Governo pasticcio, programma posticcio

Claudio Conti
www.contropiano.org

Un governo frutto di un compromesso nazionale e di uno internazionale (Usa e Unione Europea) porta inscritta nel proprio dna l’oscillazione continua tra interessi e strategie diverse. Sul fronte interno, Enrico Letta ha quindi esposto un programma in 14 punti che cerca di tenere insieme le indicazioni della Troika (e gli obblighi derivanti dal rispetto del Fiscal Compact) con alcune “promesse” berlusconiane come la cancellazione dell’Imu sulla prima casa o il congelamento dell’Iva al 21%, nvece che al 22 come previsto dalla lege di stabilità. Sul fronte “esterno” dovrà gioco forza cercare di ottenere dalla Troika margini di flessibilità maggiori nella tempistica degli obiettivi imposti (riduzione della spesa pubblica, pareggio di bilancio, riforme strutturali, ecc). Oggi a Berlino, davanti a una Angela Merkel a sua volta ormai in piena campagna elettorale, verificherà se ci sono margini di movimento oppure no.

Sul piano nazionale, Letta ha messo in fila:

1) riforma della «tassazione sulla prima casa», iniziando con lo «stop dei pagamenti di giugno in vista di una riforma complessiva». Più in generale, ha detto, occorre «una politica fiscale della casa che limiti gli effetti recessivi sull’edilizia».

2) lavorare per arrivare a una «rinuncia dell’inasprimento dell’Iva», che dovrebbe scattare dal primo luglio.

3) dare fiato al lavoro, sia sul piano occupazionale che su quello salariale; non basta solo il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, ma punta a «alla riduzione delle tasse sul lavoro: quello stabile, quello sui giovani e sui neo assunti».

4) Una indefinita «riforma del welfare con azioni di ampio respiro. Non occorrono isterismi». Il che preannuncia interventi terribili (su pensioni e sanità, par di intuire) , tali da costringere persino Cgil-Cisl-Uil ad alzare un sopracciglio pensoso. Ha quindi compensato “dando la guazza”, parlando di un altrettanto fumoso “welfare attivo” (che spinga cioè a trovarsi un nuovo lavoro) e “al femminile”; in buona sostanza un “miglioramento” degli ammortizzatori sociali estendendoli a chi ne é privo (i precari) e magari un “reddito minimo” per “famiglie bisognose con figli”.

5) «abolire definitivamente le province», come parte essenzile della strategia di “riavvicinamento” al sentire comune popolare, che chiede di «ridurre i costi dello Stato, valorizzare i comuni e regioni in un’ottica di alleanza, chiudere la partita sul federalismo fiscale rivedendo il rapporto tra centro e periferia». Tutto e nulla, province a parte.

6) con gli esodati la comunità nazionale «ha rotto un patto, va trovata una soluzione strutturale, è un impegno prioritario di questo governo ristabilirlo»; naturalmente bisognerà vedere nel concreto in cosa consiste – il “quanto” – questa “soluzione strutturale”.

7) riforme istituzionali e costituzionali, ovviamente senza indicazioni improprie da parte di un governo (è materia parlamentare per definizione). «Dal momento che questa volta l’unico sbocco é il successo, tra 18 mesi verificherò se il progetto sarà avviato a porto sicuro. Se ci sarà la ragionevole certezza che processo di riforma costituzionale potrà continuare». Se dopo 18 mesi di lavori i veti incrociati sono tali da «impantanare tutto per l’ennesima volta, non avrei esitazioni a trarne le conseguenze». E questo è un orizzonte temporale chiaro, l’unico, peraltro, di questo governo; che viene quasi a coincidere con i due anni che si possono credibilmente chiedere a Napolitano prima di mollare la presidenza della Repubblica.

8) «serve una riforma che avvicini cittadini alle istituzioni con principi di democrazia governante, la possibilità di superare il bicameralismo paritario e evitare ingorghi come quello appena sperimentato». Il ragionamento sembra filare solo in apparenza. Di fatto, davanti a una struttura costituzionale che prevede due Camere e l’obbligo per ogni governo di ricevere la fiducia di entrambe, si sceglie di tagliare il piede pur di farlo entrare nella scarpa: via una Camera, così non ci sono “inceppamenti”. Se poi nell’altra restasse un “premio di maggioranza” abnorme, avremmo tranquillamente superato anche i “fastidi” della Repubblica parlamentare…

9) «Dobbiamo qui assumere l’impegno che quella dello scorso febbraio è stata ultima consultazione elettorale con la legge vigente». E quindi via il “porcellum; ma se le forze politiche non dovessero trovare un accordo su un’altra formula, «Migliore della legge attuale sarebbe almeno il ripristino della legge elettorale precedente». Il “mattarellum”, dunque.

10) Lo sviluppo del Mezzogiorno – un punto fisso della retorica nel giorno dell’insediamento di ogni governo, dal 1945 ad oggi. Ma stavolta non c’è nessuna grande strategia e nessun piano per lo sviluppo; soltanto «la modifica della legge 92, che riduca le restrizioni ai contratti a termine finché persiste la crisi economica». Il “progresso” del Meridione, insomma, dipenderebbe dall’estensione della precarietà. Una promessa che vale per tutto il paese, ne siamo certi.

11) «Bisogna coniugare ferrea lotta all’evasione e fisco amico, senza che la parola Equitalia debba provocare dei brividi quando viene evocata». Non si dice come due cose così contraddittorie possano stare insieme, ma un democristiano – non importa se vecchio o giovane – si riconosce proprio da questa indeterminatezza…

12) Naturalmente ci deve essere una “radicale riforma del sistema di finanziamento dei partiti”, ma le forme – va da sé – andranno trovate nel dibattito parlamentare. Amen.

