Per una profonda teologia della donna
Osservatore Romano, dicembre 2014
LUCETTA SCARAFFIA Nella prima delle nostre pagine teologiche Pierangelo Sequeri ha usato un’espressione molto significativa, “snodo epocale”, per significare che, in questo momento, la società impone alla Chiesa di ripensarsi totalmente, e di riflettere su se stessa ricordandosi che le donne esistono, che non solo sono numericamente la maggior parte dei religiosi e dei fedeli, ma sono parte costitutiva e specifica della tradizione cristiana fin dalle origini. In proposito la teologa svizzera Barbara Hallensleben ha scritto: «La scarsa attenzione per il significato soteriologico dello Spirito sembra andare di pari passo con la mancanza di una teologia della donna». E questo riecheggia parole scritte molti anni fa da Yves Congar: «Una certa dimenticanza dello Spirito Santo e della pneumatologia hanno provocato l’instaurarsi di un tipo patriarcale e una prevalenza del maschile». Emerge con molta chiarezza che, a questo punto, è indispensabile una riflessione più profonda. Anche perché, scrive sempre Hallensleben, «la differenza fra uomo e donna ha a che fare con l’immagine che Dio ci rivela di se stesso». La parità della donna è iscritta nei vangeli, e il cristianesimo ha offerto questo seme allo sviluppo storico delle società cristiane. Adesso la società restituisce alla Chiesa quello che aveva ricevuto dal cristianesimo, ponendole profondi interrogativi. Nei testi che abbiamo pubblicato sono state individuate due direzioni di ricerca: una, che molti di voi hanno percorso, è quella di riflettere sia sulle donne importanti che ci sono state nella storia della Chiesa sia, più in generale, sul rapporto fra Gesù e le donne. L’altra è il problema della complementarità. Voi ben sapete che l’unica elaborazione teorica che c’è stata nella Chiesa sul problema delle donne, l’unica risposta alla sfida che veniva dalla società laica, è stata la Mulieris dignitatem. Testo molto importante, un grande riconoscimento alle donne e un grande stimolo intellettuale per pensare un femminismo cristiano. Però il tema della complementarità della Mulieris dignitatem ha lasciato due questioni aperte: una, che la Chiesa si è comportata come se non fosse mai stata scritta, cioè non ne è seguito nessun riconoscimento concreto. E non stiamo parlando di potere, noi stiamo parlando di un’altra cosa: di ascolto. Il problema fondamentale è che le donne non vengono ascoltate nelle riunioni ecclesiali in cui si parla della vita della Chiesa, del suo futuro, dei suoi problemi. L’altra questione che la Mulieris dignitatem ha lasciato aperta è che, se uno parla di complementarità, non si capisce quale dovrebbe essere il compito maschile. È una domanda che pone Sara Butler: «Qual è il genio maschile?». La complementarità rimane un’ipotesi affascinante e importante che, oggi, vediamo riscoperta anche in campo femminista: per esempio Claude Habib, femminista francese studiosa di letteratura, ha scritto che la molla della complementarità non è l’oppressione ma il bene comune. Apriamo allora la discussione, ricordando che il nostro obiettivo è quello di creare delle relazioni redente tra i sessi.
MAURIZIO GRONCHI Dal punto di vista teologico ho riscontrato, nelle teologie femminili, un’impostazione ancora fortemente ideologica, rivendicazionista, molto caratterizzata dalla teologia della liberazione, intesa come liberazione delle donne da tutti i sistemi patriarcali. Insomma un discorso antico. La cosa invece che mi ha fatto riflettere è stata la pubblicazione del volume Papa Francesco e le donne di Giulia Galeotti e Lucetta Scaraffia (2014), perché da lì ho visto la distanza da un approccio ideologico, l’assunzione di una prospettiva storica molto equilibrata, appunto non ideologica. Credo si tratti di riprendere lo sguardo di Gesù sugli uomini e le donne, come si vede dai vangeli, per attingere al criterio da cui lasciarsi guidare verso una conversione relazionale. Il Papa nella Evangelii gaudium parla di tutte le conversioni possibili e qui c’è la possibilità di una conversione relazionale, io credo. Il libro di Damiano Marzotto Pietro e Maddalena. Il Vangelo corre a due voci (2010) mi ha fatto pensare: la sua tesi centrale riconosce questa compartecipazione originale alla missione di Gesù, si assiste a una collaborazione di carattere asimmetrico in cui i due attori, scrive, offrono «un apporto differenziato e complementare». Ecco, credo che questa sia una buona idea: reperita sui testi. Quindi il primo approccio è una lettura dei testi che non sia telecomandata. Un’altra affermazione era questa: «Il punto non è il sacerdozio, il punto è tutto il resto» scrive Giulia Galeotti, e tutto il resto è la relazione. Mi ha colpito, nel sinodo, il messaggio finale, dove si diceva: l’incontro è un dono, una grazia che si esprime, quando i due volti sono uno di fronte all’altro. Ora questa mi sembra essere la sfida odierna: non riuscire più a guardarsi in faccia, stare l’uno di fronte all’altro. Il mio è un discorso fenomenologico, il primo punto è questione di sguardi (il secondo punto, questione di relazione; il terzo punto, questione di prospettive). Allora, questione di sguardi, non riuscire più a guardarsi in faccia: sguardi laterali, obliqui, inclinati, contrassegnati da diffidenza, dalla paura, dal conflitto, questo è un orizzonte antropologico più ampio, che poi nella Chiesa si caratterizza come paura della differenza, ansia per il riconoscimento di sé, e sospingono verso un diffuso e crescente narcisismo. Mentre abbiamo bisogno di essere riconosciuti, al tempo stesso proviamo diffidenza verso chi ci guarda e ci riconosce. Secondo punto: questione di relazione. Credo che la relazione si giochi tra potere ed empatia. La prima istanza in gioco nelle relazioni tra uomo e donna è quella del potere, inteso come possibilità di essere riconosciuti e accettati per ciò che si è e non si riesce comunque a essere se non grazie all’altro, all’altra, al suo permesso, alla sua accoglienza, al suo rifiuto. Questa esigenza di riconoscimento, questo è il potere. Una via praticabile per la maturazione della relazione credo che sia quella dell’orientamento all’empatia. Empatia è il sentire con l’altro, non il sentire come l’altro. Questo è impossibile, assurdo, sentire come l’altro: immedesimarsi non è possibile. Sentire con l’altro, cosa che risulta nell’esperienza per esempio dell’amicizia, che succede a quella dimensione fusiva, embrionale, anche infantile che molto spesso si protrae, quel dover essere due, quel discorso della coppia. Il problema è rimanere se stessi accanto all’altro, ma lungi dal misurare le qualità in termini di competizione o rivalità. Questo è un dato: la difficoltà della relazione si gioca tra potere ed empatia.
