Iraq, dilaga lo “Stato islamico”
Michele Paris
www.altrenotizie.org
La situazione critica in cui versa ormai da tempo l’Iraq si è ulteriormente aggravata in seguito alla caduta della seconda città del paese, Mosul, e di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, ora nelle mani di un guppo integralista sunnita dopo alcuni giorni di scontri con le forze armate di Baghdad. I ribelli jihadisti protagonisti dell’operazione fanno parte del cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), già impegnato nel conflitto con il regime di Bashar al-Assad e ora sempre più vicino all’obiettivo di creare un califfato sunnita ultra-reazionario nel territorio di confine tra i due paesi a cui fa riferimento il nome del gruppo stesso.
Tra martedì e mercoledì l’occupazione degli edifici strategici delle due città dell’Iraq settentrionale, capitali rispettivamente delle province di Ninive e Saladin, ha già costretto più di mezzo milione di abitanti a cercare rifugio nelle località vicine, mentre testimoni e giornalisti hanno raccontato di cadaveri abbandonati per le strade e di soldati che hanno lasciato le loro postazioni permettendo ai militanti di impossessarsi di un vasto arsenale di armi.
Oltre a Mosul e Tikrit, i jihadisti di ISIS sono entrati nella serata di martedì anche nella vicina Baiji, dove avrebbero preso il controllo di una delle più importanti raffinerie di petrolio dell’Iraq, in grado di processare 300 mila barili al giorno destinati a Baghdad e alle altre province del paese.
Come già anticipato, la conquista di Mosul, una città di oltre 2 milioni di abitanti a maggioranza sunnita, ha aperto la strada all’unificazione del territorio dove operano, tra l’Iraq e la Siria, le forze affiliate a ISIS. L’organizzazione fondamentalista, guidata dal comandante Bakr al-Baghdadi – in rotta con il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri – controlla ora nel solo Iraq un’area pari alle dimensioni del Portogallo e che ospita circa 3,5 milioni di abitanti.
Dall’assalto a Mosul e Tikrit, inoltre, ISIS ha guadagnato centinaia o forse migliaia di nuovi militanti, liberati dalle carceri delle città, così come ha potuto mettere le mani sui depositi bancari e sulle armi dell’esercito, tra cui centinaia di veicoli corazzati.
La nuova crisi che sta investendo l’Iraq ha gettato nel panico le autorità di Baghdad. Il primo ministro Maliki ha fatto appello al paese per combattere i ribelli, sollecitando il Parlamento a dichiarare lo stato di emergenza che gli assegnerebbe poteri speciali. Alcune misure estreme sembrano inoltre essere allo studio o già intraprese, a conferma sia della disperazione che della debolezza del governo centrale.
Secondo alcuni resoconti giornalistici, ad esempio, il governo avrebbe iniziato la distribuzione di armi ai civili, peraltro del tutto impreparati a fronteggiare una forza estremamente disciplinata e capace di costringere alla fuga un esercito regolare composto da decine di migliaia di uomini.
Il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, ha invece prospettato una collaborazione con le forze armate della regione autonoma curda (Peshmerga), con cui il governo di Baghdad è in rotta di collisione da tempo a causa di una disputa legata al controllo delle risorse petrolifere.
Alcuni ufficiali dei Peshmerga nella giornata di mercoledì hanno affermato che per il momento l’esercito curdo non ha ricevuto richieste di aiuto dal governo di Maliki per combattere i jihadisti a Mosul, ma sul campo ci sarebbero già stati episodi di collaborazione con le forze armate di Baghdad.
Il governo centrale continuerà però a incontrare gravi difficoltà nella lotta contro ISIS, i cui guerriglieri mantengono tuttora il controllo dell’intera città di Fallujah e di parte di Ramadi, nella provincia occidentale di Anbar, dopo avere già respinto vari tentativi dell’esercito regolare di riprendere le località perdute nel mese di gennaio.
