Non siamo tutti Charlie
Fabio Chiusi
www.wired.it
No, non siamo tutti Charlie, come scrive perfettamente Cass Mudde su OpenDemocracy: prima di tutto perché non ne condividiamo l’ostinazione. Se ciascuna delle persone che ha manifestato in queste ore così vivo interesse per la libertà di espressione e di satira lo avesse fatto nei 364 rimanenti giorni dell’anno, probabilmente oggi non saremmo costretti a fronteggiare una vera e propria emergenza democratica, cui nessuna conversazione in rete, nessuna campagna di solidarietà via hashtag e nessuna condivisione delle vignette di Charlie Hebdo potrà mai sopperire. Perché è bene ricordarlo: è più semplice colpire bersagli isolati che un popolo intero che difende il suo diritto di sfottere Dio, se gli aggrada.
Dire #JeSuisCharlie è semplice. Invece opporsi ai pregiudizi più forti e giovani della nostra contemporaneità, molti dei quali riguardano l’Islam, costa fatica, a volte perfino punizione sociale e professionale. Stéphane Charbonnier si è messo in gioco, dicendo giustamente che non si possono incolpare delle vignette per l’operato di Al Qaeda; che è meglio rischiare la vita che autocensurarsi. E che non possiamo abbandonarci alla paura, perché cedere al terrore significa perdere la democrazia. Che straordinario rispetto dell’integrità morale del proprio mestiere e della propria umanità. Un rispetto che da solo costituisce la più grande sconfitta dei terroristi, che non possono capire e apprezzare; soprattutto, che non possono inserire nella propria visione del mondo, chiusa nei dogmi e nell’assolutismo.
E invece troppe volte in queste ore ho dovuto leggere le domande, i distinguo di chi ha pensato che tutto sommato quelle vignette erano troppo “forti”, eccessive. Troppo libere, in una parola, per chi vuole che le conversazioni – in rete e fuori – debbano essere “civili” o soffocare; e pace se ciò significa storicamente allinearsi agli interessi del potere costituito, come ricorda sempre Mudde nel passaggio più riuscito del suo già perfettamente riuscito argomentare. Rinunciare a una parte lecita dell’esprimersi. Farlo senza motivo se non per conformismo e, al fondo, servilismo. Quindi no, la satira non accetta definizioni: è “stupida e cattiva“, e si arroga il diritto di esserlo. E noi, accettandolo, abbiamo accettato di vivere in un mondo più libero.
Ora ci diciamo tutti difensori della libertà di espressione. Ma non lo siamo, non lo siete. Gli indicatori sugli omicidi di giornalisti nel mondo e sulla libertà in rete dicono da anni che il problema esiste e aumenta, e nessuno si è stracciato le vesti. Anzi, i governi – pur colti in mille scandali e omissioni e incertezze – continuano a reprimere, legiferare, chiedere “civiltà” con la scusa di una sicurezza che, si è visto, non sono assolutamente in grado di mantenere. E l’opinione pubblica guarda perlopiù con noia alle notizie sull’argomento.
Ma se le tecnologie non sono da sole le risposte, come stanno scoprendo gli Stati Uniti anche con le bodycam, spesso possono facilmente sembrarlo. Così non mi stupirebbe se da domani si cominciasse a parlare di più, non meno, sorveglianza e controllo; per garantire la nostra libertà, certo. La scusa, in fondo, è sempre la stessa.
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Mi dispiace, ma io non sono Charlie
Karim Metref
http://karim-metref.over-blog.org
In questo momento l’uccisione delle undici persone e in modo particolare dei giornalisti/artisti nella sede del periodico satirico Charlie Hebdo, sta prendendo le pieghe di un nuovo, mini 11 settembre. E fioccano ovunque messaggi di sgomento, di cordoglio, di solidarietà, di condanna… Anche io sono sgomento, lo sono per ogni persona che muore nel modo in cui sono morti questi ultimi. Sono solidale e feroce sostenitore della libertà di espressione. Sono triste perché alcuni dei vignettisti di Charlie Hebdo (Wolinski in modo particolare, che ho anche conosciuto ad Algeri un secolo fa) mi appassionavano e hanno accompagnato con loro feroce e dissacrante satira tutta la mia adolescenza e i miei desideri di allora (ma anche di oggi) di mandare tutto il mondo a farsi f…
Ma mi dispiace, io non scriverò che sono Charlie Hebdo. Non metterò una bandiera nera sul mio profilo Facebook e non posterò nessun disegno di Charb e nemmeno di Wolinski che mi piace tanto… E se avete tempo di leggere il mio lungo ragionamento vi spiego il perché.