SCARAFFIA Nella relazione fra donne e sacerdoti, quale ruolo giocano potere ed empatia?
GRONCHI Vedo due criticità nel rapporto tra donne e ministri ordinati, intendendo religiosi, vescovi, cardinali e via dicendo. In primo luogo la mamma dei sacerdoti: questo è un punto critico perché esemplato sul modello mariano spiritualista. Generalmente ha un peso determinante, dal momento che sembra essere l’unica donna in grado di amarli in modo adeguato alla loro vocazione. Conseguentemente ogni altra donna incontrata nella vita deve assumere il profilo della madre o della sorella, più raramente della figlia, dato che la generazione è difficilmente comprensibile se non in senso simbolico. Questa radice relazionale, direi esclusiva, molto spesso genera diffidenza, timore di attentato alla propria integrità sessuale, se non vera e propria minaccia alla promessa di castità e all’impegno di celibato. Probabilmente nasce anche da qui la tendenza a configurare come servitù la funzione della donna incontrata dal sacerdote. Allora direi icasticamente: tenere vicino a sé la donna e, al tempo stesso, tenerla distante. Questa sembra essere la sfida che i ministri debbono sostenere con le donne, piuttosto che insieme a esse. Accanto a questa, una seconda criticità potrei definirla un’attitudine alla sostituzione, per la quale le funzioni tradizionalmente femminili — generare, nutrire, accogliere, proteggere, perdonare — vengono assunte liturgicamente dal sacerdote: battezzare, celebrare l’eucarestia, amministrare la riconciliazione, mentre esprimono il volto materno della Chiesa, talvolta rischiano però di configurare anche l’atteggiamento relazionale del prete verso le donne. Quindi è come se si producesse uno slittamento di quelle che sono funzioni materne della Chiesa — queste che ho detto — che diventano quasi un modello di relazione. Mi spiego meglio: vestire abiti lunghi, colorati, addobbare l’altare con fiori e candele, atteggiarsi con formalità e ostentata gentilezza, corrispondono a comportamenti femminilizzati, che relegano ancora di più le donne al margine della relazione. Direi allora che un’ipotesi interpretativa di questo fenomeno potrebbe consistere nel tentativo, da parte dei ministri ordinati, di trasformare la diffidenza in alleanza, al prezzo però della sostituzione. Lì non c’è misoginia, ma sostituzione: non ce l’abbiamo con le donne, ma semplicemente le sostituiamo. È una tesi un po’ forte, ma per la discussione credo che sia funzionale. Quindi si evita la conflittualità o la misoginia semplicemente assumendo l’imitazione dello stile, o almeno di quello che si considera tale.
SCARAFFIA Ma allora come orientare le relazioni uomo-donna, nello specifico tra ministri ordinati e donne? Come passare dalla paura dello spodestamento del ruolo all’empatia, che permette di stare accanto con serenità e favorisce l’integrazione?
GRONCHI Userei queste tre espressioni: guardare negli occhi, senza abbassarli, né per sedurre o sfidare; ascoltare le parole senza sapere già cosa l’altro o l’altra dirà; percepire i silenzi lungi dall’attribuirgli i significati previsti. Ecco alcune esperienze da intraprendere con coraggio, lottando con le proprie paure, con il timore dell’apertura alla relazione. Questo modo di stabilire contatto non si improvvisa, specie quando si viene — parlo sempre per i ministri ordinati — da una formazione che ha per obiettivo la guida pastorale. Questo cosa vuol dire? Che la responsabilità di condurre, insegnare, consigliare, quindi un’asimmetria pattuita, stabilita da protocollo, raramente si sa trasformare in capacità di ricevere, imparare, lasciare che qualcuno si prenda cura di noi. Capite che qui il modello è l’atteggiamento di Gesù con le donne nei vangeli. Probabilmente la difficoltà ad ascoltare le donne non riguarda solo le donne che parlano, perché i ministri ordinati rischiano di non ascoltare nemmeno gli uomini, i bambini, gli anziani, gli ammalati… Il problema non sta nell’identificazione del ruolo, peraltro malinteso, che spesso chiude il sacerdote nel perimetro della propria funzione di guida: il rischioso esito è quello di pretendere di condurre gli altri e poi non riuscire a guidare se stessi nell’equilibrio maturo delle relazioni. Condivido la vostra proposta di concedere maggiore spazio alle donne nella formazione, nei seminari; io direi non solo come docenti ma anche come counselor psicologiche, come riferimento della pastorale familiare, per esempio: che ne sanno i seminaristi della vita di famiglia, al di là della loro, modello da rifiutare o da replicare? Che un giovane in cammino verso il presbiterato abbia l’occasione di incontrare donne diverse dalla propria madre è un’opportunità di fatto equilibrante, un’esperienza di pluralità che libera da stereotipi interiorizzati. Apprendere la differenza senza paura, stabilire rapporti quotidiani senza doversi proteggere, acquisire fiducia in chi si prende cura della propria vocazione senza minacciarla, può costituire un’autentica sorgente di umanità, alla quale poi continuamente e serenamente attingere. Credo ci sia un criterio cristologico fondamentale in tutto questo discorso: in Avvento si legge l’antifona «piova dalle nubi il giusto, germogli dalla terra il salvatore». Il principio è questo: quello che Dio dona dall’alto, sorge dalla terra. Il figlio eterno di Dio è nato nel tempo da Maria.
