Israele, le donne del Muro vincono la prima battaglia
Elena Loewenthal
La Stampa, 8 ottobre 2013
Sarà che alla radice di tutta questa storia c’è il paradosso di un popolo che come luogo di massima
vicinanza al cielo ha non più uno spazio aperto o una navata bensì un Muro – che in ebraico non si
chiama affatto «del Pianto» bensì «Occidentale» – ma ci voleva la giudiziosa saggezza delle donne
per arrivare a un compromesso. Del resto, come dice lo scrittore Amos Oz, compromesso è
sinonimo non di debolezza, bensì di vita.
Nella giornata in cui il traffico di Gerusalemme è paralizzato dai funerali di rabbi Ovadia Yosef,
leader spirituale degli ultraortodossi, arriva l’annuncio che le «donne del Muro» accolgono la
proposta del mediatore Natan Sharansky, ex refusenik dell’Unione Sovietica e ora presidente
dell’Agenzia Ebraica, e si ritirano dalla loro postazione nel settore femminile. È un successo a metà,
che promettono provvisorio. E tuttavia, storico. D’ora in poi, infatti, a qualche decina di metri di
distanza, dall’altra parte del «Mughrabi Bridge», la passerella in legno che conduce dal piazzale
sino alla Spianata delle Moschee – o Monte del Tempio, come lo si voglia chiamare -, le donne
potranno pregare come gli uomini, con lo scialle, il copricapo e i filatteri. E leggere pubblicamente
la Torah. Sarà uno spazio religioso «egualitario» gestito da un comitato ebraico multiconfessionale.
Il movimento «Donne del Muro» viene fondato nel lontano 1988 con l’obiettivo di ottenere non la
promiscuità dei sessi nel luogo di preghiera bensì il diritto di pregare come gli uomini. Il Muro del
Pianto, si badi bene, non è un luogo sacro – l’unico tale per l’ebraismo è l’inaccessibile monte del
Tempio, dove in passato c’era il Santuario – ma una sinagoga a cielo aperto, con due settori separati,
uno femminile e uno maschile.
Queste donne, che appartengono a diversi ambienti religiosi ebraici – ortodossi, liberali, riformati -,
volevano «soltanto» poter pregare come gli uomini. Anche – e preferibilmente – per conto loro. Ma
nell’ebraismo tradizionale le donne hanno un ruolo di pura «osservazione» del culto: non pregano a
voce alta, non leggono la Torah. Le donne del Muro si ritrovavano nel settore femminile di questo
luogo. Ma la loro voce salmodiante «disturbava» la comunità ultraortodossa maschile, responsabile
della gestione del Muro. E ne urtava la sensibilità, al punto da chiedere l’intervento delle forze
dell’ordine, o tentare di farsi «giustizia» da sé, causando disordini. Si è arrivati anche al fermo delle
donne per «disturbo dell’ordine pubblico». Poi nel 2013 la Corte suprema d’Appello ha dichiarato
illegale questa procedura.
Le donne del Muro hanno dalla loro la società civile israeliana, che nella sua stragrande
maggioranza è laica, indifferente se non decisamente ostile all’ortodossia religiosa. Accettando
questa soluzione «salomonica» e battendo in ritirata di qualche decina di metri, dichiarano che la
battaglia non è finita, si avvia solo verso una nuova fase. «Dobbiamo essere agenti di cambiamento
e guardare al futuro. A quel futuro che auspichiamo per le nostre figlie», ha detto Anat Hoffman,
presidente del movimento, dopo il lungo e difficile dibattito che ha condotto alla decisione di
accettare la proposta del governo. Che mondo sarebbe, senza le donne.
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Ultra-corpi
Francesco Bilotta
www.italialaica.it
È di lunedì scorso la notizia che a Gerusalemme le donne potranno pregare davanti al cosiddetto “Muro del Pianto” come gli uomini, ossia ad alta voce, con lo scialle, il copricapo e i filatteri.
È bene ricordare che nell’ebraismo tradizionale le donne hanno un ruolo di pura “osservazione” del culto. Quelle che si sono denominate “le donne del Muro” pregavano nel settore femminile a loro dedicato, ma il loro salmodiare disturbava la comunità ultraortodossa maschile responsabile della gestione del Muro. Erano talmente infastiditi da chiamare le forze dell’ordine. Ne è seguito un procedimento giudiziario e una sentenza della Corte suprema d’appello che qualche mese fa ha dichiarato illegale il fermo delle donne per “disturbo all’ordine pubblico” – una clausola generale che viene invocata in tutti gli ordinamenti quando non si sa bene come impedire l’archiviazione definitiva di una tradizione.
Sarebbe fin troppo semplice – ma a me non interessa – rintracciare una continuità o tracciare le differenze riguardo la considerazione della donna nella tradizione ebraica e in quella cristiana, fino ad arrivare alle voci che vorrebbero al centro dei pensieri dell’attuale Pontefice l’imposizione della berretta cardinalizia a una donna. Mi interessa piuttosto sottolineare come sia difficile e al tempo stesso possibile la rimozione (o la forte attenuazione, come nel caso delle donne del Muro) di un dato culturale, qual è il binarismo di genere. Difficile, perché per ottenere questo risultato le donne di Gerusalemme hanno combattuto a partire dal 1988 sfidando la tradizione e finendo per esporsi perfino a procedimenti giudiziari. Possibile perché ragionando e non seguendo un’ideologia si può uscire da quell’ottundimento che naturalizza un dato culturale e convenzionale qual è il binarismo di genere.