Charlie Hebdo nasce nel 1992 ma la squadra che lo fonda viene da una lunga storia di giornali di satira libertaria. Quello che si può considerare come l’antenato di Charlie è “Hara-kiri” dove lavoravano già vari membri dell’attuale redazione. Hara-kiri se la prendeva con i potenti, con De Gaulle, con l’esercito, con la chiesa e fu varie volte chiuso e riaperto sotto varie forme e titoli.
Era divertente, dissacrante, feroce qualche volta. Ma sapeva di quella aria di libertà dell’epoca. Oggi il Charlie Hebdo è cambiato. Lo si compra ancora, qualche volta, perché ha un nome. Il suo pubblico non è più l’operaio o lo studente senza una lira, ma la “gauche-caviar” della Parigi bene.
Negli ultimi anni poi ha preso una linea editoriale apertamente islamofoba. Non è il fatto di prendere ogni tanto in giro una religione. Quello l’ha sempre fatto anche con la chiesa cattolica. Il problema non è qui. Se prendesse in giro i musulmani, l’islam, il profeta, dio o qualsiasi altro persona o simbolo sacro non ci vedrei personalmente niente di sbagliato. Ma le numerose campagne di Charlie Hebdo contro i musulmani, l’islam, i simboli sacri di questa religione sapevano di accanimento. Faceva parte di una certa cultura molto diffusa negli ambienti che una volta erano stati di sinistra e che oggi sono solo sinistramente cinici. Ambienti che hanno definitivamente deciso di stare dalla parte dei forti e che non hanno più nessuna bataglia vera da portare avanti. Una ex sinistra che si è arresa mani e piedi legati alla logica di mercato, al dominio delle banche e ultimamente anche alla retorica dello scontro di civiltà. Una ex sinistra che considera che l’integralismo islamico sia l’unico e ultimo pericolo che minaccia l’umanità. Una ex sinistra che non ha più sogni né progetti del resto e che si accontenta di guardare il mondo dall’alto della sua presunta superiorità culturale.
Ma non è per questo che non metterò nessun segno di cordoglio per i morti di Charlie Hebdo. Non riconosco a nessuno il diritto di ammazzare nessuno in nome di niente e ancor meno in nome di una qualunque discordanza di opinioni. Le mie ragioni sono altre.
L’attacco alla redazione del giornale satirico viene in un momento particolare. Ancora un anno fa non si parlava per niente di integralismo. Era quasi scomparso dalle prime pagine. E se si vedevano immagini di barbuti in armi nelle strade di Tripoli o di Aleppo venivano chiamati “Rivoluzionari”. E si cantavano le lodi di questi bravi ragazzi. Si legge ovunque che i bravi ragazzi ricevono aiuti da tutte le parti. Si legge un po’ meno che in Siria i ragazzi prendono il controllo di varie stazioni di estrazione di petrolio e che la Turchia, uno stato membro della Nato glielo compra tranquillamente. Si legge ancora meno che oltre agli aiuti e alle migliaia di giovani provenienti da tutto il mondo in aiuto dei bravi ragazzi ci sono anche consiglieri militari che insegnano ai bravi ragazzi a combattere…
Poi all’improvviso tutto cambia. Ritornano a chiamarlo terrorismo, le uccisioni di membri delle minoranze finora taciute vengono a gala. I servizi segreti di tutti i paesi della nato (e i loro numerosi alleati) fanno tutti finta di cadere dalle nuvole scoprendo che migliaia di giovani sono partiti dalle loro città per dare man forte ai “rivoluzionari”. Non sapevano nulla, pare. E noi a scandalizzarci con loro.
