Fratelli (e sorelle) non ditemi…
Giancarla Codrignani
Fratelli e sorelle, non ditemi che non ho più fede. Ma proprio non riesco a “celebrare” il cinquantesimo compleanno del Concilio Vaticano II senza sentirmi ancora una volta stupita e desolata proprio a partire da quello che mi aspettavo – anche come individua credente – dalla sua applicazione. Che anche la Chiesa vaticana celebri, mentre congela la storia e la teologia mi turba meno della fissità della nostra memoria. Chi ha meno di cinquant’anni non era neppure nato e del Concilio ne sa tanto quanto della legge truffa o delle manifestazioni per Trieste italiana. Adesso accade che, poiché compiamo cinquant’anni, sembriamo rimasti adolescenti che non abbiano avuto responsabilità o gente di mezz’età nostalgica e depressa. Intanto il piede volubile del tempo, ora travolgente nella corsa, ora ritardato dalla podagra, calpesta inesorabilmente tutte le cose. So bene che il solito “sale della terra” continua a fare il suo mestiere (modestamente anch’io); ma in cinquant’anni ne sono accadute di cose da interpretare alla luce proprio di quell’evento!
Le vedete le ritualità tradizionali, immobili nella simbologia ormai muta di significato nelle vesti e nella gestualità tradizionali, come se fossimo a Trento, ai tempi dell’altro Concilio, “forte” e santamente dogmatico per la paura vaticana della Riforma? le sentite le preghiere ripetitive, i canti falsamente popolari che hanno spento la potenziale creatività delle chitarre, le voci di un clero che corre nelle parti ordinarie come se meccanicamente si affidasse alla pura verbalizzazione e incapace di “leggere” la Parola nel terzo millennio? dice qualcosa che si sia tornati senza proteste alla comunione imboccata come ai bambini che alle diocesi farebbe comodo fossimo, o che in qualche monastero vengano reinseriti – come “parola di Dio” – i salmi delle maledizioni rimossi da Paolo VI? In queste condizioni è possibile parlare di escatologia in termini non non elitari?
Certo è un mio limite, ma il “sentir messa” – se non si tratta di un celebrante meno adeguato e di una comunità amica – mi annoia: vedo accanto il giovane che sta pensando all’esame che lo aspetta, la madre di famiglia che si domanda se per caso non ha lasciato acceso il gas, il pensionato ipoacusico che guarda smarrito il prete che parla a bassa voce…. Possibile che sia così che la gente si salva? Fate questo in memoria di me: davvero poteva voler dire seguire per mezz’ora passivamente un rito senza partecipazione (la “preghiera dei fedeli”, ormai scritta nel messalino, vieta anche la spontaneità della parola umana libera)? Il Concilio aveva sottolineato l’importanza della liturgia e approvato qualche timido cambiamento, evidentemente insufficiente a scrostare la ruggine secolare da coscienze pur fatte adulte; infatti, non solo non ha prodotto ulteriori cambiamenti, ma ha subito il rientro della messa di Pio V (con l’implicito antisemitismo) e il non raro rinascondimento del prete dietro l’altare.
Dovere di obbedienza, soprattutto per i “consacrati”: obbedienza a chi? Don Milani, nella difesa al processo intentato dai cappellani militari contro la sua obiezione al servizio militare obbligatorio, sostenne che “non è più una virtù”. Certamente in democrazia si debbono accettare le norme deliberate dalle istituzioni; ma nella Chiesa si “deve” accogliere una disciplina senza collegialità episcopale, senza libera ricerca teologica, senza autorevole rappresentanza laicale (di uomini e di donne)?
Conosco ragazzi appartenenti all’Azione cattolica per i quali perdere la messa domenicale non è neppure più un’omissione da confessare. Infatti, nessuno sa neppure più quali siano i “precetti” della Chiesa e sempre minore è il numero di chi si confessa. Nemmeno io, che non trovo richiesta di impegni del genere nei Vangeli e che gradirei sapere il senso attuale di sacramenti numericamente diventati sette per definizione tridentina: alcuni stanno cadendo in disuso senza argomentazioni ermeneutiche che giustifichino una fede incarnata e la forte esigenza di spiritualità rinnovata.
