Mali, l’illusione della democrazia

Alexis Roy
www.liberation.fr, traduzione di Lisa Cerra

La decadenza del Mali va analizzata soprattutto a partire dalle principali evoluzioni che il paese ha attraversato negli ultimi decenni: da una parte, la sua liberalizzazione economica a passo sostenuto, sotto i colpi dei Programmi di regolamento strutturale (Pas) che si sono succeduti per iniziativa della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale; dall’altra, le conseguenze della liberalizzazione politica. La maggior parte dei protagonisti della crisi politica attuale è emersa con la rivoluzione del 1991, che aveva abbattuto il regime dittatoriale del generale-presidente Moussa Traoré, stabilito il sistema pluripartitico e permesso di adottare tramite referendum una Costituzione democratica.

Il presidente Amadou Tooumani Touré, estromesso il 22 marzo 2012, aveva messo fine al regime di Moussa Traoré. L’attuale presidente provvisorio, Dioncounda Traoré, è uno dei membri fondatori dell’Alleanza per la democrazia del Mali (Adema), associazione che ebbe un ruolo di primo piano nella rivoluzione del 1991. In seguito l’Alleanza si è trasformata in partito politico, formazione che – con i suoi avatar nati da varie scissioni – ha dominato la scacchiera politica dal 1991 ad oggi su tutto il territorio nazionale.Iyad Ag Ghali, leader del gruppo tuareg Ansar ed Dine, che oggi controlla una parte del nord del Mali, è anch’egli emerso sulla scena nazionale nel 1990, scatenando una ribellione armata contro il regime di Bamako.

Il rigore imposto dai Pas negli anni 80 ha favorito lo sviluppo di un’opposizione frontale alla dittatura aggravando la crisi economica che nel frattempo si è trasformata in crisi sociale e politica. In seguito i Pas hanno minato le basi della giovane democrazia del Mali, con l’imposizione di una politica economica che ha impedito l’emergere di qualsiasi forma di previdenza sociale. Si comprende quindi perché le popolazioni del Mali – al contrario delle classi dirigenti – non abbiano mai sentito l’appartenenza al proprio Stato, come testimonia anche la debole partecipazione elettorale agli scrutini nazionali, fra il 20 e il 40 per cento dal 1991. Nel fallimento del progetto politico nato dalla rivoluzione, è evidente la responsabilità delle classi politiche, ma anche sociali ed economiche, del Mali.

L’appello al kokaje (trasparenza, nella lingua bambara) dei manifestanti del 1991, che reclamavano la fine delle prevaricazioni, della corruzione e del clientelismo della gestione del potere, non ha avuto conseguenze. Anzi, si può dire che questi fenomeni sono invece aumentati da allora. Sono nati moltissimi partiti politici, senza tuttavia riuscire ad esprimere una reale diversità di correnti e di opinioni, e il pluralismo politico del Mali si è ridotto alla sua più semplice espressione: una competizione solo a beneficio dei suoi leader. L’apparente dinamismo del settore associativo, considerato come il segno della vitalità della “società civile” così cara agli investitori finanziari, non ha cambiato la situazione: questo settore non ha avuto quel nobile ruolo di contropotere operante nell’interesse generale, che troppo facilmente gli viene attribuito. Il patrimonialismo, il clientelismo e la corruzione, storicamente associati alla classe politica e alla burocrazia, sono penetrati nelle sfere associative e sindacali, in buona parte discreditate dall’opinione pubblica. Tuttavia, alcune formazioni politiche o associative, piuttosto marginali, criticano la deriva delle istituzioni e trovano così una certa eco nella popolazione, pur non riuscendo a suscitare una reale adesione a un progetto che offra un’alternativa politica.