Sono ormai decenni che questo giochetto va avanti. Le reti che oggi si chiamano Al Qaeda e poi Isis, Boko Haram e compagnia bella sono stati messi in sella in piena guerra fredda in chiave anti-sovietica. I paesi del Golfo persico in collaborazione con la Nato hanno fatto un montaggio finanziario, propagandistico e organizzativo per far arrivare combattenti da ogni dove. Al Qaeda è l’alleato principale della Nato e ovviamente dei paesi del golfo fino agli anni novanta. Poi poco a poco scivola verso l’area di illegalità.
Intanto la guerra fredda stava finendo e Samuel P. Huntington preannunciava un nuovo conflitto e lo battezzava “scontro di civiltà”.
Nel frattempo arriva la guerra d’Algeria. Centinaia di giovani rientrati dall’Afghanistan contribuiscono a formare i primi nuclei dei Gruppi Islamici Armati. Gruppi che, insieme all’esercito algerino (che anche lui non ha scherzato) hanno fatto passare al paese due decenni infernali. Nel frattempo nelle moschee londinesi soprattutto ma anche francesi, italiane tedesche, individui poco raccomandabili predicavano la lotta armata in Algeria e raccoglievano soldi e facevano fare affari d’oro all’industria delle armi. L’Algeria stava uscendo da una era socialista e aveva bisogno di una piccola spintarella per privatizzare le sue enormi risorse energetiche. E come per miracolo ad ogni concessione firmata con una multinazionale veniva chiusa una rete di sostegno all’integralismo armato. Poi quando le multinazionali presero il controllo del petrolio algerino, le reti diventarono terroristiche e furono smantellate ovunque. O almeno così ci disse la stampa libera del mondo libero.
Fatto sta che nel 2001 ci fu l’11 settembre e ci fu una vera e propria isteria. Chi non aveva terroristi islamici da arrestare se li inventava. Tutti volevano avere la loro minaccia il loro mini attacco. Non fu mai chiaro né chi né perché né come furono eseguiti gli attentati di quel giorno ma cadevano a fagiolo per giustificare le nuove politiche di controllo militare dell’area del medio oriente volute dai neo-cons americani. Sono ormai 14 anni che va avanti la loro war on terror e non ha prodotto che sempre più terror e sempre nuove wars.
Ma poi i Neo-cons se ne sono andati e arriva Obama, che dice di voler ritirare le truppe e se ne va al Cairo e fa un discorso lungo e forte in cui dice che tende la sua mano per aiutare alla creazione di un “Nuovo medioriente”. Poco dopo quel discorso le piazze arabe cominciano a muoversi. Il mondo scopre che nel mondo arabo non ci sono solo militari baffuti e ribelli barbuti. In mezzo ci sono popoli colorati e variegati che aspirano, tutto sommato, alle stesse cose di tutti i popoli: dignità, libertà, benessere… Gli islamisti sono del tutto assenti dalle piazze o quasi. Comunque non hanno l’iniziativa. Seguono qualche volta. Qualche volta si ritirano. Ma il “La” lo danno giovani laici, colti e amanti della libertà e dei diritti umani.
Ma questo non soddisfa tutti, sembra. Già nel maggio del 2011, i servizi segreti russi (generalmente ben informati per quel che mi risulta) davano l’allarme sull’imminente ricostruzione di reti integraliste internazionali sotto il commando dello specialista saudita in materia: il principe Bandar Assudairi Ben Saud, artefice di vari gruppi e varie guerriglie islamiste attraverso il mondo. L’obiettivo riportare l’islamismo politico alla testa delle rivolte. L’informazione fu ripresa soltanto dalla rete Voltaire, ufficialmente classificata nel rango dei complottisti e tutti fecero finta di niente.
Oggi tutto quello che era previsto in quell’avvertimento si è avverato e anche di più.
