L’Italia non è un Paese per donne di F.Tulli

Federico Tulli
www.cronachelaiche.it

Una contabilità asettica dice che in Italia ogni 48 ore un uomo uccide la moglie o la compagna, la ex moglie o la ex compagna. Sulle prime pagine dei quotidiani ci sono ormai spazi fissi dedicati all’aggiornamento della mattanza. L’ultima si è consumata poche ore fa a Città di Castello in Umbria dove stando alle prime ricostruzioni un agente di polizia ha sparato con un fucile a pompa alla moglie e poi si è tolto la vita.

L’annus horribilis, secondo l’ultimo Rapporto Eures, è stato il 2013 con 179 donne uccise dal loro partner o ex partner. L’analisi del fenomeno sui media procede spesso in chiave numerica, forse per incuriosire il lettore. Si scopre così che la violenza degli uomini in scala nazionale è la prima causa di morte tra le donne nella fascia di età di 15-44 anni. Quella che dai sociologi viene definita “violenza di genere” uccide più dei tumori, più degli incidenti stradali, e si è insinuata nel tessuto sociale del nostro Paese lacerandolo in profondità.

Più in generale è stato calcolato che circa il 75 per cento dei delitti si consuma tra le mura di casa e che l’omicidio oltre la metà delle volte si verifica all’interno della coppia. Le casalinghe tra i 25 e i 54 anni sono le persone più a rischio e nove volte su dieci il responsabile del crimine è un uomo. Numeri agghiaccianti che però a una lettura più attenta risultano essere solo la punta dell’iceberg di un fenomeno più complesso e scarsamente indagato: la violenza domestica.

Sebbene dietro a ogni “femminicidio” ci sia sempre una storia di violenza più o meno lunga, questa rimane praticamente invisibile fintanto che non esita in omicidio. Violenza fisica e coercizione psichica esercitate da parte del marito sulla moglie, del compagno sulla compagna prima del gesto estremo, emergono quando oramai è tardi. Si vengono a scoprire e a conoscere quando non c’è più nulla da fare. Eppure è qui che si può agire per impedire l’ennesimo omicidio.

Che fare? Come fare? Come possono la collettività e gli specialisti riuscire a cogliere in tempo determinati segnali? Come dare voce alle donne e impedire nuovi massacri in “nome dell’amore”?

«In generale, per poter arginare il fenomeno o addirittura prevenirlo è oggi più che mai necessaria la diffusione a partire dalle scuole di un nuovo modello di cultura, da veicolare con un linguaggio nuovo rispetto a quello “tradizionale”- spiega a Babylon Post Irene Calesini, psichiatra, psicoterapeuta e dirigente Medico nei servizi territoriali della salute mentale della provincia di Roma -. È ormai evidente – prosegue – che la sola parità dei diritti non basta per impedire che un uomo alzi le mani sulla compagna.

Dalle tragiche notizie che giungono con cadenza quotidiana emerge che in Italia non sono mai state eliminate le disuguaglianze e la sudditanza psicologica delle donne, il cui valore come esseri umani è riconosciuto dalla cultura dominante di matrice cattolica solo in quanto madri e/o mogli». Ed è quando decidono di volersi separare che infatti spesso si scatena la violenza omicida dell’uomo cresciuto in un ambiente che ne asseconda la convinzione di essere signore e padrone.

La realtà giornaliera con cui la dottoressa Calesini si trova a fare i conti nel suo ambulatorio pubblico dice che la violenza (di genere) in famiglia è un fenomeno strisciante molto diffuso e che vari fattori rendono difficile l’intervento delle autorità sanitarie e/o giudiziarie. «Dietro ogni storia di vessazioni c’è anzi tutto una continua “normale” violenza psicologica. È quella che crea i danni maggiori nel tempo.

Nel centro di salute mentale molte delle donne che vengono perché si sentono giù, provano stati d’ansia, di depressione. Non raccontano di essere vittime di continue aggressioni fisiche o di intimidazioni, umiliazioni da parte del partner. Solo dopo alcuni colloqui esce fuori che in casa c’è un uomo violento.

