Il sacro e il profano – riflessioni sulla natura del Cristianesimo

Giuseppe Bettenzoli

In quest’epoca di grandi cambiamenti, in cui si discute di superamento del teismo e delle categorie religiose, è utile approfondire il concetto e la realtà del ‘sacro’, per potersi orientare anche in relazione al messaggio evangelico. E scorrendo lo sviluppo della religiosità ebraica ci si rende conto che la tradizione profetica evidenzia dei connotati che si discostano dagli schemi propri di una religione e introducono una spiritualità storico-sociale, che poi caratterizza anche la predicazione di Gesù.

Questa è la parola che fu rivolta dal Signore a Geremia: «Fermati alla porta del tempio del Signore e là pronunzia questo discorso dicendo: Ascoltate la parola del Signore, voi tutti di Giuda che attraversate queste porte per prostrarvi al Signore.  Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Migliorate la vostra condotta e le vostre azioni e io vi farò abitare in questo luogo.  Pertanto non confidate nelle parole menzognere di coloro che dicono: Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo!
Poiché, se veramente emenderete la vostra condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste sentenze fra un uomo e il suo avversario; se non opprimerete lo straniero, l’orfano e lavedova, se non spargerete il sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per
vostra disgrazia altri dèi, io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre.  Ma voi confidate in parole false e ciò non vi gioverà: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dèi che non conoscevate.  Poi venite e vi presentate alla mia presenza in questo tempio, che prende il nome da me, e dite: Siamo salvi! per poi compiere tutti questi abomini.  Forse è una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me? Anch’io, ecco, vedo tutto questo. Parola del Signore.  Andate, dunque, nella mia dimora che era in Silo, dove avevo da principio posto il mio nome; considerate che cosa io ne ho fatto a causa della malvagità di Israele, mio popolo.  Ora, poiché avete compiuto tutte queste azioni – parola del Signore – e, quando vi ho parlato con premura e sempre, non mi avete ascoltato e, quando vi ho chiamato, non mi avete risposto, io tratterò questo tempio che porta il mio nome e nel quale confidate e questo luogo che ho concesso a voi e ai vostri padri, come ho trattato Silo. Vi scaccerò davanti a me come ho scacciato tutti i vostri fratelli, tutta la discendenza di Efraim (Geremia 7, 1-15).

Questo brano di Geremia, ambientato al tempo dell’espansione dell’impero babilonese sotto Nabucodonosor (608 a.C.), mostra chiaramente due concezioni diverse del rapporto tra l’essere umano e la divinità. C’è un rapporto sacrale che vede la presenza della divinità nel tempio, con tutto il relativo apparato cultuale, come garanzia di protezione da ogni avversità, politica o naturale che sia: l’individuo si limita alle pratiche religiose per essere sicuro di ingraziarsi la divinità. Il secondo tipo di rapporto con la trascendenza può essere definito storico-sociale, per cui le pratiche religiose non danno alcuna sicurezza, ma ciò che è importante è la giusta impostazione dei rapporti sociali che generano pace e benessere, e sono benedetti dalla divinità. Tale concezione viene in parte ripresa alla lettera dal Vangelo secondo Matteo, quasi a sottolineare la continuità tra la pratica delle prime comunità cristiane con il messaggio profetico di Geremia e di Gesù.

Proprio per capire la natura del Cristianesimo è necessario rendersi conto delle caratteristiche delle religioni e in particolare analizzare l’ambito del sacro, su cui esse si fondano. Per far questo mi avvalgo degli studi del più importante e geniale specialista in materia del secolo scorso, Mircea Eliade, che ha condensato nel libro “Il sacro e il profano”(Bollati Boringhieri, 5° ed. 2013) tutti gli studi da lui effettuati sulle varie religioni, passate e presenti. Ne riassumo i punti essenziali, con alcune citazioni.

Fin da quando l’essere umano ha preso coscienza di sé, ha sperimentato due tipi di fenomeni: uno ricadeva sulle sue capacità decisionali ed era sotto il suo pieno controllo; l’altro tipo di fenomeni  dipendeva da una forza esterna a lui e oltrepassava la sua capacità di comprensione. Il primo era per lo più legato alla sua vita quotidiana, per il necessario sostentamento e per la sua vita sociale; il secondo dipendeva dalle forze della natura, per lui incontrollabili, come terremoti, fulmini, alluvioni ecc., e quindi questi fenomeni incutevano nello stesso tempo terrore e fascino. Fa perciò esperienza della propria limitatezza, contrapposta alla inesauribile energia del cosmo: due realtà concepite come tra loro inconciliabili, perché la limitatezza dell’essere umano è associata al caos della vita e alla precarietà, mentre l’energia del cosmo offre saldi punti di riferimento per il suo carattere immutabile, eterno, e quindi può dare orientamento alla vita umana.

