Il mistero delle spese militari

Maurizio Girolami
www.riforma.it

Il bilancio della Difesa è diminuito in teoria, ma in pratica continua a crescere. Perché dobbiamo spendere miliardi di euro per i cacciabombardieri F-35? Sarebbe meglio investire nella riconversione al civile
«Lei che cosa pensa delle spese militari dello Stato italiano? Che cosa prevede il suo programma?» Questa potrebbe essere una domanda da rivolgere a chi ci chiede il voto per il suo partito. Occorre premettere che il commercio delle armi, malgrado la crisi, «tira» forte. In Europa le esportazioni belliche autorizzate sono aumentate dal 2010 al 2011 del 18,3%, per un totale di 37,5 miliardi di euro, più verso il Medio Oriente che verso gli Usa (XIV Rapporto europeo sul traffico d’armi, 2012). L’Italia rimane saldamente al decimo posto, fra i paesi esportatori di armi.

La legge delega per la riforma della Difesa, voluta dal ministro Di Paola, prevede una drastica riduzione del personale e un potenziamento dei sistemi d’arma per interventi militari rapidi e tecnologicamente super-attrezzati. Questo spiega perché si sia previsto l’acquisto di sistemi d’arma, elicotteri, sottomarini, aerei, che impegneranno per il nostro paese nei prossimi 20 anni una spesa di parecchi miliardi l’anno. La spesa militare italiana è di difficile lettura perché distribuita nei bilanci di diversi ministeri, scrive lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) nel suo rapporto annuale. In base alla legge di Stabilità del 2012 il bilancio della Difesa è passato dai 20,5 miliardi del 2011 ai 19,9 miliardi. Se tuttavia si considerano 1,7 miliardi destinati ai sistemi d’arma e 1,4 miliardi per le missioni all’estero, inclusi nel bilancio di altri ministeri, il totale raggiunge i 23 miliardi.

«Le spese militari sono spese scomode, per questo si tende a nasconderle, in tutti i Paesi», ha spiegato Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione Obiettori nonviolenti. In Italia, inoltre, queste spese finora sono state decise dal ministro della Difesa e dal Governo, con il solo voto consultivo del Parlamento anche nel caso di ingenti acquisti che richiederebbero un’attenta analisi. È il caso dei 90 cacciabombardieri F-35 – arma di attacco, versatile, capace di portare bombe atomiche – per i quali l’Italia si è impegnata a spendere nei prossimi 20 anni una cifra fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Un aereo definito «indispensabile» per la difesa italiana, malgrado un rapporto del Pentagono ne abbia segnalato una serie di difetti, primo fra i quali il rischio di esplosione in volo in caso di fulmini. Un impegno assurdo, che ha suscitato scandalo in tanti settori, anche non pacifisti, dell’opinione pubblica, tanto da indurre alcuni degli Stati coinvolti nel progetto (Canada, Australia, Norvegia, Turchia) a ripensamenti. In Italia anche partiti che non si erano dichiarati contrari promettono di chiedere uno «sconto» sul numero degli esemplari da acquistare. Si potrebbero citare altri esempi di aerei, elicotteri e sistemi d’arma sofisticatissimi e costosissimi – come il Nec (una specie di soldato robotizzato) – a procacciarsi i quali fanno a gara l’Esercito, la Marina e l’Aeronautica. Per non dire dei quattro sottomarini U 212 Todaro (2 miliardi) armati con «siluri pesanti». Un ruolo fondamentale nel mercato delle armi lo svolgono le banche, grandi finanziatrici, su autorizzazione dei governi, dell’export di armi, nell’ordine: Nnp Paribas, Deutsche Bank, Barclays, Crédit agricole, Unicredit, oltre a banche piccole vicine alle fabbriche di armi. Contro questo ruolo si sono battute molte associazioni, soprattutto cattoliche, con la campagna «Banche Armate» e lo slogan «non con i miei soldi».

Un’obiezione che spesso viene rivolta a quanti criticano la politica e l’industria degli armamenti, è che questa produce occupazione e progresso tecnologico. Non basta rispondere che la proliferazione di persone armate (vedi Usa) o di nazioni armate (vedi a esempio il Medio Oriente) accresce la probabilità di stragi e guerre, o che – come diceva Trilussa – «la guera è un gran giro de quatrini che prepara le risorse pè li ladri delle borse» (Ninna nanna della guerra). Quanto agli F-35 la Lockheed Martin si tiene ben stretti i segreti tecnologici dell’aereo, rifiuta di affidare a Israele la riparazione e gestione del cervello elettronico dell’aereo e concede all’Italia la sola produzione di 200 semi-ali. Quanti posti di lavoro si creeranno? Il ministero della Difesa dice 10.000, cifra palesemente gonfiata; le parti sociali parlano di 900, tra produzione e indotto.

Per i 26.000 occupati nell’industria italiana delle armi, l’alternativa radicale è la riconversione: spostare risorse dal militare al civile. Lo Iefe, insieme all’Università Bocconi e al Gestore Servizi elettrici, in uno studio presentato nel 2009 sulle prospettive di sviluppo delle energie rinnovabili per la produzione di energia elettrica, stima che un investimento di 104 miliardi di euro nel periodo 2008-2020 nelle fonti rinnovabili di energia creerebbe a regime 250.000 posti di lavoro. Studi analoghi in Germania e Usa dimostrano che investire in settori di punta come la «banda larga» o le tecnologie informatiche in campo sanitario o nelle reti elettriche intelligenti, oltre a creare centinaia di migliaia di posti di lavoro, avrebbe una ricaduta forte sulla produttività del sistema economico.

Si tratta di cambiare produzioni e consumi dentro la cornice di un nuovo modello di sviluppo: chiedere alle industrie di cacciabombardieri di produrre aerei per spegnere incendi, a quelle che fanno radar e nuovi sistemi di puntamento di produrre attrezzature biomedicali; a quelle che producono camion militari di produrre autobus per il trasporto pubblico, a quelle che fanno elicotteri da combattimento di produrre mezzi per l’elisoccorso. Eccetera. Ricerca e innovazione in Italia hanno ben altri obiettivi da perseguire se si vuole evitare una catastrofe ecologica! In breve: «fondere le spade per farne aratri» (Isaia 2, 4). La sopravvivenza nostra e delle generazioni future è più importante degli interessi delle lobby delle armi.