CONFESSIONALI ADDIO? UNA NUOVA VISIONE DEL PECCATO E DELLA MISERICORDIA
DOC-2187. LODI‑ADISTA. Più che di crisi, per il sacramento della penitenza si può senz’altro parlare di rischio di sparizione. Che una percentuale sempre più ridotta di credenti osservi il precetto di “confessarsi almeno una volta all’anno” non è un segreto per nessuno, se lo stesso papa ha esortato i preti a non rassegnarsi a vedere i confessionali deserti. Le ragioni addotte sono varie: si parla di perdita della coscienza del peccato, si sottolinea come i preti non siano più visti come intermediari tra Dio e i fedeli, si spiega ‑ come fa il teologo belga Roger Lenaers nel suo libro “Il sogno di Nabucodonosor o la fine di una Chiesa medievale”, appena uscito in italiano per i tipi della Massari editori (della versione in spagnolo Adista si è occupata sul n. 44/09) ‑ che la confessione è irrimediabilmente legata ad un universo mentale (quello eteronomo delle rappresentazioni cristiane tradizionali, in cui il nostro mondo appare completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni) che ha sempre meno senso per l’uomo occidentale del terzo millennio.
Che una riforma su questo terreno si imponga necessariamente sono in tanti a pensarlo. Così, se Lenaers propone di trasformare il sacramento della confessione in un sacramento “della cura o della guarigione”, segnalandolo come una tappa in un processo di ricostruzione personale, don Ferdinando Sudati (Religión Digital, 28/8), teologo della diocesi di Lodi, individua nella celebrazione comunitaria della Penitenza con assoluzione generale “una buona alternativa a quella individuale e privata”, ricordando, però, che “il vero problema non è cambiare un rituale ‑ per quanto questo sia un passo necessario ‑, ma entrare in una visione del peccato, del perdono e della misericordia di Dio con una rinnovata teologia”.
Di seguito l’articolo di p. Sudati, in una nostra traduzione dallo spagnolo. (c. f.)
———————————————————–
UNO STRUMENTO PERICOLOSO
di Ferdinando Sudati
da Adista Documenti n. 91 del 19/09/2009
(…) Premessa
C’è una sola religione al mondo – e, nel caso ne esistesse un’altra, la sostanza del discorso non cambierebbe – che ha imposto la pena dell’inferno a quei fedeli che non confessino a un altro essere umano, investito per tale compito, i propri peccati. Una religione in cui per inferno si intende una condanna di durata eterna, senza possibilità di appello, di revisione o di amnistia. E per peccato qualcosa di “grave”, ma che, secondo le epoche, può anche consistere in qualcosa di insignificante (visto nella prospettiva odierna) o di appartenente alla sfera “interiore”, come può essere un pensiero o un impulso dell’animo, e pertanto senza conseguenze per il prossimo.
Indipendentemente dal fatto che si tratti di un solo peccato – e del più piccolo tra i gravi – o piuttosto di una serie innumerevole di gravi delitti, la pena non varia: è sempre l’inferno.
Questa religione è la cristiano-cattolica. Proprio quella che si è sempre considerata la più elevata tra quelle finora apparse sulla faccia della Terra e la paladina quasi esclusiva dell’amore e della misericordia di Dio.
Molte religioni hanno previsto una confessione più o meno spontanea dei propri peccati a Dio, soprattutto alla fine della vita, ma nessuna con l’obbligo previsto da quella cristiano-cattolica.
Una confessione che deve passare, inoltre ed essenzialmente, per la mediazione di un essere umano. Nessuna ha fatto di un’offerta di perdono, e pertanto di un “mezzo di salvezza” – come sono designati i sacramenti –, uno strumento tanto pericoloso, che può costituire persino un rischio di perdizione eterna, come è avvenuto nella religione cattolica.
È che la confessione risulta una feroce mescolanza di perdono e minaccia, di misericordia e di sadico castigo. Se qualcuno crede che sto esagerando, è forse perché ha in mente la Penitenza come la si è amministrata questi ultimi anni e, soprattutto, perché ignora l’insegnamento ufficiale del Magistero (catechismi, documenti e libri di teologia approvati) e la normativa canonica in vigore. Una dottrina che, se sembra incredibile, è perché non sta più in piedi, è diventata antiquata.
Proposizioni
1. Dire che la Confessione “more tridentino”, ossia quella attualmente in uso nella Chiesa cattolica, è stata istituita da nostro Signore Gesù Cristo è uguale ad affermare che la Curia romana è stata immaginata e voluta da lui.
2. La Confessione, nel suo aspetto obbligatorio (e afflittivo) di autodenuncia del proprio peccato ad un altro essere umano, è considerata oggi come non rispettosa – per non dire ingiuriosa – della dignità umana, in quanto viola il diritto alla privacy, introducendo nell’ambito della fede o della religiosità una dinamica più adeguata a un tribunale civile, che deve perseguire e punire delitti.