Si parla quindi di una sfera profana, regno della precarietà e dell’insicurezza, contrapposta ad una sfera sacra che ha solidi punti di riferimento ed è fonte inesauribile di nuova vita. Per la verità tale sfera può dare anche la morte se ci si accosta in modo improprio; è come una corrente elettrica che fornisce nuova energia, ma può anche folgorarci e condurci alla morte. Quindi per accostarsi al sacro ci vuole un accompagnatore esperto o mediatore, che è il sacerdote.

L’essere umano è chiaramente orientato ad avvicinarsi a questa sfera del sacro per poter avere rassicurazioni sulla propria esistenza e per poter attingere alla sua energia positiva. “Il sacro è il reale per eccellenza, potenza ed efficienza insieme, sorgente di vita e di fecondità. Il desiderio dell’uomo religioso di vivere nel sacro equivale infatti al desiderio di sistemarsi in una realtà oggettiva, di non venire paralizzato dal relativismo senza fine delle sue  esperienze puramente soggettive, di vivere in un mondo reale ed efficiente, non nell’illusione”(pag. 23s). Per questo si è sentita l’esigenza di creare spazi sacri, in cui poter attingere alle forze divine, e questi spazi vennero collocati in posizione elevata, su monti naturali o artificiali (ziqqurat) per facilitare la comunicazione con il divino. Ma la costruzione di questi spazi sacri (i templi) deve rispettare l’archetipo celeste, rispondente all’ordine cosmico voluto dalla divinità: solo in tal senso il tempio partecipa alla sacralità divina.

Per attingere alle forze cosmiche primordiali però non basta un luogo sacro, ma è necessario coinvolgere anche la seconda dimensione della nostra corporeità: il tempo. Il tempo sacro è il tempo delle feste, un tempo reversibile che ha la sua ragion d’essere in un tempo mitico primordiale in cui gli dèi hanno espresso tutta la loro potenza vitale. Ogni festa religiosa consiste nella riattualizzazione nel presente di un evento sacro avvenuto in un passato mitico. Il tempo sacro è un tempo circolare, recuperabile attraverso i riti. “In illo tempore gli dèi avevano raggiunto l’apogeo della loro potenza. La cosmogonia è la suprema manifestazione divina, il gesto esemplare di forza, di sovrabbondanza e di creatività. L’uomo religioso ha sete di realtà, ogni sforzo è teso nel tentativo di installarsi presso la sorgente della realtà primordiale, allorché il mondo era in status nascendi”(pag.54).

Partecipando al rito che rievoca e riattualizza la cosmogonia, l’individuo diventa contemporaneo del tempo primordiale, quindi nasce di nuovo, inizia una nuova vita con forze vitali intatte. La periodica attualizzazione dei gesti creativi degli dèi in illo tempore, costituisce il calendario sacro, il complesso delle festività. Il mito quindi è l’elemento fondante la sacralità del tempo, perché racconta l’attività creatrice degli dèi, svelando la sacralità delle loro opere e l’irruzione del sacro nel mondo. “L’irruzione del sacro nel mondo, narrata nel mito, fonda realmente il mondo. Ogni mito rivela la nascita di una realtà, sia la realtà totale, il Cosmo, o solo un frammento di essa: un’isola, una specie vegetale, una istituzione umana. Raccontando in che modo le cose sono nate, se ne dà la spiegazione e si risponde indirettamente ad un’altra domanda: perché sono nate? Il perché è sempre sottinteso nel come. Ciò per la semplice ragione che raccontando (attraverso il rito) come è nata una cosa, viene rivelata l’irruzione del sacro nel mondo, causa finale di ogni esistenza reale”(pag.64).

Riassumendo, spazio sacro e tempo sacro sono quindi alla base di ogni struttura religiosa, dalle più primitive alle più evolute dei tempi recenti. In particolare il tempo sacro è fondato sui miti di un tempo originario, in cui si è rivelata al massimo grado la potenza vitale della divinità e che viene rievocato attraverso i riti per riattualizzare questa energia vitale e infonderla nell’individuo. Altro elemento fondamentale è il rapporto individuale che si instaura tra la persona e il mondo sacrale.