In Libia un comandante “ex” Al Qaeda alla testa di un esercito armato dal Qatar e l’Arabia Saudita e addestrato dalla CIA prende la città di tripoli che le milizie tribali non riuscivano a conquistare e il paese diventa una specie di territorio liberato per i gruppi armati di ogni tipo. In Yemen l’Arabia Saudita rimette il vecchio regime in piedi ma stranamente gruppi armati spuntano ovunque come funghi. In Egitto e Tunisia i fratelli musulmani sono portati al potere su un tappeto di petrodollari. In Siria non ne parliamo… Il resto della storia lo sappiamo.
Nel frattempo in occidente le moschee (non tutte per fortuna ma quelle più estremiste e che sarebbero in teoria anche quelle più monitorate dai servizi) hanno ripreso a diventare luoghi di raccolta fondi e reclutamento. Domani forse se qualche giudice indaga troppo da vicino sul perché, potrà esserci più di un nuovo caso Abu Omar. E poi adesso, da meno di un anno, tutti a gridare al lupo. Ma a che gioco giochiamo. Qualcuno ce lo può spiegare?
Sono ormai 30 anni che i servizi di tutto il mondo giocano come si gioca con il fuoco con i gruppi integralisti. Sono controllati, sono infiltrati, sono gonfiati quando servono e sgonfiati quando non servono. Del resto è quello che si è anche fatto e che si continua a fare con vari gruppi estremisti di destra e di sinistra dalla seconda guerra in qua. Chi si ricorda della sigla “Stai Behind” e dei finti attentati (ma con veri morti) attraverso tutta Europa sa di che sto parlando.
Oggi c’è bisogno di far salire la posta in gioco. La crisi chiede guerre. Le nuove guerre per il controllo del Medio Oriente hanno bisogno di legittimità. La crisi ha sputtanato tutta la classe politica europea e solo la salita degli estremismi di destra può spingere la gente a rivotarli di nuovo. Non ti piace Renzi ma siccome c’è il rischio Salvini (chi sa come mai è sempre in Tv quello?) allora ci vai e lo voti. Del resto anche le reti dell’integralismo armato hanno bisogno di far salire il livello di tensione. Chi vive di violenza e per la violenza ne ha bisogno come dell’ossigeno. Stanno nella stessa logica anche loro.
E allora adesso, commesso il fattaccio, tutti i fascistoidi, che avrebbero volentieri fatto esplodere la testa al gruppo Charlie Hebdo per le vecchie posizioni antifasciste o per le loro posizioni sull’omosessualità e altri temi del genere… Tutti hanno già pubblicato sulle loro bacheche messaggi di cordoglio e tutti piangono lacrime di coccodrillo su questa Europa, che loro vorrebbero libera, ma che è minacciata dai musulmani, dagli africani, dagli asiatici, portatori di valori antidemocratici!!!!!! E sui set televisivi hanno già cominciato a raccogliere i frutti di questa vera e propria mana politica servita loro su un piatto… di piombo.
É per non fare parte di questo gigantesco teatrino delle emozioni su ordinazione, degli sgomenti selettivi, della solidarietà di facciata, delle amnesie collettive e dell’ipocrisia generalizzata che non metterò bandiera nera, né scriverò “Io son Charlie” Io non sono Charlie. Lo sono stato da piccolo, quando anche Charlie era Charlie. Oggi non lo siamo più né lui né io.
Oggi Charlie non fa più ridere nessuno e a me mi viene voglia di piangere, ma da solo, ma in disparte. Mi vien da piangere, ma non solo per Wolinski o per i suoi colleghi. Mi vien da piangere per tutti i morti di questa sordida storia. Mi vien da piangere per le centinaia di migliaia di morti durante la guerra sporca in Algeria, per gli amici che vi ho perso. Mi vien da piangere per le vittime del world Trade Center, per il mezzo milione di Iracheni, le centinaia di migliaia di afghani, pachistani, per le decine di migliaia di libici, di yemeniti, di palestinesi, per le centinaia di migliaia di persone uccise in Siria, il tutto in una tragica farsa chiamata Scontro di civiltà.