ANTONELLA LUMINI Il momento che stiamo vivendo segna, senz’altro, un passaggio. Il punto è come viverlo. Sono d’accordo con padre Gianpaolo Salvini quando afferma che non si tratta di clericalizzare le donne, ma di permettere ai loro carismi di germinare. Le donne non valorizzano se stesse cercando di assumere il potere e le funzioni degli uomini, questo però non significa che nella Chiesa vengano escluse da posizioni autorevoli e decisionali. Come giustamente ha detto Scaraffia, il problema centrale è che le donne vengano ascoltate. L’emersione del femminile, all’interno della Chiesa, come del resto nella società, può avvenire solo se le donne conoscono di più se stesse, assumono coscienza della loro realtà profonda, riescono a fare udire la loro voce. Non si tratta quindi di limitarsi a chiedere più spazio, è necessario che il femminile emerga sullo scenario di questo mondo, che sorga in tutta la sua dignità e nobiltà. È vero che certe volte le donne sono portate ad assumere ruoli maschili, quelli vincenti, ma così tradiscono se stesse. La questione va quindi rovesciata. Le donne, quasi per un moto naturale, a un certo punto sono state chiamate a risvegliarsi, a divenire soggetto attivo di liberazione. Dopo secoli di subalternità, il mondo femminile ha cominciato a prendere consapevolezza delle proprie immense potenzialità provocando quello sbilanciamento che oggi stiamo attraversando. L’esplosione di un’aggressività maschile fuori controllo è sotto gli occhi di tutti. L’assetto precedente, una volta messo in discussione, non è più riproponibile, non si può tornare indietro. C’è un passaggio da fare che investe tutti. Le donne devono imparare a conoscersi, a portare alla luce gli aspetti essenziali del femminile, per rendersi conto di operare per una crescita umana. Anche per quanto riguarda la Chiesa non può essere diversamente e credo che solo in questo senso si può cercare di intendere la complementarità. Ho apprezzato molto quanto ha affermato Gronchi sull’importanza di trasformare le relazioni dei sacerdoti con le donne, per lo più poggiate sul potere o sulla paura, in relazioni fondate sull’empatia. La Mulieris dignitatem pone al centro dell’attenzione della cristianità il genio femminile, i cui tratti essenziali sono riconosciuti in Maria. Lo stesso Papa Francesco, affermando la necessità di una più profonda teologia della donna, si inserisce ampiamente in questa linea. Nella Chiesa però si pone in parallelo la necessità di dare configurazione al genio maschile, in particolare rispetto alla vicarietà di Cristo, come osserva Sequeri. Mi sembra che tocchi il cuore del problema Butler quando afferma che Gesù svuota ogni potere nell’obbedienza, sovvertendo così tutti gli schemi del dominio patriarcale, e porta alla luce un principio maschile positivo. In effetti Gesù non si contrappone al potere, lo oltrepassa completamente con la sua testimonianza di vita. Inoltre fa convergere insieme, nella sua umanità, principio maschile e tratti specifici del femminile quali tenerezza e misericordia. Complementarità, da un punto di vista evangelico, viene quindi a significare armoniosa integrazione dei due principi innanzitutto all’interno della persona umana e di conseguenza nella dinamica fra donne e uomini. Solo in questa prospettiva si può intravedere la possibilità di vivere relazioni redente, come ancora afferma Butler. Il problema va dunque inquadrato all’interno del piano universale di salvezza che richiede un costante lavoro spirituale. La spinta di trasformazione, senza dubbio, oggi si incarna nelle donne, ma esse devono prendere coscienza di essere parte trainante per l’intera umanità. L’emancipazione civile è avvenuta non a caso in occidente, in culture dalla matrice cristiana. Occorre leggere il fenomeno in un’ottica più ampia, spirituale. Vanno visti i segni dei tempi. La cristianità va percepita nel suo insieme, nei suoi aspetti laici e in quelli ecclesiastici, teologici. Il cristianesimo è forza dirompente di liberazione da tutti i punti di vista. Quello che è avvenuto nel mondo civile, laico, per quanto riguarda le donne, ora aspetta di riversare il suo dinamismo nella Chiesa. Più le donne saranno ascoltate, più intensa sarà l’azione di trasformazione. Più il genio femminile emergerà, più farà da specchio al genio maschile positivo, quello incarnato da Gesù. Mi ricollego poi a quanto affermato da Scaraffia, citando Hallensleben, sul valore soteriologico dello Spirito Santo: concordo pienamente sul fatto che la mancanza di una teologia della donna procede di pari passo con la scarsa attenzione verso lo Spirito Santo, verso il piano spirituale. Assumere Maria come modello incarnato del genio femminile richiede di guardare alla terza persona trinitaria, forse ancora in ombra, velata, altrimenti per le donne potrebbe prevalere un senso di scoraggiamento. Anche nel mondo laico sono in molte a rivolgersi verso la spiritualità, per esempio attraverso lo studio delle mistiche, a impegnarsi profondamente su se stesse per avvicinarsi a quei valori femminili essenziali, un po’ controcorrente, quali la ricettività, il silenzio, il nascondimento, necessari a custodire e proteggere una maternità che non è solo biologica, ma anche spirituale. La capacità di ascolto, l’intuizione, la contemplazione emergono dal contatto con il profondo. Il femminile incarna l’anima contemplativa, la possibilità di uno sguardo diverso. La donna più aderisce al corpo, più è capace di incarnare, rendere visibili tratti spirituali. Più è contemplativa, più diviene strumento di azioni creatrici. Il femminile apre all’eterno, come afferma Chiara Lubich. Nel contesto evangelico il materno rinvia a un’accoglienza della vita che deve germinare a tutti i livelli, porta in contatto con l’invisibile, evoca quella bellezza che può solo essere contemplata, non posseduta. Così il femminile nobile incrina i meccanismi del potere. Principio maschile e femminile non sono intercambiabili né tanto meno derivano semplicemente da aspetti culturali: sono valori ontologici, si potrebbe dire archetipici. Dio crea l’uomo a sua immagine, ma non ha immagine. Nella tradizione ebraica c’è una totale trascendenza, Dio non si può in alcun modo raffigurare. Rivela lentamente i suoi attributi invisibili nell’essere umano. La precisione con cui il testo di Genesi specifica che «maschio e femmina li creò» non può che alludere al fatto che maschile e femminile sono principi presenti in Dio stesso. Se assumono immagine nell’essere umano, vuol dire innanzitutto che sono in Dio. C’è un fondamento ontologico. Inoltre in Dio sono contenuti nella perfetta unità, per cui anche nell’essere umano non possono che tendere ad armonizzarsi.
