Presbiteri non sacerdoti di U.Basso

Ugo Basso
Notam, n. 434 del 10 marzo 2014

Perfino nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, che leggiamo come in un ambiente fumoso e maleodorante ci si affaccia a una finestra aperta sulla pineta, ricorre il termine sacerdote come sinonimo di prete. Escludo in Francesco qualunque volontà di associazione dei suoi preti ai sacerdoti che in molte religioni e anche in quella ebraica offrono sacrifici e costituiscono una casta a cui sono riservati particolari privilegi.

Eppure qualche ambiguità nel termine non si rimuove: occorre proprio distinguere anche nel linguaggio sacerdote da prete. Il rischio, come abbiamo avuto occasione di scrivere in altre circostanze, è che una variazione dei significati delle parole, assunta senza consapevolezza, finisca con il cambiare i riferimenti semantici fino a sostenere di fatto diversi modi di pensare.

Senza addentrarmi in due questioni complesse e delicate come il valore sacrificale della morte di Gesù in croce né sul significato del sacramento dell’ordine, cioè del rapporto dei ministri consacrati con la sacerdotalità dell’intero popolo dei credenti, vorrei porre alcune precisazioni per dare fondamento all’appello di tanti, anche preti, a evitare ogni ambiguità e sottolineare, anche nel linguaggio, quella che Enzo Bianchi chiama, in altro contesto, «la differenza cristiana».

Sacerdote è il termine con cui la religione ebraica designa alcuni dei membri della tribù di Levi addetti al culto: fra loro al Sommo Sacerdote è riservato un particolare ruolo nella mediazione fra Dio e il suo popolo, espresso nella celebrazione di riti riservati alla sua persona.

Gesù non è appartenuto alla classe sacerdotale, né avrebbe potuto, secondo la legge mosaica, non essendo membro della tribù di Levi, bensì di quella di Davide, e con i sacerdoti della sua religione ha sempre avuto un rapporto negativo. Essi vedevano in lui, nella sua predicazione e nei suoi comportamenti, un trasgressore della religione dei padri, tanto più pericoloso quanto più popolare, fino a ricercarlo per metterlo a morte ottenendo la complicità del re e, soprattutto, dell’autorità romana.

E dalla classe sacerdotale Gesù ha sempre preso le distanze, senza contestarne il ruolo, ma mettendone in discussione la fedeltà al Signore. A sé Gesù Cristo non ha mai attribuito un ruolo sacerdotale e nella scrittura cristiana, il nuovo testamento, il termine sacerdote ricorre sempre riferito alle figure ebraiche, salvo che nella lettera agli Ebrei.

L’autore riconosce al gesto di Gesù nell’ultima cena e nell’imminente crocifissione il più alto atto di donazione al Padre che lo rende sommo sacerdote e, in quanto figlio di Dio, molto più grande di lui.

Gesù, Dio e uomo, mediatore perfetto esclude la necessità di qualunque altro mediatore, e, di conseguenza, di qualunque sacerdote. È l’unico caso in cui la scrittura cristiana introduce il termine sacerdote attribuito a Gesù, che nella consegna del suo gesto ai discepoli – «fate questo in memoria di me» – trasferisce il privilegio dell’antico sommo sacerdote a tutti i credenti in ogni tempo della storia.

Già nei primi secoli della cristianità si riconoscevano all’interno del popolo sacerdotale ruoli specifici non gerarchici, a vescovi e presbiteri, associati in modo particolare al sacerdozio di Cristo, ma avevano funzioni così diverse dai sacerdoti del tempio che a nessuno sarebbe venuto in mente di riprendere un nome evocativo di tradimenti, processi e morte.

Si diffonde la familiare parola presbitero, dal greco presbyteros, più vecchio, proprio perché in genere erano chiamati all’incarico i più anziani, di provata fede e autorevolezza, e da qui la parola
prete. Usandola diciamo un certo modo di intendere la prossimità a Gesù, il rapporto con il Padre, l’appartenenza a un popolo sacerdotale, come dichiariamo in ogni messa. Non sono dettagli.