spezziamo insieme il pane
Elizabeth Green
Carissime amiche,
Ecco alcune riflessioni che mi sono sorte spontanee dopo aver letto la proposta di Doranna e aver partecipato alla vostra bella liturgia.
- Mi è sembrato che tutta la liturgia fosse incentrata sul divino detto al femminile. Non solo si citava un vangelo gnostico ma sia le “beatitudini” sia la preghiera alla Shekinah si allontanavano dal testo biblico. Nell’interpretazione del vangelo l’attenzione era spostata da Gesù alla reazione dei discepoli. Così ho capito tutta la liturgia come un tentativo di “origliare” ciò che Gesù e la samaritana dicevano e che non aveva destato l’interesse dei discepoli (Gv 4,27)
- Dato il contesto, quindi, non riesco a comprendere la perplessità espressa circa la proposta di Doranna. Anzi, il non voler accostare le parole della condivisione del pane all’esperienza di dare la vita delle donne accentua la “sacralità” (intoccabilità) di tale momento e della sua maschilità (Dio, il Gesù storico). Mi sono interrogata a questo punto sull’idea che sta dietro la condivisione del pane il momento in cui non mi è sembrato una rappresentazione della cena (mancava il calice!)
- Detto ciò e entrando in merito all’accostamento effettuato da Doranna vi offro le seguenti riflessioni: a) Già Gv 16,20 attraverso la frase “è venuta la sua ora” mette il travaglio/dolore della donna in relazione alla morte/res di Cristo e il dolore/gioia dei discepoli e delle discepole.
- b) Nel mio Dio sconfinato leggo la parabola del buon samaritano come una metafora dell’opera di Gesù di cui l’unzione di Gesù da parte di una donna è una versione al femminile (cap 2). Quindi si può benissimo giocare sul “in memoria di me/lei” (frase che però non ho sentito domenica) per dire il darsi di Cristo mediante immagini femminili
c)Inoltre, Gv fa uso abbondante delle metafore della nascita e del mangiare (capp 3 e 6). Esiste un noto saggio su come a un certo momento del medievo a Gesù furono attribuite queste caratteristiche “materne” (Caroline Walker Bynum, tradotto in italiano)
- d) tant’è che Daly (Al di là di Dio Padre conclusione) ritiene che nella chiesa i maschi si sono appropriati delle funzioni femminili.
- . Le teologie femministe hanno cercato di destabilizzare l’economia binaria della teologia. Usando metafore femminili si cerca di destabilizzare la maschilità divina, allo stesso tempo dando valore e spessore teologico all’esperienza delle donne in tutto il mondo. Tuttavia, (e questo sarebbe la mia nota eventualmente critica) bisogna stare attente a non sacralizzare un aspetto del femminile reinscrivendolo nella stereotipia patriarcale.
Un abbraccio a voi tutte e grazie dei momenti trascorsi insieme.
Elizabeth Green
Ciao, provo anch’io a dare un contributo al dibattito.
In primo luogo da subito devo confessare che da quando nella mia comunità di chiesa (quella di S. Francesco Saverio di TN) ci troviamo a celebrare senza la guida di padre Butterini sono emerse due tendenze diverse sia dentro la comunità sia dentro me stessa. Da una parte l’idea che, con prete o senza, la liturgia abbia una sua forma prestabilita e che la “sacralità” del momento (in particolare quello della condivisione del pane e del vino) vada rispettata e sottolineata dal silenzio e dalla meditazione individuale, dall’altra la tendenza a fare di questo momento un vero incontro in cui dialogare, mettere a confronto i vissuti con i testi e condividere pane e vino con semplicità parlando tra noi come si fa ad una normale mensa conviviale. Credo che in questa duplicità d’atteggiamento giochi un ruolo pesante l’abitudine culturale a considerare banale il quotidiano e a voler separare a tutti i costi il “sacro” dandogli una dimensione di straordinarietà. Proprio questa è la dicotomia da superare a mio avviso! Finché questa separatezza permarrà, grave sarà il pericolo che le orme del divino vengano cercate fuori da noi (nel gesto liturgico, nel testo sacralizzato, nelle indicazioni di vecchie e nuove gerarchie) e non nello “stare in presenza”, nella relazione che qui e ora metto in campo, nella capacità personale e collettiva di farsi canale di quella pervasività del divino che sa rendere sacra ogni realtà invitando alla relazione “compassionevole e simpatetica”. Potrei dirlo con le “laiche” parole di Giovanna: “ritualità nuove che esprimessero il senso della condivisione di pezzi di vita (almeno) con altre”
Detto questo vorrei aggiungere che, sempre nella semplicità del quotidiano, la capacità delle donne di farsi “co-creatrici” nella generazione della vita umana è sacra di per sé, così come lo è la capacità di ogni femmina mammifera di farsi cibo per la sua progenie. Gesù ha chiaramente riconosciuto questo (e qui non posso che concordare con E. Green e Doranna riprendendo il loro discorso) scegliendo moltissimi gesti e metafore “femminili” con ritmo che diviene sempre più incalzante quanto più si avvicina alla morte. Basti pensare alla frase che Giovanni usa per descrivere la sua morte: “Subito dalla ferita uscì sangue con acqua”. Sangue ed acqua insieme sono i fluidi del parto, ed è grazie a questa metafora che il sangue di Cristo è capace di essere generatore di vita nuova (del resto vorrei far notare che anche nel gesto liturgico tradizionale al vino viene aggiunta l’acqua). Lo stesso evento in Matteo e Marco viene invece riportato così: “Allora il grande velo appeso nel tempio si squarciò in due da cima a fondo” . Il velo che nel tempio separa il “Sancta Santorum”, il luogo a cui nessuno può accedere se non il sacerdote di turno, si squarcia proprio a simboleggiare la caduta della separatezza tra sacro e profano.