3. La Confessione, nella maggior parte dei casi, serve ad eliminare i sensi di colpa che l’istituzione ecclesiastica stessa, attraverso la pratica del Sacramento, ha provveduto a generare nella coscienza dei credenti. Si tratta di una specie di “imprinting” negativo, dovuto a secoli di martellamento teorico e pratico, che presenta evidentemente la necessità successiva del ricorso compulsivo alla Confessione.
4. La Confessione può offrire, nel migliore dei casi, un senso di perdono e di pace interiore, quando si realizza in un clima di libera decisione e fiducia in Dio, non per un senso di contrizione e di paura di una condanna. Generalmente, tuttavia, è quest’ultimo aspetto che prevale e che muove la macchina della Confessione.
5. La celebrazione comunitaria della Penitenza con assoluzione generale, così come è sollecitata e difesa teologicamente e pastoralmente da un teologo moderato – non certo un rivoluzionario del ’68! – come il padre Domiciano Fernández († 2001), potrebbe rappresentare oggi una buona alternativa a quella individuale e privata.
6. Immediatamente e senza grandi scompigli, si potrebbe contare su un doppio canale penitenziale per il perdono dei peccati nella Chiesa: la celebrazione pienamente comunitaria, come forma ordinaria, e la celebrazione individuale, come forma secondaria (che si realizzerebbe a richiesta del fe-dele).
7. L’orientamento vaticano appare, invece, propenso a cancellare anche l’attuale e timida terza forma comunitaria. In realtà, non sarebbe un gran danno, dal momento che essa è vincolata a clausole tali da renderla impraticabile ed essenzialmente inservibile. In ogni caso, non è indubbiamente un buon segnale da parte dell’istituzione.
8. Quanto precede non annullerebbe la possibilità, per chi lo desideri o lo necessiti, di celebrare la Confessione in forma individuale. La trasforma, in caso, in qualcosa di più cosciente e, possibilmente, più fruttuoso.
9. In assenza di una riforma da parte di chi ha il comando nella Chiesa, il popolo di Dio ha proceduto spontaneamente, “motu propio” si direbbe, a cambiare le cose. In che modo? Disertando il confessionale o piuttosto non confessando i peccati sessuali. Pertanto, se questa categoria di peccati rappresenta il 90% della materia della Confessione, ecco qui che il sacramento si trova improvvisamente vuoto di so-stanza. Si trasforma in qualcosa di superfluo e insignificante, praticamente una perdita di tempo per penitenti e confessori: i peccati “antichi” smettono di esistere, restando tutt’al più come un inventario di irrilevanze, e i “nuovi” non fanno ancora parte della sensibilità generale.
10. I pochi che confessano ancora peccati di tipo sessuale – a parte lo stupro, la violenza e la pedofilia, che sono avvertiti come colpa, ma i cui autori non ricorrono generalmente al confessore – ricordano coloro che un tempo venivano chiamati “scrupolosi”. Cioè, persone un po’ particolari o con una coscienza f
orse educata troppo finemente. D’al-tra parte, la Confessione, così come è stata ideata e regolamentata dal Concilio Lateranense IV e, particolarmente, dopo Trento, doveva trasformarsi necessariamente – e così è stato dimostrato – in una fabbrica di scrupoli, cioè di infermità psichiche di eziologia religiosa. Bisognerebbe meravigliarsi del contrario!
11. Con ciò, non voglio dire che chi si confessa per tradizione e devozione (e con l’“imprinting” psichico in funzione) sia un malato e ancor meno voglio fare apologia delle persone con una coscienza rozza. Dio me ne scampi! Dico solamente che la Confessione, nei suoi “pilastri tridentini”, appartiene a una cultura già tramontata.
12. È chiaro che il cristiano di oggi vede e riconosce altri peccati, al di là di quelli enumerati precedentemente, in relazione alla sessualità. Tuttavia, la secolare esagerazione da parte della Chiesa nell’attribuire gravità quasi esclusivamente a quanto relazionato a questa sfera e, soprattutto, l’acuto desiderio di indagare nella vita sessuale delle persone ha condotto queste – per reazione – a liberarsi dalla soffocante tutela e a blindare totalmente questo settore.
13. In fin dei conti, il vero problema non è cambiare un rituale – per quanto questo sia un passo necessario -, ma entrare in una visione del peccato, del perdono e della misericordia di Dio con una rinnovata teologia. L’epoca pre-moderna è ormai passata. Per alcuni, da quattro secoli. Per tutti, da almeno 65 anni. Prendo come riferimento la conclusione del Concilio Vaticano II: una data convenzionale ma significativa.