Bosnia Erzegovina: la rivolta
Andrea Rossini
Osservatorio Balcani Caucaso
Una protesta operaia iniziata con una manifestazione di alcune centinaia di persone mercoledì a Tuzla si è gradualmente estesa a tutti i principali centri del paese, trasformandosi nel maggiore movimento di protesta in Bosnia Erzegovina dalla fine della guerra. Migliaia di giovani e disoccupati hanno raccolto il segnale lanciato da Tuzla, un tempo importante polo produttivo e industriale, indirizzando la propria rabbia contro edifici e sedi istituzionali e contro le forze dell’ordine. Le dimostrazioni sembrano crescere di intensità con il passare delle ore, e sono forti in particolare nella Federazione di Bosnia Erzegovina, una delle due entità in cui il Paese è diviso dagli Accordi di Pace di Dayton del 1995. Anche in Republika Srpska tuttavia, l’entità a maggioranza serba, ci sono state manifestazioni di solidarietà con i dimostranti della Federazione.
Nella giornata di oggi i manifestanti sono riusciti ad avere il sopravvento sulle forze di polizia e hanno dato alle fiamme prima la sede del governo cantonale a Tuzla, un edificio di 16 piani, poi quello di Sarajevo, dopo violenti scontri a Skenderija nel corso dei quali la polizia ha sparato proiettili di gomma e granate assordanti. La televisione bosniaca ha riferito anche di negozi saccheggiati, sempre a Sarajevo, dove sono anche state date alle fiamme diverse automobili della polizia e mezzi privati. Nella capitale bosniaca le proteste sono particolarmente forti e, al momento in cui scriviamo, giunge la notizia che anche la sede della Presidenza del paese sta andando a fuoco.
Il premier del cantone di Tuzla ha dato oggi le dimissioni mentre il Primo ministro della Federazione, Nermin Nikšić, ha dichiarato al termine di una riunione di emergenza che “i lavoratori lasciati senza i diritti fondamentali, come la pensione e l’assicurazione sanitaria, vanno distinti dagli hooligan che usano questa situazione per creare il caos.” La presenza all’interno delle manifestazioni di gruppi di ultras non è tuttavia sufficiente per spiegare le dimensioni e la rabbia di una protesta che sta coinvolgendo diversi segmenti della società, in forme ancora contraddittorie. A Tuzla, ad esempio, diversi dimostranti hanno aiutato i pompieri nel cercare di spegnere l’incendio della sede del governo cantonale, diversamente da quanto avvenuto a Zenica. Anche la sede del governo del cantone di Zenica-Doboj, infatti, è stata incendiata. Qui però, come ha riferito l’agenzia di stampa Anadolija, i mezzi dei vigili del fuoco sono stati bloccati dai manifestanti.
Gli operai di Tuzla, mercoledì scorso, protestavano contro la chiusura di cinque grandi fabbriche, dichiarate fallite dopo essere state privatizzate, e chiedevano l’intervento delle istituzioni. La loro vicenda, però, è subito divenuta la scintilla che ha convogliato il malessere generale di un paese dove il tasso di disoccupazione ufficiale sfiora il 30%, ma quello giovanile sale al 60%. Una dimostrante di Tuzla, citata dai media locali, aveva subito dichiarato che “la gente non ha più da mangiare, ha fame, i giovani non hanno lavoro, non c’è più assicurazione medica, ai cittadini non sono garantiti i diritti elementari. Non può andare peggio di così.
Zdravko Grebo, docente all’Università di Sarajevo e noto attivista per i diritti umani, ha dichiarato che spera queste manifestazioni siano l’inizio di una “primavera bosniaca”. La nozione di primavera bosniaca si sta in effetti diffondendo. Anche Danis Tanović, il noto regista bosniaco premio Oscar per il film “No man’s land”, ha postato su Instagram un breve messaggio che dichiara l’arrivo della primavera. È ancora presto tuttavia per dire se questa esplosione di rabbia verrà ricondotta ai recinti etnici che hanno dominato la politica della Bosnia Erzegovina negli ultimi 20 anni, oppure se stiamo davvero assistendo ad un cambiamento. Altri movimenti che avevano fatto sperare in un’evoluzione del dibattito politico bosniaco, fermo alle categorie imposte dai nazionalisti nella guerra degli anni ’90, sono rapidamente scomparsi dalla scena pubblica. È stato questo il caso ad esempio della cosiddetta “bebolucija”, la protesta diretta l’anno scorso contro la classe politica per la sua incapacità di tutelare i diritti dei nuovi nati, o di altri movimenti affacciatisi alla scena negli anni precedenti, come quello nato a seguito dell’uccisione di Denis, uno studente, avvenuta a Sarajevo nel 2008, o di Vedran, tifoso dell’FK Sarajevo, avvenuta a Široki Brijeg. In quel caso, però, si trattava di movimenti per lo più urbani, con una forte connotazione sarajevese. Ora tutto il Paese sembra in rivolta, e la rabbia più forte.