Eletto nel 2002, il presidente Amadou Tooumani Touré ha riunito intorno a sé la maggior parte dei responsabili politici, associativi e sindacali del paese, in nome di un consenso placato, stabilito come modo di governare. Tuttavia quest’apparente unità non ha fatto altro che aumentare il discredito, visti i crescenti scandali politico-finanziari e l’evidente impunità delle classi dirigenti.
La crisi di sfiducia fra il popolo del Mali e la sua classe dirigente ha raggiunto il culmine con il colpo di Stato militare che ha abbattuto il presidente nel marzo 2012: nessuno infatti ha preso le sue difese. Il crollo del consenso illusorio creato da Touré ha messo in luce le deboli radici della democrazia e soprattutto la fragilità dello Stato del Mali: è questo clima di incertezza che ha permesso ai gruppi armati nel nord del paese di imporsi. Da vent’anni l’incuria della classe dirigente, benché non sia la sola responsabile, ha favorito l’attuale disgregazione del paese, sia al nord che al sud. I fattori di questa crisi di immense dimensioni sono intricati come matriosche russe. Questa situazione d’altronde tende ad impedire qualsiasi tentativo credibile di prospettiva sul futuro del paese, che oggi brancola nel buio o che, potremmo dire, è attraversato dal devastante vento dell’harmattan.

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Il Mali e la riconquista dell’Africa

Manlio Dinucci
http://nena-news.globalist.it

Nel momento stesso in cui il presidente democratico Obama ribadiva nel discorso inaugurale che gli Stati uniti, «fonte di speranza per i poveri, sostengono la democrazia in Africa», giganteschi aerei Usa C-17 trasportavano truppe francesi in Mali, dove Washington ha insediato l’anno scorso al potere il capitano Sanogo, addestrato negli Usa dal Pentagono e dalla Cia, acuendo i conflitti interni. La rapidità con cui è stata lanciata l’operazione, ufficialmente per proteggere il Mali dall’avanzata dei ribelli islamici, dimostra che essa era stata da tempo pianificata dal socialista Hollande.

L’immediata collaborazione degli Stati uniti e dell’Unione europea, che ha deciso di inviare in Mali specialisti della guerra con funzioni di addestramento e comando, dimostra che essa era stata pianificata congiuntamente a Washington, Parigi, Londra e in altre capitali. Le potenze occidentali, i cui gruppi multinazionali rivaleggiano l’uno con l’altro per accaparrarsi mercati e fonti di materie prime, si compattano quando sono in gioco i loro interessi comuni.

Come quelli che in Africa sono messi in pericolo dalle sollevazioni popolari e dalla concorrenza cinese.

Il Mali, uno dei paesi più poveri del mondo (con un reddito procapite 60 volte inferiore a quello italiano e oltre la metà della popolazione sotto la soglia di povertà), è ricchissimo di materie prime: esporta oro e coltan, il cui ricavato finisce però nelle tasche delle multinazionali e dell’élite locale.

Lo stesso nel vicino Niger, ancora più povero (con un reddito procapite 100 volte inferiore a quello italiano) nonostante sia uno dei paesi più ricchi di uranio, la cui estrazione ed esportazione è in mano alla multinazionale francese Areva. Non a caso, contemporaneamente all’operazione in Mali, Parigi ha inviato forze speciali in Niger.

Analoga situazione in Ciad, i cui ricchi giacimenti petroliferi sono sfruttati dalla statunitense ExxonMobil e altre multinazionali (ma stanno arrivando anche compagnie cinesi): ciò che resta dei proventi va nelle tasche dell’élite locale. Per aver criticato tale meccanismo, il vescovo comboniano Michele Russo è stato espulso dal Ciad lo scorso ottobre.

Niger e Ciad forniscono allo stesso tempo migliaia di soldati, che sotto comando francese, vengono inviati in Mali per aprire un secondo fronte. Quella lanciata in Mali, con la forza francese come punta di lancia, è dunque un’operazione a vasto raggio, che dal Sahel si estende all’Africa occidentale e orientale.

Essa si salda a quella iniziata in Nordafrica con la distruzione dello stato libico e le manovre per soffocare, in Egitto e altrove, le ribellioni popolari. Un’operazione a lungo termine, che fa parte del piano strategico mirante a mettere l’intero continente sotto il controllo militare delle «grandi democrazie», che tornano in Africa col casco coloniale dipinto dei colori della pace.