13) Un governo che sa di dover fare cose altamente impopolari deve sempre preoccuparsi di tener buone le forze di polizia. E quindi, nelle pieghe contorte di un discorso sulla “criminalità organizzata”, spunta fuori anche un «riconoscere la specificità del lavoro del personale in divisa». Più soldi in busta paga, forse; o un’età pensionabile meno oltranzista che non per i lavoratori “comuni”.

14) “Riportare a casa i due marò”.

Quest’ultimo appare anche quello più facile da raggiungere, nonostante i disastri provocati da Terzi di Santagata e Monti. Il che la dice lunga sulla realizzabilità degli altri punti.

Sono quasi tutti, infatti, impegni che prevedono aumento di spesa pubblica o riduzione delle entrate fiscali (per 12 miliardi, si calcola). Ma in nessun luogo si dice dove e come possano essere trovate le risorse,in presenza di obblighi devastanti assunti con l’Europa e la Troika. Saccomanni, il nuovo ministro dell’economia, è certamente persona competente, ma per la moltiplicazione dei pani e dei pesci non appare possibile neppure per lui. Nell’incertezza, state attenti alle vostre tasche. Quando promettono di riempirvele senza sforzo, è facile che stiano per svuotarvele…

«Nelle sedi europee individueremo le strategie per arrivare alla crescita senza compromettere il risanamento. Di solo risanamento l’Italia muore». L’allentamento dell’austerità è d’altronde uno dei pochi punti sui cui convergono le tre forze di maggioranza: Partito democratico, Popolo della libertà e Scelta civica. Peccato che non sia nelle disponibilità “nazionali”, ma dipenda da poteri esterni cui è stata trasferita buona parte della sovranità in materia.
Farne quindi l’architrave del programma di governo significa legare l’esistenza – o la tenuta nel tempo – dell’esecutivo a qualcosa di difficilmente controllabile.

“Conti fatti in casa”, scrive oggi qualche commentatore con sale in zucca, mentre fuori i creditori sono già in fila. L’Italia, infatti, anche se il resto d’Europa vorrebbe reinserirla nel “nocciolo duro” dell’Unione (se non altro per le dimensioni della sua econiomia e i costi inimmaginabili di un suo eventuale “salvataggio”), non appare in condizioni di “contrattare” granché. Non solo per l’evidente situazione di sofferenza dei conti pubblici, ma anche per la fragilità pericolosa delle sue istituzioni politiche attuali. La “scommessa sulla crescita”, insomma, è al momomento più un “esercizio di retorica” che non un piano realistico.

Del resto, nonostante la sua internità ai “giri che contano” (sia in Europa che negli Usa), Letta non è davvero considerato al livello di Mario Monti. Vero è che la stessa Unione Europea appare in questo momento un po’ meno “certa” che la strategia fin qui adottata su forte input tedesco – l’”austerità espansiva”, in realtà recessiva – sia ancora la scelta giusta. Un qualche piccolo margine di tolleranza in più potrebbe quindi essere esperito. Ma è la credibilità dell’”arco parlamentare” che lo sostiene ad azzopparlo almeno in parte. In Europa, infatti, un esecutivo con Berlusconi decisivo è una baracca senz’arte né futuro.

Ma anche la Ue deve a questo punto rifarsi i conti. La “ripresa” annunciata per la fine del 2013 è già stata ricalendarizzata nell’anno successivo; e la sua “forza” – se pure ci sarà – dovrebbe essere quasi nulla (un “rimbalzo del gatto morto”, dopo tre anni di tassi negativi). E intanto, a febbraio la disoccupazione nell’Eurozona ha toccato il 12%, 19 milioni di persone senza lavoro.

Le proroghe concesse a Spagna e Francia potrebbe a questo punto diventare l’unico appiglio a disposizione di “Letta il giovane”. Una mano però potrebbero dargliela proprio gli Stati Uniti, che ormai da mesi vanno pressando i vertici Ue perché adottino – come fa la Federal reserve e la Banca del Giappone – una politica monetaria molto più aggressiva e “spendacciona”. Barroso, ma non soltanto lui, si è già speso in qeusta direzione; e anche Olli Rehn, trinariciuto filandese messo a fare il cane da guardia pr conto di Bundesbank, ha dovuto riconoscere quantomeno l’inefficacia delle misure fin qui messe in campo.

Il giovane Letta italiano ha citato nel suo discorso la possibilità di finanziare l’innovazione e la ricerca con i project bond, idea approvata in fase sperimentale dal parlamento europeo, e bandiera del presidente francese François Hollande. Ma dalla scrittura di piani alla pratica il passo è sempre lungo. E la Ue, fin qui, non si è spostatata di un millimetro sul piano delle decisioni operative.
Di fatto, fino alle elezioni tedesche, l’Europa non può cambiare linea. E dopo non è nemmeno detto che sia disposta a farlo.

Letta, insomma, deve navigare a vista, barcamendosi tra “rispetto degli impegni presi” e “politiche per la crescita” senza risorse da investire. Diciotto mesi possono diventare lunghissimi…

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Letta, la tela atlantica

Pino Cabras
www.megachip.info

L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.

Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.

Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.

Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.

Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.

La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..

Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all’Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.

Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.

Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.

SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.

Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient’altro in grado di porsi all’altezza di quei network.

I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.

Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC – quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti – in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l’Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.

Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.

Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.