Con la presa di Mosul, in ogni caso, ISIS occupa ora uno snodo stradale importante verso Baghdad, teoricamente facilitando l’avanzata dei propri uomini verso la capitale, e un collegamento vitale per le rotte petrolifere dirette verso le raffinerie nel nord dell’Iraq.
La natura dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria è apparsa evidente soprattutto nel corso del conflitto in quest’ultimo paese, dove l’organizzazione integralista si è distinta per la ferocia con cui sta perseguendo un’agenda settaria contro sciiti, curdi e cristiani. Il fanatismo sunnita dei membri di ISIS ha fatto registrare un numero altissimo di attacchi suicidi, esecuzioni e torture, nonché violenti scontri anche con gli altri gruppi della galassia dell’opposizione armata anti-Assad.
In particolare, ISIS è stato al centro di una disputa cruenta con il Fronte al-Nusra, risolta solo formalmente dai vertici di al-Qaeda che hanno deciso di riconoscere, tra quelle attive in Siria, soltanto quest’ultima formazione come legittimamente affiliata all’organizzazione fondata da Osama bin Laden.
La crescente influenza di ISIS ha messo in allarme anche gli Stati Uniti, principalmente a causa degli effetti negativi sulla guerra condotta in Siria per la rimozione del regime di Assad. Il ruolo di primo piano svolto da ISIS con metodi sanguinari ha infatti scatenato una serie di scontri fratricidi tra l’opposizione, rendendo più cauta l’amministrazione Obama nell’offrire il proprio sostegno alle forze anti-governative per il timore che gli aiuti militari destinati alle fazioni “moderate” possano finire nelle mani degli estremisti.
Allo stesso modo, Washington sta cercando di contenere lo strapotere di ISIS anche in Iraq. Qui gli Stati Uniti appoggiano il governo del premier Maliki, il quale continua a ricevere ingenti forniture militari dall’alleato d’oltreoceano. Il Dipartimento di Stato americano si è detto “estrememate preoccupato” per gli sviluppi della situazione a Mosul ed ha promesso tutta “l’assistenza necessaria al governo iracheno”, poiché ISIS rappresenta “una minaccia non solo per la stabilità dell’Iraq ma anche per quella dell’intera regione”.
Le reali responsabilità della catastrofe che sta investendo l’Iraq – incluso il dilagare di ISIS – sono comunque da ricercare proprio a Washington. L’invasione totalmente illegale del 2003 ha causato centinaia di migliaia di morti tra la popolazione di questo paese, cui vanno aggiunti milioni di feriti, altrettanti profughi e la distruzione del tessuto sociale ed economico del paese mediorientale.
Nel mettere in atto uno dei più macroscopici crimini di guerra della storia, gli Stati Uniti hanno apertamente alimentato le divisioni settarie dell’Iraq, in modo da abbattere il regime sunnita di Saddam Hussein e sradicare l’establishment baathista dalle strutture dello stato.
In questo modo, il risentimento della minoranza sunnita ora emarginata è esploso contro il nuovo governo sciita, creando le condizioni per la diffusione di gruppi legati ad al-Qaeda, del tutto assenti dall’Iraq sotto il regime di Saddam nonostante le menzogne dell’amministrazione Bush. A Mosul come a Falluja, d’altra parte, in molti tra la popolazione di fede sunnita hanno voltato le spalle al governo di Baghdad, appoggiando le forze fondamentaliste, sia pure in maniera riluttante e per puro opportunismo.
Il nuovo fronte di guerra aperto in Iraq, infine, non fa che aggravare un bilancio a dir poco drammatico della crisi umanitaria in atto a due anni e mezzo dall’uscita di scena delle forze di occupazione americane. Le divisioni settarie interne sfruttate dalle élites politiche e la sconsiderata campagna dell’Occidente e delle dittature del Golfo Persico in Siria a sostegno dell’opposizione armata, hanno provocato un’ulteriore devastazione dell’Iraq in questi ultimi anni.
