Don Milani, le donne e papa Francesco di M.Furlani eL.Muraro
Mira Furlani e Luisa Muraro
In occasione della visita del papa a Barbiana, è apparsa una breve biografia, scritta da Alessio Niccolai, di una donna che, assieme a sua madre, ha vissuto accanto a don Milani quasi tutta la sua vita. Il testo è scritto da un uomo di buona volontà che non sa o non vuole interrogarsi a fondo sul destino obbligato dell’altro sesso.
Sì, perché a Barbiana (FI) le donne c’erano. Ci sono state fin dal primo giorno in cui don Milani fu mandato dal vescovo di Firenze in quel borgo sperduto fra i monti per punizione. Quelle donne erano Giulia e Eda, madre e figlia. Io, Mira, le ho conosciute, senza averle frequentate.
Giulia e Eda, prima di finire a Barbiana, sono state per sette anni a servizio in una parrocchia dell’hinterland fiorentino dove don Milani, fresco di seminario, arrivò in qualità di cappellano e subito si distinse per la sua pastorale innovativa.
Quando fu mandato a Barbiana, Giulia e Eda, che a lui si erano affezionate, l’hanno seguito. Ci chiediamo: morto il vecchio parroco, mandato a Barbiana il giovane cappellano, è forse stata data loro un’altra possibilità per campare? Se non andavano a Barbiana con don Milani, che ormai conoscevano bene, che altro potevano fare per vivere? Andare a servizio dove e da chi?Il testo di Alessio Niccolai dice che loro hanno seguito don Milani per affetto e che poi sono diventate “la colonna femminile dell’esperienza di Barbiana” . Belle parole di un risarcimento tardivo, è l’ovvio commento, al quale un altro può aggiungersi: meglio tardi che mai. Oppure un altro ancora: va bene, che bello, ma a che prezzo?
Il vero problema non è questo. All’Isolotto, dopo che è apparso il libro di Mira Furlani, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, una critica risalta tra le altre, che il pensiero della differenza sessuale cui l’autrice fa riferimento, non c’entra nulla con la storia dell’Isolotto e la figura del suo leader. Vi spieghiamo invece perché e come c’entra.
Le due donne che hanno seguito don Milani e hanno dedicato la loro vita alla comunità di Barbiana spendendosi nei modi che avevano a disposizione, hanno seguito un modello di femminilità imposto e senza alternative, o lo hanno fatto liberamente?
Ci sono imprese che non hanno prezzo, ci sono esseri umani la cui generosità trascende il codice dei diritti e dei doveri, e questo è magnifico, aiuta l’umanità a migliorarsi. Ma a una condizione: che le persone protagoniste lo facciano liberamente, cioè che il loro comportamento sia consapevole e accettato; meglio se hanno delle alternative, ma a volte non ci sono, la condizione però resta e dice: che ci sia l’accettazione consentita internamente.
E di più: dice che questo, in quanto è veramente spesa di sé liberamente consentita, faccia luce, sia riconoscibile, sia visibile alle persone, così da essere un esempio. Prima o poi.
Ecco la questione: per l’umanità femminile nella cultura patriarcale, com’è ancora quella della Chiesa cattolica, il modello di autorealizzazione femminile, giusto o sbagliato che sia, condivisibile oppure no, consentito o avversato da lei, in ogni caso è sostenuto da uomini e manca la condizione simbolica che abbiamo detto.
Per cui non si sa se le parole di Niccolai siano furba retorica maschile o verità storica di cui un uomo sincero rende testimonianza. Manca, detto in poche parole, che lei possa dire Dio a partire da sé, consapevolmente e apertamente.
Ai suoi tempi don Milani non ha potuto incontrare il pensiero della differenza sessuale e non ha potuto capire quanto la Chiesa, per uscire dagli stereotipi culturali patriarcali, avesse bisogno della libertà femminile.
A Barbiana il papa ha detto che “don Milani è figlio della Chiesa”. Che cosa ha voluto dire con queste parole se non dare nuovo senso e lustro ad un sacerdozio in declino? Ora il pericolo è quello che anche di don Milani si faccia “un bel santino”, com’è stato scritto nella cronaca fiorentina del quotidiano La Repubblica.
Proprio quello che don Milani, come anche don Enzo Mazzi, non avrebbero voluto diventare e avevano due volte ragione, perché di santini nella chiesa maschile, gerarchica e patriarcale ce ne sono fin troppi, ma di preti veri e donne amanti del Vangelo, consapevoli di sé, ce ne saranno sempre meno. Caro papa Francesco, pensaci!
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Eda Pelegatti: breve biografia di una donna che sapeva voler bene (Alessio Niccolai, 16 aprile 2017)
Eda Pelagatti è stata la colonna femminile dell’esperienza di Barbiana, la parrocchia di montagna dove Don Lorenzo Milani ha condotto la sua celebre scuola.
