorveglianza, chiamata “cella zero”, situata al piano terra dell’edificio, che nell’aspetto e nel grigiore incarna perfettamente l’idea del carcere come luogo di punizione. Il buio, l’umidità, il cattivo odore dominano le lunghe camerate distribuite in otto padiglioni, intersecati da corridoi di raccordo. Poi l’abisso, nelle viscere della struttura della “cella zero”, dove il buio si confonde con l’odore di sangue. Violenze gratuite, trattamenti disumani, abusi continui e pareti macchiate dal sangue dei carcerati picchiati, sangue che fa paura agli stessi malfattori, che indosserebbero, a detta dei detenuti, guanti in lattice per proteggersi dal pericolo di contrarre infezioni. Un inferno nell’inferno, dove la pena da scontare è doppia, dove si è costretti al silenzio per non incorrere in nuove vessazioni, dove di notte prende il sopravvento la violenza in chi dovrebbe sedarla. Un luogo dell’orrore che somiglia ad Abu Ghraib, la prigione centrale di Baghdad, in cui, fra l’ottobre e il dicembre del 2003, si consumarono abusi e violenze di ogni tipo da parte di militari statunitensi nei confronti di prigionieri iracheni.

È raccapricciante quanto si apprende dalle pagine della denuncia che Adriana Tocco, garante della Regione Campania per i diritti dei detenuti, ha presentato alla Procura partenopea nel mese di gennaio, dopo che le denunce crescevano. Le ombre sulla presunta cella zero, luogo di pestaggi e soprusi, prendono consistenza e, tra smentite e allusioni, si infittisce la rete di sospetti intorno al carcere di Poggioreale.

Hanno fatto il giro del web le immagini del cadavere di Federico Perna, che la madre ha voluto rendere pubbliche. Un corpo martoriato quello di Federico, morto l’otto novembre scorso nel carcere di Poggioreale per arresto cardiaco, secondo la perizia della Procura. Un responso che non soddisfa e non dà pace alla madre del trentaquattrenne. Un esteso ematoma e un’ustione, oltre che la gran quantità di sangue e lividi presenti sul corpo, i segni che lasciano aperti molti, troppi interrogativi, a partire dal perché un giovane gravemente ammalato, quale era Federico, sia stato fatto marcire in carcere.

Federico non ce l’ha fatta, è morto “di carcere” ed il sospetto che il giovane abbia conosciuto l’orrore della cella zero e dei suoi aguzzini è forte, troppo per continuare ad ignorare quanto i detenuti di Poggioreale stanno denunciando dai primi mesi del 2013. «Uno ad uno venimmo accompagnati nella cella zero e picchiati selvaggiamente» si legge nella denuncia presentata in Procura da Adriana Tocco. Una denuncia che pesa come una spada di Damocle sulla casa circondariale, già fortemente tenuta d’occhio dal ministero della Giustizia e dall’amministrazione penitenziaria per il degrado, il sovraffollamento e le condizioni sovrumane di vivibilità.

«Erano le ventidue e trenta, io stavo appoggiato alla mia cella quando si è fermato un agente e rivolgendosi a me ha esclamato: “Ma tu vuò fa o’wapp?”. Mi aveva accusato senza motivo di averlo insultato». Così comincia la drammatica testimonianza di un ex recluso, che ha scelto di mantenere l’anonimato.

«Vestiti un attimo che ti devo scendere giù». Sono queste le parole di rito più temute al terzo piano del padiglione Avellino. Il racconto dell’orrore dell’ex recluso continua e si arricchisce di particolari agghiaccianti: «Mentre uno di loro mi trascinava giù per le scale, c’erano altre due guardie ad attendermi al piano terra, nella “cella zero”, che appena mi hanno visto arrivare hanno cominciato a insultarmi, a intimarmi di spogliarmi per poi picchiarmi selvaggiamente dietro la schiena, minacciandomi di non riferire quanto accaduto o chiedere di medicarmi in infermeria perché la punizione sarebbe stata esemplare». Ha la voce sofferta e gli occhi pieni di lacrime l’autore del raccapricciante racconto. «Ho scelto di denunciare perché abusi del genere non avvengano più e i detenuti possano scontare la loro pena con dignità».

Nella denuncia fatta da Adriana Tocco a Giovanni Melillo, procuratore aggiunto di Napoli, si legge che l’ex detenuto piangeva disperatamente mentre raccontava delle sevizie subite e quello che lo tormentava era il motivo per cui avevano voluto umiliarlo in quel modo bestiale. La garante dei detenuti riferisce di aver avuto comunicazione dei nomi degli agenti coinvolti, che sarebbero sempre gli stessi. «La maggior parte dei reclusi ha paura di denunciare le violenze subite per timore di ritorsioni», si legge nell’esposto.

«I racconti sono tutti coerenti ed evidenziano alcuni elementi comuni: i detenuti raccontano di essere stati prelevati dalle loro celle senza criterio. Il fine univoco degli agenti, chiaramente tra loro programmato, è dare sfogo alla loro violenza gratuita e costringerli a subire trattamenti disumani. I dettagli sono drammatici: dopo le percosse inflitte a mani nude o con stracci bagnati, per non lasciare segni, i detenuti vengono abbandonati per ore e poi riaccompagnati al reparto di appartenenza. Molti compagni di cella confermano lo stato di agitazione, mortificazione e soggezione degli sfortunati deportati, che rientrano gonfiati di botte».

Nella missiva Adriana Tocco si dice convinta che «subire abusi così atroci costituisce una possibile causa concorrente ad altri fattori determinanti l’aumento del rischio di suicidi, come il precario stato psicologico dei reclusi nel carcere di Poggioreale». Accorato il suo appello perché la magistratura verifichi in tempi celeri la veridicità dei racconti e garantisca la punizione dei responsabili.