SCARAFFIA Cosa intendi per lavoro spirituale necessario a redimere le relazioni uomo/donna?
LUMINI La donna è particolarmente ricettiva all’azione di Dio nell’anima, più sensibile ai piani profondi dell’amore. Per lavoro spirituale intendo proprio la maggiore disponibilità del femminile ad aprirsi all’opera dello Spirito Santo. Solo questo può rendere possibili rapporti di comunione fra donne e uomini. È necessario il silenzio, quella sosta che permette alla vita interiore di germinare. Il genio femminile in Maria trova il suo culmine nella straordinaria potenzialità a tramandare la vita spirituale, la vita che concepisce lo Spirito Santo. Il battesimo di fuoco di Gesù allude alla nuova vita suscitata dallo Spirito. Se Gesù ha fatto la nominazione di Dio come padre, suscitando uno scandalo immenso, mi sembra ora maturo il tempo per un’altra fondamentale nominazione, quella di Dio come Madre. Ancora tutto resta ancorato a una teologia del Padre, ma credo che non sia possibile elaborare una profonda teologia della donna se prima non viene elaborata e messa a fuoco la teologia della Madre. E solo le donne possono farlo. Se ci rivolgiamo alla Trinità, la misteriosa persona femminile della divinità non può che essere lo Spirito Santo. La maternità di Dio si può individuare nello Spirito Santo, nei primi secoli associato alla Sophia. Nella tradizione ebraica inoltre la Ruah è femminile. Del resto anche in Giovanni, lo Spirito Santo è il consolatore. In questo tempo in cui la Chiesa invita all’amore e alla misericordia, la divina maternità deve uscire dall’ombra, venire alla luce. C’è una grande opera spirituale in corso. Dietro quello che si muove nella storia bisogna
incominciare a scorgere i segni visibili di una regia invisibile.
MARINELLA PERRONI Mi sento di rappresentare qui una gran parte di donne che insegnano o studiano teologia, anche in Italia, e che percorrono strade un po’ diverse da quelle indicate finora. Il salmo citato da Gronchi me ne ha fatto venire in mente un altro che sento particolarmente in linea con il nostro lavoro teologico: «La verità germoglierà dalla terra e dal cielo si affaccerà la giustizia» (85). Sono convinta che la verità non sia prestabilita, nessuno di noi ce l’ha, ma germoglierà dalla terra man mano che la terra verrà lavorata: è questo il senso del lavoro teologico. Quando Papa Francesco ha detto che la Chiesa ha bisogno di una teologia della donna, in molte siamo rimaste sconcertate: dai tempi dei Padri della Chiesa alla Mulieris dignitatem, la storia del pensiero teologico è anche una teologia della donna. Fatta da chi, però? Fatta perché? In funzione di che cosa? Oggi alcuni fattori sono ormai cambiati, e ciò comporta che non si può pensare semplicemente di cambiare l’ordine dei fattori in modo che il risultato non cambi. Sono i fattori a essere cambiati. Quali? Innanzi tutto, le donne — e non la donna, che è un’astrazione e vive nell’immaginario — sono diventate soggetti capaci di fare teologia, e cercano strade diverse, capaci di rendere loro maggiore giustizia. Per questo, la prima cosa da fare sarebbe ascoltarle. Le donne hanno elaborato un pensiero in tutti gli ambiti teologici. Il problema allora è provare a ri-ragionare insieme — e oggi dovrebbe essere possibile farlo finalmente anche con quelle ritenute più lontane — su tutta la teologia della donna, che ci schiaccia, da Tertulliano in poi, con i suoi luoghi comuni, vere e proprie ipoteche. Ipoteche pesanti. Gronchi faceva una lettura fenomenologica del rapporto prete-mamma che è verissima. Va ripensato però a fondo anche il binomio Eva-Maria, un’alternativa che pesa per le sue ricadute simboliche potenti che contribuiscono a definire stereotipi che si trasmettono di generazione in generazione. Non è possibile una teologia che renda pienamente ragione della pluralità dell’umano se non si sciolgono alcuni nodi critici perché si può anche continuare a esaltare la donna, ma poi le donne continuano a vivere oltre il margine. La seconda ipoteca forte, poi, è il binomio mariano-petrino per configurare la fisionomia della partecipazione delle donne alla vita della Chiesa. Anche il Papa sembra prediligere questa strada battuta già dai suoi predecessori. Anche se, in forza di questo principio così come è stato formulato da Hans Urs von Balthasar, il mariano, cioè, l’accoglienza amorosa, è carisma primario rispetto al petrino, cioè l’esercizio del potere di giurisdizione, non ci si rende conto che ci si muove sempre su due piani e da questo prendono le mosse molte delle discriminazioni fondate sulla differenza sessuale. Ancora una volta: è necessario ripensare alcune categorie che venivano prima tranquillamente accettate perché, sia dal punto di vista simbolico, sia sul piano delle ricadute socio-ecclesiali, il modo di pensare il maschile e il femminile non è più lo stesso. Quando von Balthasar elabora la categoria del principio mariano-petrino, lo fa in assoluta coincidenza con la sua spiritualità e con il suo rapporto con la mistica Adrienne von Speyr, ma questa andrebbe ora ridiscussa sia in rapporto al Nuovo Testamento, sia sulla base di un nuovo rapporto tra antropologia ed ecclesiologia.