Nata il 20 aprile 1912 in una famiglia operaia di Calenzano, nei pressi di Firenze, in tenera età rimane, figlia unica, orfana di padre; cresciuta, contribuisce al mantenimento suo e della mamma Giulia, facendo qualche ora presso la parrocchia di San Donato a Calenzano retta da Don Daniele Pugi; nel 1947 arriva in parrocchia Don Lorenzo Milani in qualità di cappellano ed Eda ha modo di ammirare l’abnegazione e il rigore di questo giovane prete che si spende per l’elevazione culturale e sociale dei contadini e degli operai del circondario.
Nel 1954 il vecchio parroco muore e contrariamente alle consuetudini Don Lorenzo non viene promosso parroco di San Donato, ma mandato a Barbiana. La decisione venne vissuta con grande sofferenza da parte di tutto il popolo, ma in particolare da Eda e sua mamma Giulia che in quei sette anni avevano avuto modo di prendersi cura di lui; ora erano di fronte alla drammatica scelta se lasciarlo andare da solo in un luogo sperduto della Toscana o seguirlo per rendergli la vita meno difficile; fecero prevalere l’affetto e raccolte le poche masserizie di casa, il 7 dicembre 1954 si trasferirono a Barbiana con lui.
Durante il trasloco, nel freddo e sotto una violenta pioggia che aveva bagnato tutto, Eda era un’anima in pena che ripeteva a Don Lorenzo: «ma ha visto dove ci hanno buttato?!?». Solo lei e sua mamma sanno quanto hanno sofferto, ma l’attaccamento a Don Lorenzo le ha sempre sostenute e rese capaci di adattarsi alla nuova vita di montagna.
Racconta Eda: “Io e lui eravamo come fratello e sorella senza interessi né di soldi, né di altro. Quando fu mandato a Barbiana, mandò in macchina me e la mamma quassù perché decidessimo liberamente se volevamo seguirlo oppure no. Io ho vissuto con lui in famiglia, non al suo servizio. Quando arrivò a Barbiana, don Lorenzo non pianse, o almeno io non l’ho visto piangere, poi non so se quando salì in camera sua pianse.
Cominciò con la scuola il giorno dopo e i suoi ragazzi oggi sanno fare ogni cosa. Non voleva che i ragazzi stessero in ozio: “il tempo è prezioso”, diceva il priore. Lui non perdeva mai tempo e la sua vita era un insegnamento continuo. Era un vero cristiano. Ricordo che un giorno trattò male una persona ed io, che amavo il quieto vivere, gli dissi: “Ma Priore, ora non tornerà più”. E lui: “Ha paura che non ci porti più la roba, Eda? Ma se non ce la porta lui, ce la porterà qualcun altro”. Perché a lui interessavano le anime e non le cose.”
Nelle lettere alla mamma, don Lorenzo ha sempre messo in risalto il ruolo di quest’infaticabile donna, che senza mai fare un giorno di riposo o di vacanza, era madre di tutti i ragazzi che frequentavano la scuola e, in particolare, di Michele e Francuccio Gesualdi, i due fratelli orfani accolti in casa nel 1956.
Precisa Eda: “Io ho vissuto con don Lorenzo in famiglia, non al suo servizio”. Sempre attenta a ciò che succedeva, era sempre profondamente coinvolta in tutte le vicende della scuola, nei rapporti con le famiglie di Barbiana, nei contrasti che don Lorenzo aveva con la borghesia fiorentina e con la Curia. Da persona mite e più propensa a infliggere una sofferenza a stessa che agli altri, soffriva molto quando si apriva un nuovo fronte di scontro per don Lorenzo. Ogni volta cercava di convincerlo a smussare le posizioni, ma in cuor suo sapeva che don Lorenzo aveva ragione e verso l’esterno lo difendeva a spada tratta.
Nel 1961 Eda perde la mamma, ma il periodo più duro fu quello dal 1963 al 1967 quando il tumore che affliggeva don Lorenzo si conclamò in tutta la sua gravità. Don Lorenzo, sempre più debole e afflitto dai dolori, passava gran parte del suo tempo fra letto e poltrona pur continuando a fare scuola e a portare avanti i suoi insegnamenti di vita. E’ del 1965 la sua Lettera ai cappellani militari e del 1966 la sua Lettera ai giudici, per giungere alla Lettera a una professoressa scritta con i suoi allievi e pubblicata nel 1967 un mese prima della sua morte. Eda gli è stato sempre accanto per assisterlo e cercare di risparmiargli fatiche.
Eda muore a Firenze il 18 maggio 2002 all’età di 90 anni. E’ sepolta nel cimitero di Barbiana dove riposa accanto alla mamma Giulia e a don Lorenzo.
Mi pare che questo articolo dia degli spunti interessanti di commento:
Non si giudica il passato da prigionieri del presente
L’indiscriminata attualizzazione etica non è che uno dei tanti aspetti di un ostracismo ormai decretato dalla nostra cultura nei confronti della storia
di Ernesto Galli della Loggia
dal Corriere della sera del 11 luglio 2017
Come è già accaduto per altri esponenti della Chiesa cattolica, anche dal passato del neodesignato capo della Congregazione della Dottrina della Fede, Luis Francisco Ladaria Ferrer, pare che possano emergere fatti gravi. Molti anni fa, quando era vescovo, egli avrebbe (il condizionale è assolutamente d’obbligo) «coperto» alcuni sacerdoti accusati di pedofilia. Un caso non nuovo, dicevo, che qui mi interessa solo come un esempio del modo in cui nella nostra società, che pure sta così velocemente cancellando il passato, questo stesso passato sembra prendersi una rivincita affermando la propria esistenza e facendo irruzione nel presente.