«Venivo trascinato di notte in una cella isolata dell’istituto di pena dove aveva inizio il calvario e in quei momenti ho desiderato di morire». Un’altra testimonianza di violenze e soprusi, che ha sempre lo stesso canovaccio. Un altro episodio scioccante consumatosi tra le mura di Poggioreale. La vittima, condannata a due anni e dieci mesi per ricettazione di buoni pasto, sceglie di mantenere l’anonimato. L’ex detenuto è uscito dall’istituto di pena lo scorso 10 gennaio, ma già dietro le sbarre aveva deciso di denunciare le violenze subite.

Poi c’è Luigi, quarantadue anni, comproprietario di una salumeria a Napoli, sposato e con figli adolescenti. Dopo un primo periodo detentivo, Luigi ottiene gli arresti domiciliari e dopo poco l’autorizzazione a riprendere il lavoro. Un giorno, andando al negozio, fa tardi e sfora l’orario assegnato dai giudici. Per lui ricominciano i guai. La Corte di appello aggrava la misura restrittiva e così Luigi finisce di nuovo a Poggioreale. Nei due mesi e mezzo di detenzione gli capita un incidente: una caduta di quattro metri dal letto a castello gli provoca una frattura a una caviglia. Poi, in una notte di luglio, arriva il pestaggio da parte di tre agenti penitenziari. Una volta libero Luigi ha messo nero su bianco il racconto dei maltrattamenti subiti dietro le sbarre. Lo ha fatto per se stesso e, sottolinea, «soprattutto nell’interesse dei suoi compagni di reclusione ancora in cella». Luigi attende di essere convocato dal magistrato per fare nomi e cognomi.

I racconti si assomigliano tutti nei tempi e nelle modalità. A far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. C’è poi qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti, un ragazzo italiano di trentacinque anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero tre giorni consecutivi. Tre lunghi giorni nella stanza delle torture, giorni che lui ricorda come «infiniti».

Mario Barone, presidente dell’associazione Antigone, definisce l’esistenza di una possibile “cella zero” come «quello spazio, che si apre all’interno delle Istituzioni, in cui vige l’assenza di diritto. E’ una terra di confine, che si sottrae ad ogni territorio di legittimità, in cui si assiste ad una vera e propria sospensione dello stato di diritto». Antigone è un vero e proprio osservatorio, che nasce per rendere trasparente il carcere. «I nostri osservatori, presenti su tutto il territorio nazionale, visitano gli istituti di pena», racconta il presidente dell’associazione. «Questo straordinario e capillare lavoro si trasfonde nel rapporto annuale sulle condizioni di detenzione, che mira a portare ad una riforma del sistema penale in Italia».

Mario Barone la cella zero non l’ha mai vista, ma gli è capitato, racconta, di visitare, in qualità di osservatore, un reparto a Poggioreale, il cosiddetto “Avellino destro”, in cui erano stipati dai quindici ai venti detenuti in isolamento. Alla sua richiesta di motivazioni, rivolta all’amministrazione penitenziaria, non è seguita alcuna risposta. Era il mese di maggio del 2013 quando Antigone decise di denunciare l’accaduto. L’appello venne raccolto dal parlamentare Luisa Bossa che subito presentò un’interrogazione parlamentare per chiedere al ministro di Grazia e Giustizia Anna Maria Cancellieri quali fossero i criteri che reggevano questi reparti. Ad oggi una risposta ancora non c’è stata.

Il presidente di Antigone va oltre e parla di un vero e proprio “sistema Poggioreale” che alimenterebbe le violenze: «Duemila e ottocento detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di milletrecentoottanta, stipati in meno di tre metri quadrati. L’attività di formazione è assente. Gli educatori carcerari sono diciannove a fronte di circa settecento agenti di polizia penitenziaria. Il lavoro interno è destinato solo a duecento detenuti, che sono coinvolti in progetti di rieducazione. E’un sistema retto da una sola parola: sicurezza. Sono pochissime le risorse per i progetti di riabilitazione. I detenuti non fanno niente dalla mattina alla sera, sono soggetti che non dispiegano la propria energia attraverso attività positive e possono essere gestiti solo con la sicurezza». Un margine, quindi, molto labile, tra sovraffollamento e acuirsi di episodi di violenza. È costante il pericolo di escalation, che potrebbero non risparmiare chi è tenuto a salvaguardare la pax carceraria.

In prima linea per una riforma imminente del sistema carcerario campano nel suo complesso è la stessa Adriana Tocco: «Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta valutando la possibilità di costruire un nuovo carcere in Campania, che consentirebbe di alleviare le condizioni di disagio estreme presenti attualmente. Stiamo lavorando con l’amministrazione locale per accelerare la procedura di sblocco degli undici milioni di euro destinati ai corsi di formazione e ai progetti di lavoro per i detenuti, fermi ormai dal 2010. Ciò consentirebbe di offrire ai detenuti opportunità di lavoro esterno e di bloccare l’effetto “porta girevole” per cui, chi pur avendo scontato la pena, nel 70 per cento dei casi rientra nel circuito penale».

In attesa che la magistratura faccia il suo corso e non si spengano i riflettori sul caso Poggioreale un primo risultato è stato ottenuto, dopo l’avvio dell’inchiesta sui maltrattamenti denunciati. E stata ottenuta, infatti, come fa sapere la stessa garante dei detenuti, un’ispezione dell’intero edificio da parte di osservatori autorizzati dal ministero di Grazia e Giustizia. Il sopralluogo potrebbe portare probabilmente a far luce sul presunto luogo delle torture o quantomeno ad aggiungere informazioni ulteriori da sottoporre al vaglio degli inquirenti.