I miei auspici dunque sono:
che tutto venga allontanato dagli altari (luogo peraltro simbolo del sacrificio) e al centro torni ad essere la mensa come luogo di accesso condiviso al cibo che è fonte di vita.
che sacro non sia più ciò che viene gestito in separatezza da alcuni/e ma la vita stessa che tutto attraversa e coinvolge (anche la morte trasformatrice).
Mi scuso per la lunghezza e la pesantezza, ma non ho saputo fare di meglio. Un abbraccio Paola
Con mio grande dolore non ho potuto partecipare all’incontro di Verona, ma ho seguito da vicino la proposta di Doranna che Elizabeth Green sembra avvalorare, chiudendo però le sue riflessioni con la seguente critica: “Bisogna stare attente a non sacralizzare un aspetto del femminile reinscrivendolo nella streotipia patriarcale”.
La risposta di Giovanna non mi è chiara. Personalmente sono orientata verso un altro punto di vista, a mio parere più aperto alla speranza e al reale.
Faccio presente che preti e teologi, progressisti o meno, si sono già appropriati della metafora del parto come travaglio che mette al mondo le loro idee (maschili). Però questa loro appropriazione cultural/simbolica non riesce e non può cancellare l’esperienza femminile concreta del sangue che la gestazione e il parto reale comportano. Tanto è vero che ancora in certe chiese d’Italia si usa “rimettere in santo” le donne dopo che hanno partorito, una consuetudine patriarcale che ha l’intento di cancellare il momento più significativo dell’esperienza femminile della vita. Per questo motivo io trovo molto antipatriarcale recuperare l’esperienza del sangue della donna che genera accostandola a quella di Gesù che nell’ultima cena ricorda il suo “amore incondizionato e universale per la vita e per tutti i viventi”.
Di più: il sangue legato al travaglio del parto non può che rappresentare un simbolico del sacro che appartiene solo all’essere donna e per questo motivo non potrà mai essere reinscritto nella stereotipia patriarcale, neppure per cancellarlo.
“Tuttavia, (e questo sarebbe la mia nota eventualmente critica) bisogna stare attente a non sacralizzare un aspetto del femminile reinscrivendolo nella stereotipia patriarcale”. Il nodo che Elizabeth Green mette in fondo, come piccola nota critica, dovrebbe essere fondamentale per donne che nel percorso su “il divino: come liberarlo, come dirlo, come condividerlo” hanno da molti anni posto l’accento sulla necessità di trovare segni, gesti, parole, insomma ritualità nuove che esprimessero il senso della condivisione di pezzi di vita (almeno) con altre.
Il solito problema di vino nuovo e otri vecchi? Non solo, c’è anche il problema del vino nuovo, e mi dispiace – come detto a Doranna nella hall di Verona – che il suo intervento pubblicato sul blog poco prima dell’incontro non fosse in cartella (io mi ero fatta carico con Anna Caruso di mandarle quanto scritto nel blog negli ultimi mesi e mi sento responsabile di non aver potuto leggere il blog nei due giorni precedenti e, quindi, non aver potuto segnalare alle Veronesi questo intervento per le cartelle); è un nodo da discutere guardandosi negli occhi e non solo tramite blog.
Quando nell’organizzazione dell’incontro è stato messo “spezziamo insieme il pane” come momento di condivisione, si è voluto – mi sembra di ricordare anche visivamente il tavolo attorno a cui sedevamo e la voce delle donne di Ravenna presenti – accogliere un desiderio: non quello di sacralizzare una maschilità (il pericolo che sottolinea Elizabeth) ma di fare ancora una volta riferimento ad un gesto della tradizione (lo spezzare il pane) che, gestito da donne, per molte ha un valore simbolico alto. Queso gesto, che può essere molto scarno, essenziale, nella “liturgia” di Verona – a schema molto tradizionale delle celebrazioni eucaristiche delle comunità – quasi è sparito, Testi tutti molto belli, peraltro!
Qui torna allora l’invito di Adriana Valerio a Cattolica: fare i conti con la tradizione, anche .nelle sue forme liturgiche dico io. Nella liturgia possono scappare fuori tanti equivoci.
Ma come già detto, non è solo questione di otre nuovo: si vuole veramente sacralizzare (perché così io l’ho percepita) un aspetto del femminile, il suo corpo generante (non solo simbolicamente)? Ci sarà molto da discutere.
Tornando allo “spezziamo insieme il pane”, francamente preferisco spezzare il pane con voi senza tante parole, perché – anche per me miscredente – se altre gli danno valore e gestiscono questo semplice atto in libertà, può esprimere simbolicamente il riconoscimento di essere ini relazione.