C’è quello che si ubriaca e le picchia – è molto frequente -, quello che ha evidenti disturbi psichici e non si cura o quello che apparentemente ha una vita “normale”, lavoro, svaghi etc, e che poi una volta dentro casa la tiranneggia svalutandone le qualità umane e le sue eventuali realizzazioni sociali. È così che, se non c’è un rifiuto da parte di lei, si crea un climax di sottomissione nella quale la donna cade senza riuscire a separarsi».

Allontanarsi dal proprio aguzzino non è affatto semplice. «Può sembrare strano ma ancora oggi tantissime donne non hanno un reddito e quindi pesa la dipendenza economica dall’uomo». E poi c’è la solitudine. Spesso proprio i familiari, i medici (di famiglia), i conoscenti (parroci) e gli amici per primi non vedono la violenza indicibile perpetrata tra le mura domestiche. Oppure se la vedono sono loro a dissuadere le vittime dal rivolgersi al commissariato.

Ed ecco che i pronto soccorso di tutta Italia “curiosamente” accolgono ogni giorno donne cadute per le scale. È questa infatti la motivazione più utilizzata dalla vittima per nascondere in pubblico il dramma che sta vivendo e di cui si vergogna. I perché di questa dinamica che non è certo di autodifesa, sono inquietanti. «Va detto che anche i servizi territoriali non riconoscono l’asimmetria maschio-femmina e la “convenzione” sociale che assegna all’uomo il dominio della famiglia».

Una sorta di fredda indifferenza che sembra radicata al punto di poter essere definita una questione culturale anche in ambito medico. «Capita raramente che una persona quando viene in ambulatorio comunichi immediatamente l’esistenza di un rapporto con un partner violento o con un padre violento. Quindi di fronte al suo malessere la risposta standard dell’operatore si traduce nella prescrizione di pillole per dormire».

Inoltre anche tra gli stessi medici l’idea che una persona stia male perché c’è un rapporto che la fa star male, difficilmente fa parte del bagaglio di conoscenza e formazione. «Spesso le stesse vittime non accettano questo discorso – osserva Calesini -. Occorre un lavoro preliminare in cui la donna si senta ascoltata e non colpevolizzata più di quanto lei stessa si senta; che acquisti fiducia per intraprendere un percorso terapeutico che le consenta di iniziare a sottrarsi al giogo sadomasochistico che sempre si accompagna all’ansia e allo stato depressivo. Inoltre, quando emerge che stanno male perché vicino c’è una persona violenta diventa chiaro che è lui che ha bisogno di essere curato».

Ma come convincerlo? «È ovvio che costui non ammetterà mai di star male e la compagna stessa spesso ha paura di coinvolgerlo in certi discorsi perché poi una volta a casa da soli la sua vendetta è scontata». Anche per questo, ribadisce la psichiatra, è necessario diffondere un nuovo modello di cultura, che punti sul rapporto paritario e di uguaglianza uomo-donna, superando gli schemi “storici” che vedono il genere femminile relegato a un ruolo secondario. Tutto ciò diventa ancora più efficace se realizzato a partire dalla scuola pubblica, facendo ai ragazzi discorsi chiari e coerenti su cosa sia la sessualità umana ed il rapporto interumano.

«Una visione diversa del rapporto tra i sessi e la realizzazione di rapporti non violenti tra gli esseri umani e in particolare tra uomo e donna è possibile solo accettando la uguaglianza alla nascita di tutti gli esseri umani. Uguaglianza non solo dichiarata o “giusta”,- come nelle società più evolute astrattamente si accetta- ma sostanziale e ormai scientificamente provata, per la dinamica della nascita umana. Mi riferisco alla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli.

Con un’attenzione marcata sull’aspetto culturale delle radici della violenza di genere, nel solco tracciato dalla Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, con l’associazione Amore e Psiche di cui faccio parte proponiamo di intervenire nelle scuole e nei luoghi di aggregazione giovanile per favorire il rispetto tra i sessi, l’effettiva parità e una visione laica della sessualità umana, utilizzando anche le opportunità della recente Legge regionale 4/2014».