LUMINI Vuoi dire che va ripensato il fatto che il petrino riguardi l’istituzione, mentre Maria rimandi alla relazione?
PERRONI Esatto. Voglio dire che sia maschile che femminile, o anche sia paterno che materno, possono riguardare entrambi gli ambiti, sia quello della relazione che quello dell’istituzione. È ormai chiaro che la netta distinzione dei ruoli sulla base della quale si è retto il patriarcato sta cedendo il posto ad altri modelli possibili.
LUISA MURARO Il mio interesse principale in questa impresa è che il movimento femminista sia fedele alla sua ispirazione originaria, e la sua ispirazione originaria — qui è stato ricordato da Lumini — non è la conquista del potere ma disfare dall’interno il potere, per sostituirlo con l’energia simbolica della parola e delle relazioni, cioè quello che si chiama autorità. A mio giudizio la Chiesa cattolica più delle Chiese riformate ha conservato qualcosa dell’importanza del simbolico. Nella temibile macchina del potere costruita dagli uomini, c’entra non poco la questione della sessualità: la sessualità femminile è quasi naturaliter cristiana, essendo sensibile all’aspetto spirituale. Le donne, se non ci fossero i soldi di mezzo, non farebbero sesso senza amore; gli uomini invece sì e praticano spesso un sesso violento, di rapina (tale dovremmo considerare anche quello a pagamento, secondo me). È per questo, mi chiedo, che nelle società più antiche erano le donne che gestivano il rapporto con il divino e con il sacro? Noi siamo cresciuti in una civiltà fortemente patriarcale che ha capovolto questa gerarchia. Ma ci sono uomini che sentono questa superiorità femminile e dicono «la mia anima è una donna», e ci sono storici, come Kurt Ruh, studioso della mistica occidentale, che dicono: solo una donna può parlare con tanta confidenza a Dio. Se le donne delle parrocchie disertassero, poi, per la Chiesa cattolica sarebbe un problema: per farle tornare dovreste promettergli posti, carriere e soldi. Per adesso, invece, vengono gratis, sono là, ma potrebbero trasformarsi e diventare simili a uomini e pretendere dei vantaggi. Penso anch’io che il tema della complementarità sia cruciale e vada ripreso in mano, non rattoppato. Secondo me il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, ha detto cose importanti sulla differenza sessuale; per esempio che non è tra uomini e donne, è in lei, in lui: non ci sarebbe un uomo e una donna se non ci fosse, immanente all’essere umano, il segno della differenza sessuale. La complementarità può essere compresa solo dopo un approfondimento accurato sulla differenza sessuale, che la Chiesa è prontissima a riconoscere, ma in termini dogmatici. Da dove esce la differenza? Gronchi dice: dalla Bibbia, Perrone fa notare che la Bibbia bisogna però saperla leggere. La scienza e la filosofia insegnano che la differenza sessuale è un’invenzione della vita ai suoi livelli più elementari, e che l’umanità l’ha assunta e tradotta in cultura e civiltà, ma spesso in una forma gerarchica che esprime il dominio di un sesso sull’altro. I contenuti della differenza sessuale cambiano nel tempo, però il senso deve essere libero per lei come per lui. I quali poi cercano di accordarsi, nella reciproca indipendenza simbolica. Il conflitto tra i sessi insorge e va affrontato di volta in volta, è una constatazione storica; la complementarità è fenomenologicamente evidente solo sul piano procreativo. Insomma, le posizioni sono tutte da ripensare. Segnalo, a questo proposito, il contributo della teologa svizzera Hallensleben, già citata: c’è squilibrio nella Chiesa, c’è squilibrio tra laici e clero e c’è squilibrio soprattutto a carico del rapporto donna-uomo, dice. In ciò lei capta la voce dello Spirito Santo nella storia, ponendo le basi di una teologia fatta non per andare d’accordo a tutti i costi, ma per confliggere senza odiare, senza fare guerre. E poi c’è la posizione di Cristiana Dobner, la quale nega ogni complementarità. Rileggetela, lei dice: la donna sta per se stessa, l’uomo sta per se stesso. Poi c’è invece una teologa americana, Sara Butler, la quale invoca la complementarità e poi dice agli uomini: e allora il vostro genio? La vostra differenza? Ecco, questa è un’altra strada da aprire: esplorare la differenza maschile. E non solo in negativo come ho fatto qui io, citando la sessualità fondamentalmente disordinata degli uomini.
DAMIANO MARZOTTO Che cosa è l’indipendenza simbolica?
MURARO Per brevità, dirò che l’indipendenza simbolica, nella sua versione più radicale, difficile da capire, io la leggo nella Lettera ai Romani, in quel passo interpretato come se Paolo insegnasse la sottomissione. Nelle cose di questo mondo, dice, obbedite alla necessità; per il resto, noi abbiamo la nostra legge che è quella dell’amore.
