Una credibilità tutta da dimostrare di D.Accolla
Dario Accolla
www.italialaica.it
Due notizie mi hanno incuriosito e allo stesso tempo infastidito, nei giorni precedenti, riguardanti entrambe l’attuale pontefice romano, Jorge Mario Bergoglio.
In primis, l’affaire Stéfanini, l’ambasciatore francese designato presso la Santa Sede rifiutato per la sua omosessualità. Un fatto che, qualora servissero prove ulteriori, fanno della Città del Vaticano uno stato pericolosamente vicino ad altri come l’Iran, l’Arabia Saudita e altre realtà mediorientali dove l’essere gay può dare ancora diversi problemi, dalle discriminazioni alla morte. Certo, oltre Tevere non si è così estremi da prevedere l’eliminazione fisica dei soggetti ritenuti fuori norma, ma è anche vero che anni or sono – sempre per un’iniziativa francese di moratoria sui reati legati all’identità sessuale presso l’ONU – ciò che resta dello Stato Pontificio si schierò, per l’appunto, con i paesi islamici difendendo la loro libertà di poter discriminare. Adagio antico questo, che ritorna anche nelle nostre leggi, sempre ispirate per compiacere i potentati cattolici: pensiamo alla legge sull’omofobia, targata Partito Democratico, che (pur non votata) ha fatto degli hate speech contro le persone LGBT un mero punto di vista, pura opinione e non un crimine. E insomma, come ci ricorda per altro Odifreddi, in un articolo sul suo blog su Repubblica.it in merito alle presunte aperture del capo del cattolicesimo riguardo i gay: «nel modo al rovescio del Vaticano un papa si domanda, stranamente, chi sia lui per giudicare i preti a lui sottoposti. Ma non si domanda, altrettanto stranamente, chi sia un papa per giudicare gli ambasciatori». Ciò dovrebbe far riflettere soprattutto quanti anche dentro la gay community guardano con favore al nuovo corso inaugurato da Bergoglio, che di veramente innovativo sulla questione omosessuale non ha nulla.
La seconda notizia è stata la condanna, sempre da parte dello stesso personaggio, delle “persecuzioni di cristiani” che si consumano in tutto il mondo. Premetto che, pur da non credente, penso che chiunque su questa terra abbia il diritto di credere al dio, all’idolo e alla suggestione interiore che più gli aggrada. Vietare tutto questo, con la forza della legge, delle armi e della violenza, è un atto inqualificabile. Detto ciò, penso che le dichiarazioni di Bergoglio su queste persecuzioni siano un esercizio linguistico nato per un evidente amore per l’iperbole. Sia chiaro, nessuno nega che nei villaggi africani si uccidano persone per la loro fede, ma forse bisognerebbe ammettere che tali violenze fanno parte di un sistema politico e sociale molto più complesso che si lega a fenomeni globali di più ampia portata e che hanno un preciso significato geopolitico. Ridurre il tutto al concetto di persecuzione contro una religione è, a mio modesto parere, un atto intellettualmente poco onesto. Mi sembra che si voglia tirar acqua al proprio mulino su tragedie, appunto, ben più grandi e che comprendono anche (ma non solo) il pretesto religioso. Soprattutto, se si va a ben vedere, considerando il contesto mondiale in mano a nazioni di cultura e fede spiccatamente cristiana che determinano, altrove, le condizioni per cui poi si sterminano gli abitanti di questo o quel villaggio nei paesi musulmani.
Insomma, un paese così attento a discriminare minoranze specifiche (parlo ancora del popolo arcobaleno) in virtù del proprio credo e a impedire – in Italia come all’ONU – un miglioramento effettivo delle loro vite opponendosi a ogni tipo di tutela, dovrebbe stare molto attento a recitare la parte di chi poi lamenta lo stesso trattamento che infligge ad altri, sebbene in modo più soft. Fosse non altro per una questione di credibilità.