L’uomo religioso vive su due piani: ”Si sviluppa in quanto esistenza umana e contemporaneamente fa parte di una vita transumana, quella del Cosmo e degli dèi. Si ha ragione di ritenere che in un lontanissimo passato tutti gli organi e le esperienze fisiologiche dell’uomo, tutti i suoi gesti avessero un significato religioso. E ciò è ovvio, perché tutti i comportamenti umani sono stati inaugurati dagli dèi o dagli eroi civilizzatori in illo tempore: costoro non solo hanno fondato i vari modi di nutrirsi, fare l’amore, esprimersi ecc., ma anche i gesti apparentemente insignificanti” (pag 106). La vita personale ha dunque la sua diretta corrispondenza nella sfera sacrale e da questa attinge quell’energia vitale che assicura la sua esistenza.

Sulla base di queste analisi di Eliade  noto però che nella storia della religiosità umana subentra un’anomalia, che si sviluppa a partire dall’VIII sec. a.C. presso il popolo israelitico: i profeti fondano la fedeltà a Jahwé non più sui miti e sui relativi riti al tempio, ma su un fatto storico, cioè la liberazione dall’Egitto e la legislazione mosaica, vista come fonte dell’identità religiosa di Israele. Nel secolo precedente infatti, quindi dopo i regni di David e Salomone,  era iniziata a svilupparsi una narrativa sulle origini del popolo, a partire presumibilmente dal rito popolare della Pasqua, che era al di fuori del calendario liturgico del tempio.

Tale rito appartiene originariamente alla tradizione nomade, anche attuale, e consiste nel cospargere del sangue di un agnello o capretto gli stipiti della porta d’ingresso  per allontanare gli spiriti maligni dall’abitazione. Tale rito apotropaico viene applicato dagli israeliti al ricordo della partenza dall’Egitto, quando l’angelo sterminatore passava e non si introduceva nelle abitazioni con gli stipiti cosparsi di sangue, ma uccideva tutti i primogeniti di uomini e animali degli egiziani (Es.12). Unitamente a questi racconti delle origini, si erano raccolte e rivalutate tutte quelle norme adottate durante il periodo nomade, poste spesso in contrapposizione con quelle dei popoli sedentari, presso cui abitavano.

Tutti i profeti dell’VIII sec., quindi Amos, Hosea, Isaia e Michea, condannano il comportamento delle classi dirigenti che si sono allontanate dalla legislazione nomade e si erano conformati a usi e costumi sedentari, che avevano generato ingiustizie e soprusi. Rivendicano quindi come propri di Israele i valori della solidarietà e della giustizia, troppo spesso tralasciati per inseguire ricchezza e potere ad ogni costo e a scapito degli elementi sociali più fragili. Le disavventure politiche poi e la distruzione di Samaria del 721 a.C. vengono perciò interpretate come punizione divina per aver tralasciato di osservare le originarie leggi jahwiste che devono regolare la vita sociale.

Di fatto quindi c’è il superamento della distinzione tra sacro e profano, tra pratica rituale e vita quotidiana. Inoltre non è più la persona singola al centro del rapporto con la divinità, ma sono implicate nella fedeltà a Jahwé le relazioni sociali. La religiosità quindi non è più intesa come rapporto individuale con la divinità, ma acquista un carattere collettivo, perché include le strutture socio-politiche di Israele. Questa impostazione religiosa viene poi portata avanti anche dagli altri profeti del VII e VI sec. E quando Esdra codifica la Torah dopo l’esilio (450 a.C. ca.) e dà una struttura organica alla religione ebraica, mantiene il suo ancoraggio alla storia delle origini, ma nello stesso tempo rafforza la centralità del tempio con il suo calendario liturgico e i suoi riti, che includono anche le feste popolari che prima erano celebrate in famiglia, come la Pasqua (Deut. 16,1-8). Si crea pertanto una contraddizione tra dimensione storica e riti liturgici fondati sul mito, che può risolversi momentaneamente solo nell’elevare a mito gli stessi fatti storici e porli quindi alla base della rievocazione liturgica.

Ma è una soluzione precaria e la contraddizione rimane comunque sotto traccia, pronta a riemergere alla prima occasione, soprattutto in periodi di crisi, perché una realtà dinamica come la storia non può essere incapsulata nella fissità del mito. In effetti nel territorio di Giuda la crisi sociale e religiosa di inizio II secolo, che sfocia nella rivolta dei Maccabei, vede una rivalutazione del dato storico con l’affermarsi della letteratura apocalittica. Questa, prendendo vari spunti formali dai libri di Ezechiele e Zaccaria, evidenzia il piano divino nella storia socio-politica dell’umanità, che grazie al ruolo dei figli della luce porta all’affermazione finale del Regno di Dio sulla terra.