(inviato da Peppino Coscione)
Norman Finkelstein e Mustafa Caglayan
http://www.znetitaly.org
Nella Germania nazista c’era un settimanale antisemita chiamato Der Stuermer.
Diretto da Julius Streicher era notorio per essere uno dei promotori più virulenti della persecuzione degli ebrei negli anni ’30.
Ciò che tutti ricordano del Der Stuermer sono le sue caricature morbose degli ebrei, le persone che stavano subendo una diffusa discriminazione e persecuzione in quel periodo.
Le sue rappresentazioni sottoscrivevano tutti gli stereotipi comuni sugli ebrei: un naso adunco, lussuria, avidità.
“Diciamo che … in mezzo a tutte queste morti e distruzioni due giovani ebrei avessero fatto irruzione nella sede della redazione del Der Stuermer e ne avessero ucciso i dipendenti per averli umiliati, disonorati, mortificati, insultati”, ha chiesto Norman Finkelstein, docente di scienze politiche e autore di numerosi libri, tra cui “L’industria dell’Olocausto” e “Metodo e follia”.
“Come reagirei a ciò?”, ha detto Finkelstein, che è figlio di sopravvissuti all’Olocausto.
Finkelstein ha formulato un’analogia tra un attacco ipotetico al giornale tedesco e l’attacco mortale del 7 gennaio alla direzione parigina della rivista satirica Charlie Hebdo, che ha lasciato dodici morti, tra cui il suo direttore e vignettista di spicco. Il settimanale è noto per stampare materiale controverso, comprese vignette spregiative sul profeta Maometto nel 2006 e nel 2012.
L’attacco ha suscitato una massiccia protesta globale, con milioni in Francia e in tutto il mondo scesi in strada a sostegno della libertà di stampa al grido di “Je suis Charlie”, o “Io sono Charlie”.
Quella prodotta dalle caricature del profeta Maometto su Charlie Hebdo “non era satira”, e quelle che provocavano non erano “idee”, ha affermato Finkelstein.
La satira è quando uno la dirige o contro sé stesso, inducendo la propria gente a pensare due volte a ciò che sta facendo o dicendo, o la dirige a chi ha potere e privilegi, ha affermato.
“Ma quando qualcuno è a terra, disperato, indigente, quando lo si irride, quando si irride un senzatetto, quella non è satira”, ha detto Finkelstein.
“Quello è, vi dico io il termine, sadismo. C’è una grande differenza tra satira e sadismo. Charlie Hebdo è sadismo. Non è satira.”
I “disperati e disprezzati” di oggi sono i mussulmani, ha detto, considerando il numero dei paesi mussulmani colpiti da morti e distruzioni, come nel caso di Siria, Iraq, Gaza, Pakistan, Afghanistan e Yemen.
“Dunque due giovani angosciati e disperati agiscono a causa della loro angoscia e disperazione contro questa pornografia politica non diversa da quella del Der Stuermer che in mezzo a tutte queste morti e distruzioni decide che sia in qualche modo nobile degradare, umiliare e insultare le persone. Mi spiace, forse è molto politicamente scorretto. Non provo simpatia [per il personale di Charlie Hebdo]. Dovevano essere uccisi? Naturalmente no. Ma naturalmente Streicher non avrebbe dovuto essere impiccato. Non sento dire questo da molti”, ha affermato Finkelstein.
Streicher fu tra gli imputati al processo di Norimberga, dopo la seconda guerra mondiale. Fu impiccato per le sue vignette.
Finkelstein ha detto che alcuni potrebbero sostenere di avere il diritto di irridere anche i disperati e indigenti, e che probabilmente hanno questo diritto. “Ma si ha anche il diritto di dire ‘Non voglio inserire ciò nella mia rivista …”. Quando lo si inserisce, se ne assume la responsabilità”.
Finkelstein ha paragonato le controverse caricature di Charlie Hebdo alla dottrina dei ‘termini provocatori’ [fighting words], una categoria del discorso considerata reato dalla giurisprudenza statunitense.