Ho amato e venero Giovanni XXIII, il Papa definito “buono” come se gli altri non lo fossero o come se la bontà rappresentasse una virtù minore. Quella bontà era, invece, un’intelligenza profonda e – cosa rara nelle gerarchie religiose -indulgente verso i limiti umani ma coraggiosa nell’indicare vie davvero pastorali. Ha insegnato i “segni dei tempi”, da lui individuati nella dignità di nuovi diritti: dei lavoratori, delle donne, dei popoli oppressi. Ovvia indicazione di metodo per aprire la Chiesa alla storia contemporanea e ai bisogni dell’umanità che nella storia si rinnovano senza per questo perdere i principi. Tuttavia il metodo non è diventato stile della Chiesa, nonostante l’evidenza di nuove dignità che chiedono rispetto.
E’ ben vero che neppure Papa Giovanni cinquant’anni fa sarebbe stato a suo agio nel rispondere a nuove richieste di riconoscimento (le diversità sessuali, il matrimonio dei consacrati, l’accesso delle donne all’altare, la riammissione ai sacramenti dei divorziati, la contraccezione). Eppure queste sono le esigenze – molte da sempre potenziali – storicamente maturate in questi cinquant’anni. Sono “segni” che reclamano non un altro Concilio (forse opportuno per rivedere l’incarnarsi della fede nel futuro), bensì un orientamento pastorale da costruire (anche dal basso); certamente non dogmi e divieti.
Siamo cambiati tutti, consapevoli che non possiamo più rifugiarci nella tradizionale ipocrisia della doppia morale di un tempo: anche nelle famiglie più tradizionali e addirittura lefevriane abitano figli conviventi e divorziati. E, paradossalmente, quando il cardinal Caffarra nega il riconoscimento agli omosessuali cattolici che pur chiedono di essere accolti, penso che dovremmo – invece di negare ascolto – domandarci se non finiranno per essere i soli che si vogliono sposare…. Dal momento che la famiglia è in crisi, tutte le agenzie sociali, a partire dalle chiese, dovrebbero interrogarsi sulla percezione dei mutamenti in corso, ormai antropologici, e ragionare sul modo di incarnare i valori.
Invece tornano le certezze sui diritti naturali e su cosiddetti principi non negoziabili, come se le religioni dovessero in tutte le società rappresentare l’etica sociale e l’autorità politica. Il Cristianesimo carica su Tommaso d’Aquino certezze non sue e non si accorge che il Medioevo è lontano da noi, come per l’Islam. La scienza non può più essere esclusa dal principio di verità come ai tempi di Galileo; anche perché, se Urbano VIII temeva la sparizione della fede dopo la distruzione dell’ordine eliocentrico sacralizzato, oggi tutti sanno la complessità dell’universo e l’irrilevanza della Terra. E per questo vorrebbero ridefinirne, almeno simbolicamente, il senso. Conosciamo anche la complessità dell’infinitamente piccolo e non appare più coerente alla fede di Cristo attribuire a Dio la responsabilità di vietare la fecondazione assistita allo stesso modo dell’aborto che ne è l’esatto contrario e impedire lo studio sulle staminali senza cognizione effettiva ci ciò che sia provvidenziale.
E’ pessima caratteristica dei cattolici italici l’ignoranza in materia religiosa. Tuttavia anche le omelie tradizionali ammettono la revisione delle narrazioni religiose, un’idea di creazione condizionata dal Big Bang e le nuove individualità e cronologie degli evangelisti secondo la verifica degli storici. Questo significa poter scoprire il valore simbolico delle narrazioni originarie e contestualizzare il messaggio di Gesù; ma né la teologia ufficiale né la Chiesa dei pastori si preoccupano di “riformarsi”. Non si rendono conto di alimentare così non la vecchia secolarizzazione, ma la caduta della fede (dico del Cristianesimo e non degli scandali per reati di pedofilia e degli interessi – inaccettabili per qualunque cristiano e non solo per la prima comunità di Gerusalemme, ma impensabili per chi ha l’obbligo della povertà per consacrazione – a fini speculativi, di lucro e di potere.
