Chiesa e omosessualità, un passo in avanti

Michele Smargiassi
http://bologna.repubblica.it/cronaca/ 6 marzo 2012

Dai regolamenti più o meno ufficiali dell´esercito americano, Obama ha fatto cancellare pochi mesi fa la regola odiosa del don´t ask, don´t tell (tu non puoi dire che sei gay, in cambio noi non te lo chiediamo), che univa la forza del pregiudizio alla vergogna dell´ipocrisia, col cemento della convenienza reciproca. Qualcosa del genere è accaduto, domenica, in San Petronio, o almeno si contava che accadesse.

Capiamoci bene. Nessuno al mondo deve sentirsi, o peggio essere obbligato a dichiarare urbi et orbi con chi condivide la vita, gli affetti ed anche le lenzuola. Ho sempre ritenuto l´outing forzato (non il coming out, che è una libera e coraggiosa scelta personale) una strategia violenta del movimento omosessuale, che trova qualche ragione d´essere solo quando viene esercitata contro chi, pur vivendo relazioni omosessuali, ostenta disprezzo o sostiene la discriminazione verso i diritti dei gay.
Dunque nessuno, proprio nessuno aveva il diritto di pretendere da Lucio Dalla, dal suo compagno o da chicchessia una dichiarazione pubblica di legame affettivo che si sarebbe immediatamente convertita in un´autocertificazione plateale di orientamento sessuale. Chi per questo diritto alla riservatezza personale ha lanciato accuse di ipocrisia all´uno o all´altro dei coinvolti, ha sbagliato.

Ha contraddetto i principi stessi di rispetto della persona per cui sostiene di battersi. Ma la riservatezza è una scelta che non sopporta compromessi. La scelta del non dire è ancora così libera quando diventa appunto un “don´t ask, don’t tell”, ossia la condizione oggettiva per varcare una soglia che rimarrebbe chiusa se certe scelte di vita, che dobbiamo ritenere serenamente vissute e convinte, fossero invece state rivendicate pubblicamente?

La Chiesa cattolica, se parliamo dei suoi singoli sacerdoti, ha verso l´orientamento omosessuale un atteggiamento variegato, che va dalla comprensione alla dannazione, ma di certo la dottrina e la pastorale ufficiali inclinano alla disapprovazione severa di uno «stile di vita non ordinato», soprattutto in una Curia che ha deviato per anni la processione della Madonna di San Luca per non costringerla a sfiorare il ritrovo gay del Cassero. Uno stile di vita che, come ha ammonito in San Petronio un annuncio perentorio prima della comunione, vieta a chi si trova in quella condizione di accostarsi ai sacramenti.

La Chiesa bolognese ora accusa il colpo di una situazione che le è sfuggita di mano, dice che la condanna è per il peccato e non per il peccatore. È vero, oggi la Chiesa celebra anche i funerali dei suicidi, ma solo se può presentarli come penitenti, magari all´ultimo istante: ha invece chiuso le porte a chi rivendicò fino all´ultimo il diritto a decidere della fine della propria vita.

Allora la domanda è semplice: se la cerimonia di domenica fosse stata preceduta da un “tell”, quel solenne abbraccio della Chiesa al suo figlio «ispirato da Dio» ci sarebbe stato lo stesso? O per lo meno sarebbe stato consentito al suo compagno straziato dal dolore di salire all´altare come tale, per dirgli l´ultimo “grazie”, commuovendo decine di migliaia di persone? Quella cerimonia, quell´accoglienza religiosa, quell´abbraccio sotto la croce sono stati possibili solo alla condizione, probabilmente richiesta, anche solo tacitamente, e verosimilmente accettata allo stesso modo, del non dire.

Non c´è nulla di disdicevole nei compromessi, tranne pretendere che non lo siano. La Chiesa non è un´istituzione civile in cui tutti siamo obbligati a vivere, non è neppure il servizio militare nei marines, è una libera comunità di persone, e chi trovasse scomode le condizioni per farne parte avrebbe un semplice modo per non subirle: non partecipare ai suoi riti. È dunque affare della sola coscienza del singolo credente gay se accettare o meno la contraddizione di essere accolto da una comunità di fede solo a condizione di partecipare a una commedia della dissimulazione, dove dall´altare si conforta l´amato in lacrime, lui solo, e poi lo si chiama al pulpito, lui solo, a piangere l´amato, facendo però finta di non sapere perché tocca a lui e a lui solo.

Il rito della libera, consapevole e condivisa reticenza a cui abbiamo assistito non è stato dunque un´imposizione contro cui insorgere, né possiamo chiamarlo una odiosa discriminazione: è stato solo una convenzione, un compromesso liberamente sottoscritto da entrambe le parti. E tuttavia, per l´eterogenesi dei fini, quel che doveva rimanere non detto ha finito per tracimare dall´evidenza delle parole e dai gesti, per essere gridato ancora più forte, e quello che poteva essere un passo indietro finirà forse per essere, involontariamente, un passo avanti contro i pregiudizi.