Egitto, prove generali di un massacro
Marco Alloni
www.micromega.net
malloniPoteva essere altrimenti? La gamaa islamiya, il gruppo radicale che negli anni novanta perpetrò alcuni fra i più efferati crimini in Egitto, ha minacciato di morte i cristiani che parteciperanno alla manifestazione anti-Morsi del 30 giugno. Il leader del gruppo Assem Abdel Maged, coordinatore del movimento “Tagarrud” in sostegno a Morsi, ha qualificato come “estremisti copti” quanti cercheranno di sfiduciare il presidente. La domanda è: poteva essere altrimenti?
Poteva essere altrimenti in un Paese che ha appena prosciolto gli alti dirigenti coinvolti nei massacri di Tahrir del 25 gennaio 2011? Poteva essere altrimenti in uno Stato in cui il presidente della Repubblica convoca, allo stadio del Cairo, migliaia di sostenitori per annunciare la jihad contro Hezbollah e il fronte sciita pro-Assad? Poteva essere altrimenti laddove la popolarità di Mohammad Morsi sta cadendo a picco – 28% secondo una recente statistica dell’Arab American Institute, contro il 35% dei sostenitori del Fronte di Salvezza Nazionale – rimettendo così in gioco lo stantio argomento del “nemico esterno” (Mubarak docet) a fare da controcanto alla perdita di consensi? Poteva essere altrimenti quando è dalle stesse parole del presidente che si riconosce discreditata in anticipo come “violenta e provocatoria” una manifestazione che si annuncia viceversa pacifica e civile? Poteva essere altrimenti in un contesto in cui l’opinione pubblica islamista rigetta come “antidemocratica” la richiesta di elezioni anticipate e definisce kuffar (eretici) gli oppositori politici? Poteva essere altrimenti in un paese in cui 13 su 27 governatori vengono nominati da Morsi attingendo alla confraternita, e dove il nuovo governatore di Luxor, Adel El-Khairat, oltre a essere membro dell’ala politica della gamaa islamiya, è fra i responsabili del massacro di Luxor del 1997 (60 turisti trucidati, fra cui molti svizzeri)?
Il clima egiziano sottende un duplice conflitto che rischia di deflagrare appena sarà dissolta l’opzione offerta dalle opposizioni: il dialogo. Da una parte quel conflitto interconfessionale, latente e mai risolto, che nei giorni scorsi ha trovato nell’esplicita minaccia salafita contro il papa copto Tawadros II – “ordini ai cristiani d’Egitto di non scendere in piazza il 30 giugno” – l’espressione di un’antica vocazione ghettizzante (in passato i cristiani pagavano una tassa, chiamata jizya, in cambio di “protezione” del governo musulmano) e che torna ad acuirsi assumendo a bersaglio, addirittura, la più alta carica della Chiesa d’Alessandria. Dall’altra parte quel conflitto politico che qualcuno ha stigmatizzato come “preludio di una guerra civile”, e il cui fondamento è nella distorsione logica, da parte dei Fratelli musulmani, del concetto di democrazia, ricondotto disinvoltamente a un risultato elettorale che, stando ai sostenitori di Morsi, conchiude perfettamente la legittimità “a prescindere” di guidare il Paese fino a fine mandato. Rimozione deliberata di quel precedente che vide Hitler e Mussolini “liberamente eletti”…
Ma quel che più preoccupa non è lo scenario di incompatibilità fra i due fronti politici e confessionali, che mai come oggi pagano il sofismo morsiano di rubricare il dissenso politico come “attentato alla stabilità”. L’allarme alligna soprattutto all’interno stesso della fratellanza, presso quelle crescenti frange di dissidenti che, pur riconoscendo il fallimento del primo anno di governo di Morsi e del premier Hisham Qandil – per dirne una, la disoccupazione salita dal 9,5% al 25% – assecondano il presidente nel timore (fondato?) che una sua caduta – stando alle parole di una rappresentante del partito moderato islamico Al-Wasat, Nevine Malik – “scatenerebbe l’inferno”. Non è dunque paradossalmente da temere di più che Morsi resti al suo posto, ma che quello che la fratellanza chiama “golpe” lo deponga. La componente islamista della società – la stessa che non esita a convocare una doppia jihad contro lo sciismo siriano e i cristiani etiopi responsabili della costruzione della diga Al-Nahda – darebbe infatti avvio a una “controrivoluzione” dagli esiti e dalla durata imprevedibili, ma dalla violenza scontata.
Diaa Rashwan, politologo del quotidiano Al-Ahram, paventa un rivolgimento di questa natura “qualora la dirigenza dei Fratelli musulmani non appronterà al più presto delle riforme radicali”. Ma va anche oltre: “Senza tali riforme i Fratelli musulmani rischiano di essere surclassati dai salafiti, che politicamente hanno capacità di rinnovamento molto più sviluppate”. Stando le cose in questi termini, è evidente che il processo di scomposizione della società egiziana rischia di degenerare in una carneficina, e la sharia come margaia (come referenza delle leggi ordinarie) diventare il ricettacolo di un risentimento “antirivoluzionario” che finirebbe per farne, questa volta in maniera insindacabile, la risposta estrema alle rivendicazioni dei kuffar, le opposizioni “eretiche”.
La palla è dunque in mano a Mohammad Morsi. La cui megalomania rischia tuttavia di persuadere lui per primo che, per colmo di paradosso, la democrazia non sia negoziabile, e che la revoca di un mandato equivalga a un colpo di Stato. Una megalomania che più di un analista teme surrogata anche dalla posizione americana, che in un “alleato sunnita” troverebbe il miglior baluardo – come accadde negli anni ottanta con Saddam Hussein – contro quella polveriera sciita che è l’Iran. Un Iran la moderatezza del cui neo-presidente Rohani sono in molti a temere come una mera carta elettorale che, nel concreto dei rapporti internazionali, potrebbe rivolgersi nel suo contrario.