MARZOTTO Ho ascoltato con grande interesse e reagisco semplicemente su alcune cose che mi hanno colpito maggiormente. Circa il rapporto uomo-donna, mi è piaciuta molto l’espressione che utilizzava padre Piersandro Vanzan: reciprocità asimmetrica. Non so se ricalca la complementarità, secondo me è un po’ diversa e un po’ più profonda, perché non obbliga a uno schema rigido, in cui i due devono comunque inserirsi. Dice però molto della necessità della reciprocità e salva una grande libertà nella asimmetria. Forse coincide con quella sessualità della differenza di cui parlava Muraro, ma io non sono sufficientemente esperto. Mi sembra che ci sia una ricchezza nella realtà delle donne, che va valorizzata, e negli itinerari dei vangeli che ho percorso mi è sembrato appunto di vedere, come dico nel mio libro Pietro e Maddalena, che la donna nella evangelizzazione «precede, approfondisce e allarga». Precede perché è più intuitiva e anticipa l’uomo, tant’è che Dio si rivolge a lei innanzitutto, sicuro di essere capito, ma soprattutto la donna approfondisce. Il discorso che ha fatto Lumini sull’approfondimento mi pare fondamentale, altrimenti noi uomini ci disperdiamo nell’azione ma non entriamo in profondità nel mistero e questo sarebbe una perdita drammatica per la Chiesa. E poi la donna allarga gli orizzonti della missione: noi abbiamo degli schemi ben precisi, la donna li supera e porta più avanti. Non credo che questa reciprocità asimmetrica si fermi alla procreazione, perché mi sembra che Dio sia più ricco nella sua elaborazione; ma al di là di questo vedo che c’è una capacità nelle donne e una capacità negli uomini, che non sempre è sostituibile, anche se bisogna essere molto attenti nel non considerare sempre come definitivo quello che talvolta è un portato culturale. A me sembra che proprio perché siamo unità di corpo e spirito, ciò che è nel corpo si trasfonde nello spirito e viceversa. Il problema è come definire ciò che è caratteristico; certo, viviamo sovente di stereotipi. Oggi direi che c’è una ricchezza in questo dialogo fra uomini e donne che non va perduta, ma forse un po’ ripensata. In questo ripensamento, credo che la Bibbia sia molto importante. Però ho l’impressione che alle volte si prenda la Bibbia per andare a cercare delle conferme a quello che corrisponde alla sensibilità attuale. Ma questo non è il modo di trattare la Bibbia.
SCARAFFIA Come si deve affrontare la lettura biblica?
MARZOTTO In questo io vedo un po’ la difficoltà: è vero che bisogna sempre ripensare le convinzioni correnti, la cultura contemporanea cerca appunto di ripensarle interrogando la Bibbia, però la Bibbia va studiata e seguita anche nelle sue proposte originali, cercando di capire le situazioni come si vivevano a quel tempo. Occorre evitare di proiettare sulla Bibbia un’esigenza teologica e culturale di oggi. Quando ho voluto leggere il tema della donna nei vangeli ho cercato di vedere se c’è una teologia dell’evangelista, e come, all’interno di questa teologia, l’evangelista collochi la figura femminile. Allora, credo, emerge un contributo che a me pare interessante: se l’evangelista, che tutto sommato era la scuola di Gesù, si è preoccupato di descrivere un certo tipo di rapporti fra uomo e donna, un qualche valore l’avrà! Da ridiscutere, da ripensare, però secondo me è questa una base utile anche per eventuali altre indagini, alla ricerca di livelli precedenti della tradizione evangelica. Mi sembra importante anche il problema evocato da Gronchi: nella Chiesa ci sono i sacerdoti, che non sono sposati — e io penso che il celibato del clero sia un valore importantissimo — ma pensano, per il fatto che non sono sposati, che il problema “donna” per la loro vita sia chiuso, o lo risolvono, come ha detto lui, con il tema della mamma: la mamma è l’unica donna della mia vita, con tutte le conseguenze che egli ha evidenziato. Penso che un tema importante per questa discussione sia l’educazione dei sacerdoti, a partire dal seminario, a una relazione positiva e costruttiva con la donna, e non soltanto come anima da guidare. Cioè un prete deve imparare a dialogare e a entrare in una dinamica di collaborazione con le donne; oltretutto, se il tema non è preso in considerazione in modo critico e consapevole può portare ad atteggiamenti regressivi, invece che aiutare ad approfondire e dare maggiore vigore alla evangelizzazione e alla testimonianza della Chiesa.
L’articolo al quale ci si richiama per attribuire la categoria “femminismi” a Luisa Muraro è stato scritto nel 2006 e si trova su Google. Si tratta solo di un riassunto/commento a una lezione magistrale tenuta dalla Muraro, scritto da certa Angela Ammirati, la quale osserva che “bisogna parlare di femminismi”. Per attribuire a Luisa Muraro tale pensiero occorrerebbe leggere il testo originale della sua lezione magistrale, che su Google non si trova.
In ogni caso io ho detto la mia.
Lea Melandri
http://27esimaora.corriere.it/articolo/e-se-le-donne-non-volessero-piuessere-un-genere/
Barbara Stefanelli nel suo articolo sul Corriere (12.03.2014) sottolineava il “non detto” degli uomini nell’offensiva sulla parità di genere – come se la questione non li riguardasse – e il rischio conseguente che l’equità in Italia diventasse «la battaglia di un genere per un genere.» Di qui la domanda sul perché sia così difficile dare priorità a «strategie capaci di destare autostima, fiducia, rispetto gli uni per le altre.» Io penso che la risposta sia già implicita nella scelta di fondare la richiesta di democrazia paritaria sulla stessa categoria di “genere” per cui le donne son state escluse dalla polis, considerate per “natura” inadatte a rivestire responsabilità intellettuali e morali proprie soltanto di chi è persona, individuo.
Sappiamo che non sono solo gli uomini a richiamare l’attenzione sul “merito”, come linea di difesa debole e contraddittoria dalla paura di perdere potere e privilegi. Dall’ascolto di dibattiti, microfoni aperti, emerge con chiarezza che sono tante le donne che, per ragioni diverse, rifiutano di pensarsi come parte di un tutto omogeneo o, tanto meno, di un gruppo sociale bisognoso di tutela e riconoscimenti negati per secoli. La frase che si sente ripetere più spesso è «Non siamo Panda», specie rara. La contrapposizione genere/individuo non è una novità, viene da lontano, parla la lingua del sesso vincente e della distanza che ha creduto di poter mettere tra la sua libertà, destinata al governo del mondo, e la sua dipendenza dalla materia che, attraverso il corpo della madre lo consegna ai limiti biologici degli altri viventi.
Avvalersi della categoria del “merito individuale” o, al contrario, rivendicare un’equa spartizione del “potere”, senza analizzarne l’origine e le forme che vi ha impresso sopra il lungo dominio maschile, significa tornare al dilemma senza via d’uscita tra “uguaglianza e differenza”, ridurre un problema di relazione tra i sessi al “valore/ disvalore” di uno solo. Riuscire a pensarsi come un soggetto “femminile plurale”, capace di porre la propria individualità senza cancellare ciò che ha significato l’appartenenza a un “genere”, è stata la svolta portata dal femminismo alla coscienza storica. È solo partendo da sé, dall’esperienza e dalle relazioni personali che si può, affrontando inevitabili conflitti, ritrovare tra uomini e donne “fiducia reciproca”.