La dottrina si riferisce a certe espressioni che probabilmente indurrebbero la persona cui sono dirette a commettere un atto violento. Sono una categoria del discorso non protetta dal Primo Emendamento.
“Non è consentito usare termini provocatori, perché sono l’equivalente di uno schiaffo sul viso e causano guai”, ha detto Finkelstein.
“Dunque le caricature di Charlie Hebdo sono l’equivalente di termini provocatori? Loro la chiamano satira. Non è satira. Sono solo epiteti, non c’è nulla di divertente in esse. Se si considerano divertenti è divertente anche rappresentare gli ebrei con i labbroni e il naso adunco”.
Finkelstein ha additato le contraddizioni della percezione del mondo occidentale della libertà di stampa, proponendo l’esempio della rivista pornografica Hustler, al cui editore, Larry Flynt, fu sparato, lasciandolo paralizzato, nel 1978 da un assassino seriale suprematista bianco per aver pubblicato una vignetta che rappresentava sesso inter-razziale.
“Non ricordo che tutti abbiano proclamato “Siamo Larry Flynt” oppure “Siamo Hustler”, ha detto. “Doveva essere aggredito? Naturalmente no. Ma nessuno ha improvvisamente trasformato ciò in un principio politico di uno schieramento o dell’altro”.
L’abbraccio dell’occidente alle caricature di Charlie Hebdo è dovuto al fatto che i disegni sono diretti contro, e ridicolizzano, i mussulmani, ha affermato.
Secondo Finkelstein la caratterizzazione dei mussulmani da parte dei francesi come barbari è ipocrita, considerando le uccisioni di migliaia di persone durante l’occupazione francese dell’Algeria e la reazione del pubblico francese alla guerra algerina dal 1954 al 1962.
La prima dimostrazione di massa contro la guerra a Parigi “non si ebbe che nel 1960, due anni prima che la guerra finisse”, ha detto. “Tutti appoggiavano la guerra francese di sterminio in Algeria”.
Ha detto che l’appartamento del filosofo francese Jean Paul Sartre fu oggetto due volte di attentati dinamitardi nel 1961 e 1962, dopo che si era espresso a tutto campo contro la guerra; l’appartamento era la sede degli uffici della sua rivista, Temps Moderns.
Finkelstein, che è stato descritto come un “radicale statunitense”, ha detto che la presunzione dell’occidente nei confronti dell’abbigliamento mussulmano denuncia un’enorme contraddizione di fronte all’atteggiamento dell’occidente nei confronti dei nativi in terre da esso occupate durante il colonialismo.
“Quando gli europei arrivarono in America del Nord ciò che dissero dei nativi americani fu che erano tanto barbari perché se ne andavano in giro nudi. Le donne europee indossavano tre strati di vestiario. Poi vennero in America del Nord e decisero che i nativi americani erano arretrati perché andavano tutti in giro nudi. E oggi noi andiamo in giro nudi e diciamo che i mussulmani sono arretrati perché indossano tanti capi di vestiario”, ha detto.
“Si può immaginare niente di più barbaro? Mettere al bando le donne che indossano il velo?” ha chiesto, riferendosi al divieto del velo, nel 2004, nei servizi pubblici francesi.
L’opera di Finkelstein, che accusa gli ebrei di sfruttare la memoria dell’olocausto a fini politici e critica Israele per l’oppressione dei palestinesi, lo ha reso una figura controversa anche nella comunità ebraica.
Gli è stata negata una cattedra da docente alla DePaul University nel 2007 dopo una faida, fortemente pubblicizzata, con il collega accademico Alan Dershowitz, un ardente sostenitore di Israele. Dershovitz risulterebbe aver esercitato pressioni sull’amministrazione della DePaul, un’università cattolica romana, perché gli fosse negata la cattedra.
Finkelstein, che attualmente insegna all’università Sakarya in Turchia, ha detto che la decisione è stata basata di “motivi chiaramente politici”.