L’Iran al centro del ginepraio mediorientale

di Stefano Rizzo
da www.aprileonline.info

Certamente la vecchia strada di alternare minacce a timide aperture seguita negli ultimi anni dall’amministrazione Bush non è sufficiente e Obama sembra averlo capito. Il problema del nucleare iraniano si risolve a Mosca e a Pechino: senza la collaborazione di questi due stati, l’Iran non cederà mai alle pressioni degli occidentali. La posta in gioco è molto alta: non solo fermare la proliferazione nucleare, ma l’intero Medioriente

Nel clima plumbeo che caratterizza da anni la situazione del Medioriente – plumbeo e immobile come di un temporale che si avvicina – la notizia che è arrivata ieri da Ginevra costituisce una prima parziale schiarita. Innanzitutto per il fatto che la riunione tra i cinque paesi membri del Consiglio di sicurezza (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito), più la Germania, con il rappresentante dell’Iran si sia tenuto. Non era scontato: dopo la rivelazione, la scorsa settimana, di un impianto segreto iraniano per l’arricchimento dell’uranio e la dura presa di posizione dei leader occidentali con la minaccia di nuove sanzioni economiche, gli iraniani avevano risposto con un gesto di sfida, e sembrava che tutto sarebbe saltato.

E invece l’incontro a sette si è tenuto per tutta la giornata di giovedì, prima in riunioni plenarie e poi con una serie di incontri bilaterali. E’ stata la prima volta dalla rivoluzione iraniana (1979) che un rappresentante di alto livello degli Stati Uniti, il sottosegretario agli esteri William Burns, si è incontrato con un suo omologo iraniano. C’erano stati in passato altri incontri, ma limitati e per lo più ufficiosi, quando gli Stati Uniti avevano chiesto la collaborazione di Teheran per fermare le infiltrazioni di insorti in Iraq.

La riunione era stata preceduta dalla visita, la prima da oltre dieci anni, del ministro degli esteri iraniano Manouchehr Mottaki all’ufficio di rappresentanza a Washington presso l’ambasciata pakistana (gli Stati Uniti e l’Iran non intrattengono relazioni diplomatiche formali da trenta anni). Anche se Mottaki non ha, a quanto si sa, incontrato nessun rappresentante americano, anche questo è stato preso come un gesto distensivo in vista della riunione di Ginevra che si sarebbe tenuta il giorno dopo. Questo quanto ai gesti simbolici e alle schermaglie diplomatiche.

Quanto alla sostanza, i risultati di questo primo incontro sono ancora molto incerti. Gli occidentali si erano presentati con il vecchio pacchetto di minacce e di incentivi (eliminazione delle sanzioni in cambio del blocco dell’arricchimento dell’uranio e, eventualmente, vendita all’Iran dell’uranio arricchito di cui dice di avere bisogno per scopi scientifici), una proposta che il governo di Teheran aveva già respinto in passato quando era stata avanzata dall’amministrazione Bush.

E invece, contrariamente alle previsioni, un passo avanti è stato fatto: l’Iran accetta di aprire entro quindici giorni il proprio impianto segreto di Qom alle ispezioni dell’Agenzia atomica delle Nazioni Unite (AIEA) e, a sorpresa, accetta di consegnare “la maggior parte” del proprio uranio arricchito agli occidentali perché sia trasformato in combustibile da utilizzare in una centrale atomica. Non si capisce bene se questa sia una concessione degli occidentali o degli iraniani. Non vi è nessuna sicurezza, infatti, che tutto l’uranio venga consegnato e soprattutto che non vi siano altri impianti segreti di arricchimento. Ma intanto è tempo guadagnato sull’eventualità che l’Iran costruisca una bomba atomica.

Entro la fine di ottobre è previsto un nuovo incontro che dovrà verificare la buona fede iraniana, dal momento che nessuno crede alle assicurazioni, ribadite anche questa volta, che il governo di Teheran non ha nessuna intenzione di costruire una bomba atomica . Ma per il momento si fa finta di crederci perché non ci sono alternative.
Del resto, le armi dell’Occidente sono spuntate. All’inizio della sua presidenza Barack Obama aveva offerto il dialogo senza precondizioni, ma poi c’erano state le elezioni farsa e la dura repressione contro le manifestazioni di protesta da parte di Ahmadinejad con l’appoggio della suprema guida spirituale Khamenei. Di fronte alla rinnovata aggressività iraniana, l’ipotesi di un attacco da parte degli Stati Uniti o di Israele contro gli impianti nucleari in costruzione si era di nuovo fatta concreta.

Obama, già in difficoltà in Afghanistan, aveva incominciato ad usare lo stesso linguaggio del suo predecessore avvertendo che “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Allo stesso tempo tutti gli esperti militari sono consapevoli che un attacco dall’alto non potrebbe mai dare la sicurezza di avere distrutto tutti gli impianti di arricchimento (della cui ubicazione oltretutto non vi è certezza), con l’unico risultato sicuro di spingere l’Iran ad accelerare il proprio programma nucleare. Quanto alle sanzioni economiche, l’esperienza insegna che finiscono per danneggiare gli strati più deboli della popolazione e rafforzare ideologicamente il regime che le subisce.

La strada del dialogo è quindi l’unica per sventare la minaccia di una ulteriore proliferazione nucleare in Medioriente, che preoccupa, com’è ovvio, Israele (che comunque già possiede un arsenale atomico), ma anche gli stati arabi della regione. Certamente la vecchia strada di alternare minacce a timide aperture seguita negli ultimi anni dall’amministrazione Bush non è sufficiente e Obama sembra averlo capito. Il problema del nucleare iraniano si risolve a Mosca e a Pechino: senza la collaborazione di questi due stati, l’Iran non cederà mai alle pressioni degli occidentali.

La posta in gioco è molto alta: non solo fermare la proliferazione nucleare (dopo l’Iran sarebbe la volta di altri stati a volere la bomba atomica – Arabia saudita, Egitto…), ma l’intero Medioriente. Un accordo con Teheran, che sostiene e arma Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, aumenterebbe le possibilità di un accordo di pace tra palestinesi e israeliani; e potrebbe anche aiutare gli Stati Uniti a districarsi dal pantano afgano, dal momento che l’Iran ha migliaia di chilometri di confine in comune con l’Afghanistan e intrattiene ottime relazioni con il Pakistan. Riportare Teheran nel gioco diplomatico internazionale avvicinerebbe la soluzione di molti problemi fin qui inestricabili.