Io non nego l’importanza della presenza femminile nei “luoghi dove si decide”, è sul modo di arrivarci che sollevo critiche e perplessità. Le “quote” anche se riconosciute obtorto collo (come forse sarà al senato) sono una resa alla logica dello svantaggio da colmare e di una “parità” che presuppone un metro maschile di confronto posto a priori. Se le donne che vogliono entrare nelle istituzioni ponessero da subito, senza temere le contrarietà a cui vanno incontro, condizioni dove è evidente il rapporto uomo- donna in tutti i suoi aspetti, dal modo con cui si fanno le leggi a come si intende la rappresentanza, ecc., otterrebbero sicuramente un largo consenso presso altre, deluse dalla facilità con cui le loro simili si omologano a modelli già dati pur arrivare a un posto di rilievo.
Tutto ciò che si ottiene per benevola concessione, per solidarietà o per adeguamento a ciò che è “politicamente corretto”, non è senza prezzo e, soprattutto, a mio avviso, non è da lì che passa un cambiamento reale e duraturo della convivenza tra i sessi. Non vedo perché un presidente di regione o provincia, un sindaco, un presidente del consiglio non dovrebbero desiderare nella loro squadra donne che hanno scelto e perciò legate a loro da gratitudine, preoccupate perché conservino quel ruolo.
Quando è cominciata la campagna dell’UDI per il «50&50 ovunque si decide», pur con qualche riserva ho aderito, precisando che lo consideravo solo un modo per rompere simbolicamente il monopolio dei poteri decisionali o, se vogliamo, del governo del mondo da parte maschile. Visto l’uso che in seguito se ne è fatto, sono tornata su posizioni critiche. Se manca la consapevolezza che le “discriminazioni”, gli innumerevoli “svantaggi” femminili nella vita pubblica dipendono dai ruoli di genere e dalla divisione del lavoro che da essi ha tratto finora la sua legittimazione “naturale”, le donne possono solo tentare con fatica di fare propri linguaggi, competenze, poteri, creati in loro assenza e svincolati dai bisogni essenziali della conservazione della vita. Il conflitto che si è aperto in questi giorni tra posizioni che potremmo definire di tipo emancipatorio e richiami a un’autonomia di pensiero che richiede processi di liberazione più profondi, era già presente tra le donne impegnate di inizio ‘900.
A farsene interprete è Sibilla Aleramo in uno dei suoi Frammenti di lucida intuizione: «Gli uomini ai quali parlo non sanno, quando mi dicono con leale stupore che hanno l’impressione di discorrere con me da pari a pari, non sanno come echeggi penosa in fondo al mio spirito quella pur così lusinghevole dichiarazione, a quale insolubile dramma essa mi richiami. Per conquistare questa necessaria stima dei miei fratelli, io ho dovuto adattare la mia intelligenza alla loro, con sforzo di decenni: capire l’uomo, imparare il suo linguaggio, è stato allontanarmi da me stessa (…) In realtà io non mi esprimo, non mi traduco neppure: rifletto la vostra rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi.» (Sibilla Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942).
Sappiamo che la storia torna continuamente sui suoi passi. Si può solo sperare che non si limiti a replicare il già noto, e apra invece la strada a sviluppi nuovi e imprevisti. Se invece di inscrivere in una legge elettorale la parità numerica tra due sessi – perché di sessi si tratta e non di generi, in questo caso, di biologia e non di storia-, ci si impegnasse a cambiare uno dei pilastri della cultura e dell’immaginario maschile presente nella Costituzione, l’articolo 37? Non stiamo parlando di riforme costituzionali? Quale migliore occasione, per le parlamentari che vorrebbero mettere fine alle tante “discriminazioni” riguardanti le donne nella sfera pubblica, che mettere mano all’articolo che, nella sua contraddittorietà, ne costituisce il presupposto originario, e cioè la divisione sessuale del lavoro? Da un lato si dice che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore»; dall’altro che «le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare».
Uguaglianza e differenza: ecco il dilemma, ma sarebbe meglio dire il tormentone, che la modernità ha messo sulle spalle delle donne, per non dover ammettere che affrontare le questioni dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo della società in generale. Finché le “condizioni di lavoro”, così come costruite dai sistemi economici e politici maschili, si pensano svincolate dalla riproduzione della società – cura, conservazione della vita,ecc.- solo perché questo sarebbe compito e responsabilità dell’ altro sesso, non ci sarà numero di seggi parlamentari femminili sufficiente a garantire alle donne la libertà di esprimere a pieno la loro umanità, e agli uomini di procedere meno soli e distruttivi nel governo del mondo.
La Lezione magistrale di Luisa Muraro: Che cosa è capitato con il femminismo?
Angela Ammirati
http://www.women.it/cms/magazine-mainmenu-46/femminismi-mainmenu-92/166-la-lezione-magistrale-di-luisa-muraro-che-cosa-e-capitato-con-il-femminismo.html
Venerdi 13 maggio, l’Auditorium di Roma, in occasione del Festival della Filosofia, ha ospitato la “lezione magistrale” di Luisa Muraro. Una platea affollata e soprattutto inaspettata, visto che in seguito alle pressanti richieste delle molte e molti rimasti fuori dalla porta, alla fine è stato necessario chiedere alla filosofa di replicare la sua lezione magistrale.
“In primo luogo – sostiene Muraro – una spaccatura teoretica generata, a suo parere, dall’incomprensione e da una cattiva interpretazione del pensiero della differenza sessuale, teorizzato soprattutto dalla filosofa Lucy Irigaray e a cui hanno fornito un contributo anche le elaborazioni teoriche prodotte in Italia da parte di molte filosofe, tra cui quelle appartenenti alla “Libreria di Milano” e al gruppo della comunità filosofica di Verona “Diotima”.