Ma è una rivincita solo apparente. Infatti anche in questo caso il presente si dimostra di gran lunga più forte e capace di affermare il suo pieno dominio sul tempo. Lo fa innanzi tutto in un modo quanto mai penetrante: cioè con l’applicare disinvoltamente anche alle epoche e alle circostanze più lontane, quando viene per qualunque ragione a contatto con esse, i propri criteri di giudizio, la propria morale — criteri e morale naturalmente attuali, tutti improntati alla sensibilità di oggi. Perlopiù, insomma, il predominio assoluto del presente, il «presentismo» , prende la forma specifica di un’indiscriminata attualizzazione etica. La quale però , a ben vedere, non è che uno dei tanti aspetti di un fenomeno più generale: e cioè l’ostracismo ormai decretato dalla nostra cultura nei confronti della storia (a proposito del quale si può leggere un interessante libro di Francesco Germinario, appena uscito: Un mondo senza storia?, Asterios). Ostracismo verso la storia che nasce da due fratture avvenute negli ultimi decenni: da un lato le novità del progresso scientifico-tecnico responsabili di averci cambiato la vita, e dall’altro la fine delle grandi narrazioni ideologiche otto-novecentesche la quale sta cambiando il nostro modo di pensare.
Tutto ormai è presente: e così giudichiamo il passato con il nostro metro attuale. Negando quindi implicitamente che come mille altre cose anche il giudizio morale — specie quello collettivo, quello riferibile alla società nel suo complesso — risenta inevitabilmente dei tempi. Che anch’esso sia frutto della storia e possa mutare con essa. Viceversa, messi di fronte a grandi fenomeni storici i più vari come la schiavitù, la guerra, l’entusiasmo religioso, lo spirito di conquista, il colonialismo, la differenza sociale e giuridica tra i sessi, siamo indotti a emettere su due piedi facili giudizi di condanna. Nel generale addio alla storia che si sta consumando in tutto l’Occidente, il passato diviene così il più ovvio e facile (tanto non si urta la sensibilità, e dunque la reazione, di nessuno) ambito di applicazione del «politicamente corretto» . Con l’accluso obbligo di fare ammenda e di chiedere perdono per chi di quei fenomeni può essere più o meno sensatamente e più o memo direttamente ritenuto oggi responsabile.
Ho parlato di «politicamente corretto» perché del passato, di quanto ogni volta è allora davvero accaduto — cioè del contesto effettivo in cui le cose si svolsero, e pertanto delle logiche, dei valori e delle mentalità allora operanti, dei vincoli e dei condizionamenti allora presenti — sembra che non si possa, e soprattutto non sia lecito, darsi alcun pensiero. Ciò che importa, invece, sembra essere solo affermare un principio generale circa ciò che è bene e ciò che è male. Naturalmente, secondo il punto di vista delle maggioranze politico-culturali che dominano il discorso pubblico in Occidente : punto di vista che, intendiamoci , può essere giusto e accettabilissimo — chi mai per esempio approverebbe oggi la schiavitù o la subordinazione della moglie al marito ? — ma che, trasposto nel passato, acquista un carattere di assolutezza che fa capire poco o nulla, comporta una rigidità prescrittiva che rischia di non rendere giustizia alle persone.
So bene che se si applica quanto vengo dicendo a certi argomenti il discorso si fa pericoloso, rischiando di apparire in qualche modo giustificatorio: ma può essere questo un buon motivo, mi domando, per rinunciare a porre a tutti noi un problema di verità e di equità? Chi come chi scrive ha una certa età ricorda bene un tempo e una società in cui comportamenti che oggi non esitiamo a qualificare come pedofilia (perché senz’altro lo sono), e che quindi suscitano la nostra sacrosanta indignazione con relativa richiesta di sanzioni adeguate, non producevano invece la stessa riprovazione e lo stesso allarme che producono oggi. Ad esempio, è molto probabile che oggi le notti romane di Pier Paolo Pasolini non sarebbero circondate dalla sostanziale noncuranza di quarant’anni fa. Sicché se egli fosse vivo è possibile che retrospettivamente più d’uno troverebbe in proposito qualcosa o molto da ridire. Così come oggi troveremmo certamente molto da ridire sul passato del responsabile dell’ex Sant’Uffizio se le voci che lo riguardano venissero confermate; e in ogni caso giustamente esigiamo che in questo come in tutti gli altri casi analoghi sia fatta fino in fondo la necessaria chiarezza e quindi la necessaria giustizia. Il che non può impedirci però di continuare ad agitare nel nostro animo il pensiero della fragilità di ogni facile giudizio davanti alla dura macina del tempo, e di condividere sempre anche noi laici l’antico ammaestramento alla pietà.