E’ in questo contesto culturale che si forma e matura in Gesù di Nazaret la convinzione di essere giunti nel tempo finale della realizzazione di questo Regno, in cui saranno sovvertiti i ruoli sociali, con il declassamento dei potenti e l’esaltazione della gente umile ed emarginata. Siamo quindi in un ambito culturale che esula completamente dal contesto mitico-sacrale e valorizza l’agire dell’individuo nella società in direzione di un profondo cambiamento sociale.

Anche il Cristianesimo dunque basa la sua ragion d’essere su una visione storica, su fatti storici, e cioè sulla vita di un uomo chiamato Gesù che venne giustiziato su una croce, e su una tomba vuota che indusse i suoi discepoli a convincersi con assoluta certezza che egli fosse stato resuscitato da Dio: essi videro in lui e nel suo insegnamento l’immagine più autentica della divinità. In questa dimensione storica agirono i primi discepoli, creando una comunità solidale, preoccupata di condividere i beni materiali e spirituali, e di non lasciare nessuno nell’indigenza: questo era il loro biglietto da visita e suscitavano per questo molta ammirazione e interesse in tutta la popolazione (Atti 2,44-47).

L’espandersi però del messaggio evangelico nei territori di cultura ellenistica portò gradualmente a mitizzare i fatti storici, per cui questi non vennero più considerati come stimolo ad un impegno sociale, quanto come elementi rituali che riattualizzavano per l’individuo l’energia vitale delle origini e fornivano quindi la salvezza agognata. Il Cristianesimo dunque da messaggio di spiritualità storico-sociale si trasformò in religione, con le strutture mitico-rituali che esulavano dal contesto storico e appagavano l’individuo nella sua esigenza personale di energia vitale.

Il dato storico però non può essere cancellato, anche se lo si ammanta di speculazioni filosofico-teologiche e lo si imbriglia  in dogmi che si allontanano dalla realtà storica. Rimane sempre sotto traccia l’esigenza di riscoprire il significato storico originario del messaggio evangelico. Un’esigenza che è ancor più impellente nei periodi di crisi culturale, come ad es. intorno all’anno 1000, quando inizia a verificarsi un forte  cambiamento sociale e si passa da un’economia rurale ad una artigianale e commerciale.

Proprio in questo periodo si fa strada e acquisisce credito la profezia di Gioacchino da Fiore, che riflettendo sull’Apocalisse di Giovanni, elabora una comprensione storica del messaggio evangelico e annuncia l’imminente avvento dell’età dello Spirito, l’età dei laici, che sono nello stesso tempo individui contemplativi, perché possono avere un contatto diretto con la divinità e come tali non hanno più bisogno di un tutore religioso, impersonato dalla gerarchia ecclesiastica. Essi sono definiti “fratres minores” perché sono al servizio dei più indigenti ed emarginati. L’età dello Spirito è l’età della gioia, della musica, della libertà nel riscoprirsi figli di Dio ed eredi del suo Regno.

Non è un caso che queste caratteristiche compaiano nel comportamento di Francesco d’Assisi, di una generazione successiva a Gioacchino: egli volle essere un laico contemplativo, dedito alla cura del prossimo, e per questo volle definire i suoi seguaci come “frati minori”. Fu chiamato “giullare di Dio” perché, accompagnandosi alla lira, andava di paese in  paese a cantare le lodi di Dio e di madre natura. Come per Francesco, la profezia di Gioacchino dette la stura alla nascita di innumerevoli movimenti di rinnovamento ecclesiale, non solo in Italia, ma un po’ in tutta Europa, i cosiddetti movimenti ereticali, che si protrassero per un paio di secoli e che avevano in comune il desiderio di riappropriarsi delle Scritture e di avere un’attenzione particolare ai problemi concreti degli emarginati nella loro vita quotidiana.

Anche noi viviamo in un’epoca di forti cambiamenti, anzi, per dirla con Papa Francesco, siamo in un  cambiamento d’epoca, in cui le categorie logiche precedenti hanno perso valore, non aiutano più a capire e a governare la realtà. E questa crisi si manifesta in mille modi ogni giorno, spesso in modo drammatico e sconcertante. Proprio in questa situazione entra in crisi anche il riferimento al mito e quindi all’istituzione religiosa che con il suo apparato liturgico si basa sul mito. Questo infatti presuppone una fissità che rimanda ad un fatto primordiale, sempre uguale a se stesso. “ Sotto un certo aspetto si potrebbe dire che esso (il tempo sacro) non trascorre, che non costituisce una durata irreversibile. E’ un tempo ontologico per eccellenza, ‘parmenideo’: sempre uguale a se stesso, non muta né si esaurisce” (pag. 47). Questo stride con la nostra esperienza quotidiana che è in forte accelerazione, e c’è quindi l’esigenza di recuperare la dimensione storica, che però esce dal contesto della religione.