“Non ci si capisce più” – ha ironizzato Luisa Muraro – con la spiacevole conseguenza che le filosofe europee leggono molto di più i testi delle americane di quanto facciano loro nei nostri riguardi. Orientarsi tra la griglia tematica in cui si annoda il dibattito contemporaneo sul femminismo, è un compito difficile anche per gli/le specialisti/e, se si considera che lo stesso femminismo italiano è insidiato da contrasti e divergenze.
Per tale motivo, è opportuno oramai parlare di “femminismi”. Un punto d’incontro e di partenza comune tra le varie espressioni oggi affaciatesi vi è stato. Il femminismo radicale sorto negli Stati Uniti alla fine degli anni ’60 e innervatosi nei movimenti di liberazione europei ha dato voce ad un ordine simbolico lasciato in ombra dal linguaggio e dalla cultura patriarcale. Secondo la filosofa, le ricerche americane sul “gender“ diversificate in studi etici, poltici e teorie eco-femministe, hanno racchiuso l’originalità del pensiero della differenza in una economia binaria dei sessi che ripropone i classici binomi maschi-femmina, cultura-natura e ragione-sentimento; una dualità che lo stesso femminismo della differenza ha cercato di superare ritenendolo una gabbia teorica e simbolica della soggettività femminile.
”In Italia, quello che vogliamo è che la cultura umanitaria regisitri donne e uomini come umanità e non consideri la donna un gruppo o una categoria. Per tale motivo ci siamo sempre rifiutate di istituire gli studi di genere nelle università; scelta, quest’ultima, che ci ha sempre costata l’accusa di avere un sistema retrogrado rispetto ad un avanzamento degli studi femministi di matrice anglo-americana” – ha sostenuto la filosofa.
Il pensiero della differerenza sessuale, nella riflessione di Muraro, è materialista, parte dalla differenza dei corpi e pone al centro un femminile che non è mai dato, ma è sempre apertura in divinire, ritenendo infondata l’accusa di essenzialismo che le teoriche del genere imputano soprattutto all’etica della differanza sessuale di Lucy Irigaray. Un punto di vista, quello di Muraro, condiviso anche dalla filosofa Rosi Braidotti che, nel suo recente libro ”In Metamorfosi”, legando il pensiero di Irigaray al post-stutturalismo di Deleuze, tenta di ridare autenticità al pensiero della differnza sessuale oscurato dalle teorie di genere.
La filosofia della differenza ha ereditato dal post-strutturalismo e dal decostruttivismo la metodologia. Irigary e molte pensatrici erano studiose e ricercatrici del persiero di Freud, Lacan e Foucault. In questo senso non hanno creato nulla di nuovo, se non aver agito quelle contraddizioni rilevate con la pratica dell’autocoscienza e aver vissuto quest’ultima come militanza. Foucault, è stato uno dei primi filosofi a svelare che i nostri corpi interiorizzano il potere. Il pensiero della differenza sessaule, sulla base di tali teorie ha liberato la soggettività femminile.
Il secondo momento della lezione, è stato dedicato al destino del femminismo. Per Muraro la seconda ondata del femminismo è giunta al termine, nel senso che le femministe hanno portato in luce il conflitto dei sessi e svelato l’ordine naturale che il patriarcato ha assunto nella storia e nella cultura. “Ma continuiamo a lasciare e a tenere ben fisse le pretese che lungo questa fase abbiamo rivendicato”.
Alla fine della lezione vi sono stati molti interventi da parte di studiosi, alcuni dei quali anche insidiosi, poiché vertevano sulla mancanza di mediazione che il femminismo della differenza sessuale pone con la politica istituzionale. Un atteggiamento, questo che porta spesso a non prendere posizioni, che a volte sono importanti e necessarie e che rischia, cosi come sostengono molte femministe, di immobilizzare l’azione politica e di insidiare i progetti di emancipazione delle donne.
Mi sembra importante sottolineare che il suddetto dibattito/scambio fra donne e uomini, intitolato “Per una profonda teologia della donna”, è avvenuto in Vaticano ed è stato pubblicato nell’inserto mensile teologico “Donna Chiesa Mondo”, allegato all’Osservatore Romano di dicembre 2014
Mi sembra FUORI LUOGO averlo pubblicato collocandolo nella categoria “femminismi e genere”, categoria che non ha alcun significato. Non esistono i “femminismi”, ma il FEMMINISMO, movimento politico, che ha differenti collocazioni, fatto di donne e non di un “genere”. A questo proposito invito a leggere, negli interventi suddetti, quello di Luisa Muraro che ha ben formulato l’esistenza di una “questione maschile”; da notare che l’ha fatto proprio in Vaticano, istituzione maschile per eccellenza. Il suo discorso riguarda più gli uomini che le donne: allora perché metterlo in “Femminismi e genere”?
A questo punto CHIEDO CHE VENGA TOLTA DALLA PRIMA PAGINA LA CATEGORIA “femminismi e genere”, per due ragioni fondamentali:
1) perché la dicitura “femminismi” è una definizione astratta. Invece dire femminismo ci si riferisce ad una realtà storica, con precise dinamiche politiche e differenti collocazioni sociali e culturali, che riguardano tutta la società, fatta di donne e uomini;
2) dire “femminismi” fa solo confusione e aiuta il dominio maschile che oggi vuole “ghettizzare” il pensiero femminile, così come ieri la cultura maschile ha relegato le donne nel privato.
Riepilogando: Suggerisco che tutti gli scritti inviati da donne al sito cdbitalia non vengano più ghettizzati nella categoria “femminismi e genere”, ma siano messi nelle altre categorie generali già esistenti. Ovviamente tenendo conto che già molti scritti provenienti da singole donne, appartenenti ai gruppi autonomi donne cdb e altri gruppi, vengono pubblicati in un loro BLOG, gestito autonomamente, sotto la voce GRUPPI DONNE – INSIEME TESSENDO RETI.