Un tema questo affrontato in un recente incontro dal titolo “Quando l’amore. non è amore. Quale cultura contro la violenza” (visibile sul sito di Mawivideo) organizzato dall’associazione all’Università Roma Tre per promuovere un confronto fra le diverse esperienze di professionisti e associazioni attivi nel settore a Roma e nel Lazio.

«Oltre alla prevenzione primaria tramite un’informazione corretta su tutto ciò che riguarda la sessualità e i rapporti con l'”altro”, è importante fornire ai ragazzi gli strumenti giusti per comprendere che un loro eventuale malessere in famiglia può essere causato dalla malattia mentale del genitore. Tra l’altro si tratta di un approccio che permette di sradicare l’idea che queste malattie siano genetiche».

Spesso i giovani “riconoscono” il profondo malessere dei genitori e si convincono di essere come loro, cioè incurabili. «Dietro a questi casi si scopre sempre che ci sono situazioni familiari compromesse da anni. Una presenza capillare di presìdi nelle scuole in grado di cogliere determinati segnali sarebbe importantissima. È qui che si possono intercettare tanti atteggiamenti a rischio.

La difficoltà maggiore consiste nell’intervenire dove il comportamento si mantiene nei limiti. Tuttavia anche quando si colgono i sintomi precoci di una patologia in alcuni adolescenti, ad esempio attraverso gravi episodi di bullismo, è comunque possibile intraprendere un efficace percorso di cura per la guarigione. Evitando così che anni dopo la prepotenza nei confronti dei compagni sfoci nella violenza e/o nell’omicidio di una donna».

———————————————————-

Mattarella non fa onore alle donne

Maria Mantello
www.cronachelaiche.it

Palazzo del Quirinale, 7 marzo, cerimonia per la Giornata internazionale della donna. Ad inaugurarla il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Si rivolge a tutte le donne d’Italia: «siete milioni di professioniste, di docenti, di casalinghe, di lavoratrici dipendenti, di imprenditrici, di disoccupate, di madri, di nonne e di ragazze. Donne consapevoli, che badano all’essenziale e a ciò che è bello, spesso alla difficile ricerca di una compatibilità tra il lavoro e la famiglia».

Sono fastidita per questo esordio del discorso presidenziale che, nella sua combinazione, pone l’essere madre e nonna alla stregua di una condizione professionale. E mi chiedo: se si fosse trattato di uomini: a professionisti impiegati, ecc. avrebbe aggiunto i “mestieri” di padri e nonni?

Archetipi maschilisti piovono dal Colle

Comincio a sospettare che il presidente della repubblica Mattarella si porti dietro il vizio di quell’archetipo di donna che malignamente alligna nell’immaginario collettivo di un patriarcato mai morto, e che dà per scontato che i doveri familiari dell’accudire siano una roba da donne.

E quindi alle donne – solo alle donne – la fatica di essere le equilibriste tra “naturale” lavoro in casa e fuori.

In questa mentalità sembrerebbe restare invischiato, ingabbiato Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, garante della Costituzione e dell’impegno istituzionale alla rimozione degli ostacoli per l’affermazione di dignità e pari opportunità di ogni cittadino.

Seguo con attenzione il suo discorso, cerco disperatamente smentita al mio sospetto. Ma ecco che resto basita di fronte al successivo passaggio: «A voi, una società non bene organizzata affida il compito, delicato e fondamentale, di provvedere in maniera prevalente all’educazione dei figli e alla cura degli anziani e dei portatori di invalidità. Lo fate silenziosamente, a volte faticosamente».

Altro che silente, a me viene da urlare: come può allignare nel discorso del presidente non solo la pregiudiziale di una sacralizzata e ancestrale divisione sessista dei ruoli? E per giunta con sovrappiù di esaltazione martirologica della donna che accetta e sopporta in rassegnato silenzio il peso di un servaggio accreditato come socialmente strutturale?