In altre parole, “non si nasce donna” (per citare l’affermazione di Simone de Beauvoir che ha dato il titolo al n. 5 dei Quaderni Viola, nuova serie, a cura di Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli, Edizioni Alegre, Roma, 2013). La condizione delle donne, così come quella di altri gruppi sociali esclusi è il frutto di una stratificazione millenaria di comportamenti che vengono rinnovati nel presente attraverso una costante sottrazione di dignità, con strategie che portano alla ridicolizzazione, all’occultamento e spesso alla manipolazione dei corpi di quanti compongono tali gruppi sociali marginalizzati e che sono capaci di indurre nelle stesse persone su cui agiscono la convinzione del loro ruolo inferiore. È vero per le donne, per le persone omosessuali, trans, malati terminali, anziani, immigrati e così via elencando.
Sul corpo le ideologie (non solo religiose) agiscono fin dalla nascita, come ci ha ricordato la Risoluzione n. 1952/2013 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Sul diritto all’integrità fisica dei bambini, approvata lo scorso 1° ottobre, che esprime una serie di raccomandazioni agli Stati membri del Consiglio d’Europa, con un’affermazione del tutto inedita concernente le operazioni chirurgiche che il più delle volte le persone intersessuali subiscono appena nate. Finalmente si è istituzionalmente dato voce a una realtà, quella delle persone intersessuali, che si tende a occultare. Un intervento chirurgico il cui unico scopo non è il benessere della persona ma la riaffermazione che le categorie di genere maschile e femminile sono “naturali”. Cosa ci sarà di naturale in un intervento chirurgico non è dato sapere. Paradossalmente è proprio questo intervento a confermare che le categorie di genere non sono date in natura, bensì rispondono a specifici criteri culturali (sulla dicotomia di genere, v. l’introduzione al libro Al di là del genere di Lia Viola, Mimesis, Milano, 2013 di Francesco Remotti).
Ma la cancellazione dei corpi (e operata sul corpo) si accompagna quasi sempre alla sottrazione della dignità (su cui v. Martha C. Nussbaum, Disgusto e umanità, Il Saggiatore, Milano, 2011). E qui le strategie di azione si fanno più subdole. La Presidente della Camera ha giustamente richiamato l’attenzione sull’uso del corpo delle donne nelle pubblicità. La pubblicità e il marketing più in generale è un potente strumento contemporaneo di creazione di immagini sociali da diffondere come modelli da desiderare, così da attivare il meccanismo di appropriazione del bene che consente di “incarnare” quell’immagine. È per questo che sinceramente continuo a non capire – pur sforzandomi sinceramente – come si possa derubricare a semplice espressione dell’opinione personale di Guido Barilla, quanto ha detto, alcuni giorni fa, in un’intervista radiofonica circa la filosofia del suo marketing aziendale. Senza tornare su quello che penso della vicenda qui è opportuno sottolineare il fatto che il marketing della Barilla – ma potremmo fare moltissimi altri esempi – ipostatizza consapevolmente quella che Guido Barilla ha definito “la famiglia sacrale”, in cui lo spazio della donna si esaurisce nella sua funzione di accudimento. Il corpo assume in tal modo una funzione simbolica, diventa cioè strumento allusivo di una realtà che lo trascende e che confina con il sacro, ossia con una dimensione separata e inaccessibile ove viene naturalizzata la minore dignità che i corpi reali delle donne possono subire fino alla negazione della loro stessa esistenza.
I corpi vengono in tal modo costretti a un’attribuzione di senso pensata e agita dall’esterno. I corpi sono sacralizzati, cioè separati dalla persona che abita quel corpo. In tal guisa, diventa possibile la “gestione sociale” del corpo. Il corpo deve corrispondere a un senso che gli viene convenzionalmente attribuito, divenendo del tutto irrilevante l’attribuzione di senso che intende operare chi abita quel corpo. L’estrema manifestazione di questo meccanismo è l’atteggiamento diffuso, irritato verso qualsiasi ragionamento intorno all’eutanasia, in cui rimane del tutto irrilevante il significato che per ciascuno ha il vivere e il morire.
Andare oltre il corpo e incontrare chi lo abita è l’unico modo per innescare un riconoscimento empatico dell’altro. Purtroppo sono gli stessi gruppi socialmente esclusi sovente ad agire il meccanismo di esclusione. Ho visto alcune donne discutere per ore sulla possibilità che degli uomini facciano parte dei Comitati di pari opportunità. Contano davvero così tanto le caratteristiche genitali? O non conta di più – proprio per la funzione che quell’organismo dovrebbe assolvere – la storia di una persona e il suo impegno sociale contro l’esclusione?
Mi torna in mente una frase di Porfirio (Sui simulacri, trad. di Franco Maltomini, Piccola Biblioteca Adelphi, 2012) che affermava “Nessuna meraviglia che i più ignoranti considerino le statue pezzi di legno e di pietra”. Il punto però è che i corpi non sono cose inanimate a cui noi possiamo attribuire il senso e la funzione simbolica che più ci aggrada. La nostra è un’ignoranza sul senso che ciascuna persona intende attribuire al proprio corpo, radicale e socialmente costruita, ricercata perché stabilizzante. In un simile contesto, ogni ragionamento sull’autodeterminazione diventa tentativo di sovvertire l’ordine costituito ed è facile il gioco di agitare lo spettro del relativismo etico per incutere paura. Nessuna meraviglia, quindi che ai più sfugga la necessità di un nuovo personalismo che vada oltre i corpi e ci ricordi che non sono pezzi di legno e di pietra.