Critiche e autocritiche oggi sono necessarie per tutte le religioni e per tutte le confessioni cristiane, ma anche nuove argomentazioni a sostegno (e a difesa) di una consapevolezza da offrire ai credenti affinché i cristiani non si riducano ad adepti di una setta. Se Gesù davvero ha chiesto (non solo a chi crede o anche a chi comunque nomina un Dio che sia padre amoroso) soltanto di convertirsi e di contribuire a rendere umano e buono – una volta si diceva a “redimere” e “consacrare” – il mondo, il magistero avrebbe ragioni di ottimismo. Perché sarebbe perfino compito facile, almeno per quelli che non corrono dietro al passato con Lefevre, o usano la nomina del Nunzio in Usa per intrighi vaticani.
Per ora ho l’impressione che sia a Cafarnao, sia a Roma la lezione di Gesù sembri strana. Che, invece, sembrava chiarissima quando lo Spirito volava sul Concilio.
Venerdì il postino della cdb di S.Paolo ha pubblicato una mia lettera che inizia “Caro Berto”, e per oggetto “sulla lettera di Giancarla”.
Il webmaster mi ha poi scritto, praticamente per chiedermi di ridigitarla qua.
Chiunque se la può andare a rivedere e nulla potrei cambiare di un giudizio storico-politico che ho ben meditato in decenni di studi e sofferto negli stessi decenni di militanza intellettuale; se pure gli storici futuri ben potranno a distanza, ovviamente, depurare il giudizio dai tossici che il mio fegato ha dovuto frattanto subire, reagendo a caldo con una violenza che (mi spiace) non ho potuto trattenere, ritengo per fermo che quella è la corretta linea interpretativa del postconcilio.
Francesco Zanchini
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(Eccola di seguito, NdR)
Caro Berto,
Ho letto, nella lettera di Giancarla, qualcosa che da tempo sappiamo e che non dovrebbe più meravigliarci.
Fatto sta che il concilio non è altro che una delle tante stupende costituzioni uscite dopo la catastrofe della guerra nazista, che sono rimaste inadempiute perché i popoli hanno avuto fretta di dimenticare che la causa dei fascismi si trovava in loro stessi, cui faceva quindi comodo un capro espiatorio da immolare, per ricominciare a tirare a campare come prima (visto che il PIL tirava per tutti) e che chiedere la luna non era il caso.
Tutti siamo colpevoli, anche i tedeschi, che invece di mettersi a imparare qualcosa dalla costituzione della DDR (per riparare a qualcuno dei difetti di chiaro diritto borghese, frutto della guerra fredda, di quella della BRD), han preferito ingoiare la DDR nel grande pasticcio anticomunista voluto da Kohl, per seppellire l’opera di incontro critico-dialogico tra le due anime della Germania, iniziata da Willy Brandt.
Qualcosa del genere è avvenuto anche nel diritto pubblico della Chiesa, nel quale erano rimaste a convivere le masse normative del Vaticano I con quelle del Vaticano II, senza che ci fosse una seria autorità imparziale a separare dalla zizzania il buon frumento di papa Giovanni.
Quando i teologi hanno provato, giustamente, a tentare di prendere in mano i nodi del conflitto tra il vecchio e il nuovo, la minoranza di vescovi battuta al concilio e la Curia romana li hanno massacrati. Poi è venuto il sanpolacco a nominare l’inquisitore che sappiamo, un teologo frustrato, pentito del concilio, completamente isolato nella sua stessa conferenza episcopale. Sono questi i sessanta anni che abbiamo vissuto e che quotidianamente viviamo. Ma degli oppressori non conviene lamentarsi, è il loro mestiere; e forse è meglio combatterli con tutta la lucidità che serve.