Il 2013, ad esempio, è stato l’anno con il maggior numero di vittime a partire dal periodo più buio dell’occupazione USA, tra il 2006 e il 2007. L’aggravamento della situazione è confermato poi dal fatto che il mese di maggio appena trascorso è risultato il più sanguinoso dall’inizio dell’anno, con 799 iracheni uccisi dalle violenze settarie, di cui oltre 600 civili.
Solo nei giorni precedenti la caduta di Mosul e Tikrit, poi, in varie città del paese si era assistito ad attentati devastanti con decine di morti, tra l’altro, a Baghdad, Ramadi e Samara, tutti o quasi rivendicati proprio dallo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.
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Gli islamisti: “In marcia verso Baghdad”
Chiara Cruciati
Near East News Agency
Dopo la presa di Fallujah e Ramadi, dopo Mosul e Baiji, ieri è toccato a Tikrti, città natale dell’ex dittatore Saddam Hussein. Ora l’obiettivo è ben altro: Baghdad, la capitale. In un audio registrato e diffuso questa mattina le milizie islamiste dell’Isil (lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) promettono l’occupazione di altre città irachene, fino ad arrivare a Baghdad.
Una registrazione di 17 minuti in cui con – molta probabilità per bocca del portavoce Abu Mohammed al-Adnani – il gruppo indica i futuri obiettivi: la capitale irachena e Karbala, città sacra per la comunità sciita. Baghdad, dopo la presa di Tikrit e dell’area delle raffinerie di petrolio, è vicinissima, così vicina da far tremare i polsi all’amministrazione Washington che sta organizzando l’invio immediato di droni e missili, anche se ciò obbligherà il governo a bypassare il Congresso (chiamato a dare il via libera nel caso di aiuti inviati a Paesi che hanno avuto rapporti commerciali ed economici con l’Iraq, nonostante le sanzioni).
“La sicurezza ha reiterato l’impegno degli Usa a lavorare con il governo iracheno e i leader in tutto l’Iraq per sostenere un approccio unificato contro l’aggressione dell’Isil – ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki – Siamo in contatto con i governi turco e iracheno e pronti a fornire ogni assistenza appropriata”.
La battaglia si sta facendo regionale, con l’Isil che minaccia le autorità turche – rapiti ieri 25 membri del consolato turco, tra cui il console generale, e 32 camionisti – e la Siria dove controlla vaste aree a Nord-Est, dopo aver marginalizzato le opposizioni moderate e islamiste rivali. Secondo alcuni analisti, il gruppo guidato dal temibile Al-Baghdadi e uscito da Al Qaeda, di cui ormai non è più parte – sarebbe composto da circa 5mila miliziani. Un numero troppo basso per giustificare una simile offensiva, tanto ben organizzata, e gestita da uomini ben equipaggiati. Molti – tra cui Damasco – puntano il dito contro i Paesi del Golfo che hanno in questi anni finanziato, stipendiato e armato i gruppi islamisti di stanza in Siria e impegnati nel conflitto contro il regime. Gli stessi Stati Uniti hanno più volte frenato gli aiuti militari alle opposizioni per timore che finissero nella mani di gruppi qaedisti.
Certo è che in Iraq le file dell’Isil siano state rimpolpate da altri gruppi o miliziani, tra cui i baathisti fedeli ancora a Saddam e alcune milizie sunnite, che con gli islamisti hanno lo stesso obiettivo: far cadere il governo settario di Al Maliki. Senza dimenticate le razzie compiute nelle città occupate: residenti di Tikrit raccontano di soldati che pacificamente consegnano le loro armi ai miliziani dell’Isil, mentre il governo urlava minacce di durissime punizioni per i disertori.