Non bisogna però confondere il termine ‘religione’ con quello di ‘spiritualità’: la religione è l’insieme di norme e pratiche che danno accesso alla sfera superiore del divino, la spiritualità invece implica una tensione dell’individuo a trascendere la situazione presente per aspirare alla realizzazione dei valori universali, quali la verità, la giustizia, l’amore. La spiritualità si può esprimere sia in un contesto religioso che in una dimensione storico-sociale, come dimostra lo sviluppo dell’ebraismo profetico, in cui si inserisce anche il messaggio evangelico.

Proprio perché il Cristianesimo è fondato su un fatto storico, non può essere considerato propriamente una religione, come ammette lo stesso Mircea Eliade, ma esprime una spiritualità storico-sociale: è diventata in seguito una religione, nel momento in cui è stato mitizzato il fatto storico, ma il suo nucleo più genuino può essere capito solo su base storica e implica l’orientamento verso un impegno sociale, considerato come processo evolutivo spirituale, cioè come progressivo avvicinamento all’ideale divino. Chi è legato ad un Cristianesimo mitico, rimarrà sempre ancorato alla fissità del mito, che se da una parte offre all’individuo senza grandi sforzi sicurezza e certezze, preclude però una evoluzione della spiritualità, perché prescinde dai fatti storico-culturali che sono di per sé una realtà in continuo movimento.

In sintesi si può dire che un Cristianesimo mitico inserisce l’individuo in un ambito sacrale perennemente ciclico, immutabile, intimistico e alienante, mentre il Cristianesimo, inteso come percorso spirituale storico-sociale, valorizza la responsabilità dell’individuo, che all’interno di una comunità diviene protagonista di una evoluzione spirituale a partire dai problemi della vita quotidiana e della situazione storica. 

Anche dal punto di vista strettamente teologico, si arriva alle stesse conclusioni. Già nel credo niceno-costantinopolitano si afferma che in Gesù di Nazaret Dio si è fatto uomo. O come si esprime il Vangelo secondo Giovanni, la Parola creatrice di Dio, che è da sempre presso Dio e che si identifica in Dio, si è fatta carne e ha preso dimora tra noi (Giov. 1,1-14). Dio cioè è sceso dall’alto dei cieli, dove tutte le religioni lo collocano, e ha preso le nostre sembianze: da ora in poi Dio dimora tra gli esseri umani e agisce nella nostra storia per sollevarci dalla nostra miseria e condurci verso la sua perfezione. Con ciò cambia il rapporto tra essere umano e Dio: non più un rapporto individuale e rituale, ma un rapporto che coinvolge intrinsecamente le relazioni umane, che è quindi radicato nella società umana e nelle vicende storiche. Da una concezione mitico-sacrale quindi si passa ad una spiritualità radicata nella storia, nei rapporti sociali, perché lì abita e agisce Dio.

Tutti i tentativi fatti lungo i secoli di disincarnare la persona e gli atti di Gesù, di renderli elemento mitico alla base di un culto religioso, sono in contraddizione con i dati del Vangelo e della fede dei primi cristiani. Ogni contraffazione del messaggio evangelico ci porta a distoglierci dall’impegno di solidarietà con il prossimo, immagine di Dio, in cui Gesù Cristo si è identificato. Conseguentemente si travisa il monito “fate questo in memoria di me”, che è originariamente orientato ad una azione fattiva nel contesto storico, che invece si trasforma spesso nell’invito alla ripetizione di un rito e in una formula vuota di contenuto, lontana dalla vita reale e incomprensibile alla sensibilità odierna.

Nel Cristianesimo viene dunque abolita la distinzione tra sacro e profano, perché tutto concorre a trascendere l’attuale nostra limitatezza per avvicinarci misticamente alla completezza del nostro essere nel Tutto Cosmico.

Il futuro della Chiesa, intesa come popolo di Dio in cammino, si gioca tutto sul tema del sacro, cioè sulla nostra capacità di rinunciare alla visione mitica del Cristianesimo, per riscoprire la spiritualità originaria del Vangelo nell’attesa e nella costruzione di un Regno di giustizia, di solidarietà e di pace.