Cara Giancarla,
ho avuto il tuo indirizzo mail da Marcello Vigli cui il nostro infaticabile postino Berto ha girato la mia richiesta circa la possibilità di contattarti. E quindi ora posso esprimere qualche brevissima riflessione sull’articolo in oggetto. Dire che condivido tutto quanto hai scritto dalla prima all’ultima riga riflette esattamente il mio pensiero, ma vorrei aggiungere qualcosa in più. E questo qualcosa in più attiene alla “riformabilità della chiesa (e)”. In filigrana nell’articolo si sente un forte rimpianto (totalmente condiviso) di Giovanni XXIII , quella meteora che poteva cambiare il corso della chiesa. Cosa che non è avvenuta perchè tutti i suoi successori, sia pure con sfumature diverse, hanno fatto di tutto perché i semi del Concilio non fiorissero mai.
Nel mio personale percorso spirituale (frequento da circa 30 anni la Comunità di S. Paolo) sono giunto alla conclusione che le “religioni”, dove per “religione” intendo tutto l’apparato “teologico-cultuale” che accompagna ogni religione, sono fondamentalmente un prodotto umano. E certamente spesso, troppo spesso, col pretesto di possedere Dio e la sua verità, sono state e sono culla di fanatismi, veicolo di intolleranza, oscurantismo nei confronti della scienza e della libertà di ricerca, anche teologica, e, più in generale, della libertà tout court perché gli apparati del potere religioso non amano e non educano alla libertà ma piuttosto al suo contrario, la paura e la sottomissione. Come tali, le religioni vanno relativizzate e superate. Da molto tempo ormai ritengo il problema della “riforma della chiesa” un problema superato nel senso che non riconosco a nessuna chiesa nessuna autorità spirituale.
L’amico Berto conosce bene il mio pensiero, come molti altri della comunità. Vorrei, se la cosa mai ti interessasse, farti conoscere più in dettaglio ciò che in questa mail è appena accennato. Una tua risposta in merito mi farebbe piacere.
In ogni caso, che la pace del Signore sia con tutti noi
Mauro Magini
Carissima Giancarla, ci siamo incontrati al Centro Hurtado di Scampia con P. Fabrizio Valletti (Sono la persona che all’Eucarestia domenicale, Ti precedette nella preghera dei fedeli). Il tuo insegnamento e la Tua lucida analisi dei segni dei tempi sono l’esempio vivente di come oggi si deve vivere il vero spirito del Concilio Vaticano II. Magari ci fossero nel nostro tempo altri profeti come Te, Raniero La valle e tanti altri che perseguono le finalità del Regno dei Cieli che Gesù ha voluto e vuole costruire non con una dottrina, con dogmi vecchi e nuovi, ma con una esperienza di servizio e di amore.
Grazie Giancarla.
Carissima
Avrei molto da dire, non contro quello che dici perché le idee sono quelle ‘giuste’. Ma…. i cambiamenti che la società propone sarebbero sconvolgenti se diventassero realtà, perché quelli VERI e DURATURI sono solo un seme che può attecchire in una terra fecondata da una vita , e sottolineo ‘vita’, concretamente positiva attraverso le grandi dimenticate: a) la preghiera (che non è quella non-noiosa) che attraverso ogni forma può essere riformulata istantaneamente nelle coscienze capaci di interiorità, b) lo spirito di fiducia nella presenza di Dio in ogni situazione, e C9 l’ascesi (detto complessivamente).
Ti assicuro che io, se in quest’ultima fase difficile della mia vita, non mi ritrovassi questi tesori, aspirerei solo a morire, ed invece voglio vivere la vita in tutta la sua pienezza. Sicché, come diceva la Zarri, io voglio morire VIVA.
Questo sento di dirti, sicura che tu ‘accumuli’ gli indicati tesori, ma che faresti bene (parole di una vecchia!) a comunicare con la stessa forza che usi nel dire il negativo dell’oggi. Tua amica di sempre, Ausilia