Spero in qualche parola che aggiusti il tiro, che il presidente magari dica che si tratta di una mentalità che resiste, ma che è da rigettare e contrastare con tutta la forza e l’impegno istituzionale che si impone.

Eterno femminino e conservatorismo sociale

Niente! Afasia totale sulla tragedia di una organizzazione sociale che si regge sugli stereotipi di gerarchie sessiste il cui peso schiaccia le donne.

E resta ancor più pesante quel richiamo alla positività della pazienza (qualità ontologica della femmina?). Non viene infatti condannata con fermezza l’ingiustizia per la discriminazione di genere su cui la società si erge e regge. Anzi, in giochi linguistici di buonismo (matrice DC?) il presidente la definisce «una società non bene organizzata». Tuttavia in questa disorganizzazione un pilastro certo questa società lo ha: affidare alle donne il compito dell’accudimento. Incombenza nobile «compito, delicato e fondamentale». Ne dobbiamo essere onorate. Accidenti! Così lo sfruttamento viene trasformato in privilegio che “la favorita consenziente” esercita “naturalmente”!

Insomma, nate femmine, questo è il vostro ruolo «prevalente» che solo voi donne sapete svolgere… E la società ve lo riconosce (dialettica servo – padrone senza evoluzione?)

Servaggio strutturale e un bel “grazie” di benservito

E così la piramide sociale della gerarchia di genere si reitera e la cinghia di trasmissione sono le stesse donne che ne reggono il peso familiare e sociale.

Insomma, care donne, madri nonne spose sorelle… state allegre nella vostra “servitù consenziente”. Che volete farci, siete nate femmine. Così va il mondo, la società ve lo chiede (impone?). Una società, non ancora ben organizzata, ma si perfezionerà!

Manca solo, che nel clima di retorica dell’anniversario della Grande guerra ci si rifili a suggello un bel “Ve lo chiede la Patria!”.

E non manca lo zuccherino di benservito: Grazie, grazie, grazie ragazze per quel che fate (dovete?): «Dovremmo ricordarlo costantemente – aggiunge infatti il presidente – E non dovremmo smettere mai di ringraziarvi».

Raffinata (crudele?) gentilezza! La società gerarchicamente sessista che senza il sacrificio delle silenti crollerebbe vi ringrazia!

Non ci stiamo

Altro che silenzio, altro che sacrificio, le donne italiane, sono molto più avanti.

E urlano le loro rivendicazioni e lottano nella quotidianità per affermarle. Da tempo hanno preso coscienza dei loro diritti e non si fanno certo incantare dalla melensa stereotipia sessista inzuppata nell’acquasantiera del fiat mariano che piove adesso anche dal Colle più alto.

Le donne italiane non sono lo scodella – spadella o il cura – consola che finanche dalle pubblicità sta scomparendo.

Le donne italiane – ricordiamolo – si sono svegliate da tempo e se certi privilegiati che credono di fare la rivoluzione solo perché usano l’utilitaria, facessero una vita da cittadino/cittadina normale (prendendo mezzi pubblici, facendo la fila per le bollette, la spesa, ecc. forse si sarebbero accorti che oltre le mura delle loro ovattate dimore, la rivoluzione femminista è penetrata più a fondo di quanto non si voglia far credere. E i suoi germogli continuano a fiorire nella società reale, tra le giovani generazioni proprio perché ci sono sempre più donne che ogni giorno con coraggio e serena lucidità continuano a la pacifica lotta per l’emancipazione, l’autonomia, l’autodeterminazione!

E queste donne sono talmente generose che la pretendono per ciascuno e per tutti.

Perché uomini e donne camminino davvero insieme. In pace e serenità nel riconoscimento reciproco del fondamentale diritto umano alla dignità.

Dignità, parola chiave della nostra Costituzione, perché sul suo rispetto si misura la reale appartenenza alla cittadinanza come individui liberi e uguali.