Nei giorni scorsi la fuga di esercito e polizia ha messo in luce le enormi carenze delle forze di sicurezza irachene e l’incapacità del governo di gestirle e sostenerle. La popolazione è stata lasciata sola. La diserzione unita alla violenza dell’offensiva degli islamisti stanno provocando un vero e proprio esodo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per la Migrazione: nelle ultime ore da Mosul e dalla provincia di Ninawa stanno fuggendo a piedi o su mezzi fatiscenti mezzo milione di persone, un terzo della popolazione della città. Tutti diretti verso Nord, verso il Kurdistan iracheno: le immagini che arrivano dai checkpoint posti lungo il percorso raccontano il dramma delle famiglie, con sulle spalle poche valigie e negli occhi il terrore di finire intrappolati in un’altra insopportabile spirale di violenza. Quella stessa violenza che non ha mai dato tregua all’Iraq del post-Saddam, dagli anni dell’occupazione militare Usa e le azioni della resistenza irachena ai settarismi interni che stanno insanguinando il Paese dopo il ritiro delle truppe a stelle e strisce.
In due giorni l’Isil: a cadere per prima, lunedì, è stata Mosul, seconda città irachena per grandezza e primo centro commerciale. Ieri è toccato a Baiji, nella provincia di Salah-a-din, sede delle principali raffinerie di petrolio irachene. Avanzano a Kirkuk, dove controllano parte della città, si scontrano con l’esercito nelle vicine Hawijah e Rashad e mantengono forte la presenza a Fallujah e Ramadi, nella ribelle provincia di Anbar. Nel pomeriggio di ieri è infine giunta la notizia della presa di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, poco a Nord della capitale: la città è stata occupata dall’Isil, ha fatto sapere la polizia, e centinaia di detenuti sono stati liberati. Caduto anche Tikrit, il simbolo dell’ex regime, l’Iraq è allo sbando.
Una responsabilità enorme pesa sulla Casa Bianca, colpevole di aver lasciato l’Iraq nelle mani di un governo, quello Maliki, più impegnato ad arginare le legittime richieste della comunità sunnita che a combattere il tasso di corruzione (uno dei più elevati al mondo) e a ricostruire le basi economiche, politiche e sociali del Paese. Da mesi Baghdad chiede agli Stati Uniti di intervenire, inviando nuovi aiuti militari. Dopo la presa di Mosul e Baiji, Obama sta ragionando su come mettere una pezza e, bypassando il Congresso (chiamato a dare il via libera nel caso di aiuti a Paesi accusati di aver avuto rapporti economici con l’Iran), dovrebbe a breve inviare in Iraq droni ScanEagle e missili Hellfire, mitragliatrici, granate, fucili M16 e migliaia di munizioni, parte di un accordo da 15 miliardi di dollari stipulato con Maliki. Dopo una prima spedizione, potrebbero seguire anche elicotteri Apache, ma nessun soldato.
Sostegno arriva anche da Kurdistan e Siria. I guerriglieri peshmerga si sono detti pronti a intervenire, ha annunciato l’Unione Patriottica del Kurdistan. E lo stanno già facendo: secondo fonti sul posto, i curdi avrebbero già ripreso il controllo del villaggio di Rubaia, mentre le forze militari regolari attendono l’ordine per entrare in azione. Da Damasco il Ministero degli Esteri – dopo aver puntato il dito contro quei Paesi che negli ultimi due anni hanno sostenuto i miliziani anti-Assad, petromonarchie del Golfo in testa – ha parlato di «cooperazione immediata» con Baghdad.
La questione Isil non riguarda un solo Paese, ma un’intera regione. I miliziani si muovono con facilità da una parte all’altra del confine iracheno-siriano, portando avanti operazioni di successo e marginalizzando ogni altro gruppo di opposizione, moderato o islamista che sia. Obiettivo, creare un califfato sunnita, tra Iraq e Siria, dove la Shari’a sia la sola fonte del diritto.