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La Ue: «Truppe contro le rivolte»
Andrea Oskari Rossini
www.ilmanifesto.it
In Bosnia Erzegovina (BiH) le mobilitazioni sono continuate in tutto il fine settimana e nella giornata di ieri, nonostante le dimissioni dei primi ministri dei cantoni di Tuzla, Sarajevo, Mostar e Bihac, del responsabile della sicurezza nella capitale, Himzo Selimovic, e il rilascio della maggior parte dei dimostranti arrestati nei giorni scorsi. La rivolta innescata dai lavoratori di alcune fabbriche privatizzate di Tuzla, che venerdì è culminata in una giornata di scontri con la polizia e nella distruzione di edifici governativi in alcune delle maggiori città del paese, si è però trasformata per il momento in una serie di sit-in e di presìdi pacifici davanti alle principali sedi delle istituzioni.
L’atmosfera sembra essere quella di una calma densa di aspettative, e nessun commentatore si sbilancia nel fare previsioni su quali potrebbero essere gli sviluppi dell’esplosione di rabbia manifestatasi la scorsa settimana.
Il presidente della Federazione di Bosnia Erzergovina, una delle due entità che compongono il paese, Zivko Budimir, ha dichiarato che «i politici hanno inteso la voce della gente forte e chiaro», ma che la violenza deve cessare. Sulla stessa linea le dichiarazioni di Bakir Izetbegovic, uno dei tre presidenti della BiH, e di Zlatko Lagumdzija, ministro degli Esteri. Secondo quest’ultimo, «il comprensibile malessere della popolazione è stato manipolato da gruppi che hanno l’obiettivo di distruggere [il paese, ndr]».
I politici sembrano in generale concordi nell’indicare gruppi di hooligan come responsabili di quanto avvenuto nei giorni scorsi, e nel tentare di unire la popolazione nella condanna della violenza, e quindi delle proteste. Alcuni hanno persino paragonato i manifestanti di venerdì a Sarajevo con gli aggressori della città negli anni della guerra. Aldin Arnautovic, sul portale di informazione Birn, ha però messo in rilievo come questo paragone equivalga di fatto a preparare il terreno per il linciaggio dei dimostranti. Allo stesso modo ha commentato su Radio Sarajevo anche Mile Stoijc, noto giornalista locale, sostenendo che «gli hooligan si trovano nelle strutture del potere», mentre coloro che hanno partecipato agli scontri rappresentano la generazione «di quelli che sono nati durante la guerra, in povertà e senza speranza, cresciuti in un ambiente sciovinista, di odio, xenofobia e di miseria materiale e spirituale, e che oggi cercano di portare l’attenzione sulla propria esistenza in questo modo, perché non hanno altri mezzi».
Le dichiarazioni dell’Alto Rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina, Valentin Inzko, secondo cui «se la situazione peggiorasse dovremmo ricorrere all’invio di truppe dell’Unione europea», non hanno contribuito a disinnescare la tensione di questi giorni. Anche perché il quadro regionale è – se possibile – ancora più torbido di quello interno.
Domenica il vice presidente del governo serbo Aleksandar Vucic si è incontrato con i leader serbo bosniaci Milorad Dodik e Mladen Bosic, per discutere gli sviluppi della crisi in Bosnia Erzegovina. Dodik, presidente dell’entità bosniaca a maggioranza serba, la Republika Srpska (Rs), ha dichiarato che l’obiettivo delle proteste è «destabilizzare la Rs per provocare l’intervento della comunità internazionale nelle vicende del paese», e che «il caos nella Federazione […]mostra che la BiH non può sopravvivere alle sfide interne e che non funziona».
Il primo ministro della Croazia, Zoran Milanovic, si è invece recato a Mostar, dichiarando di voler «calmare la situazione». La visita è stata però criticata da Zeljko Komšic, uno dei tre presidenti della Bosnia Erzegovina, secondo cui il premier croato sarebbe dovuto andare a Sarajevo. Interrogato sul perché non si fosse recato nella capitale, Milanovic ha risposto che Mostar «è più vicina» alla Croazia.
A Mostar, però, città bosniaca oggi a maggioranza croata, le sirene della divisione etnica non sembrano per il momento attecchire. Nei giorni scorsi i dimostranti, oltre all’edificio del governo, hanno attaccato sia la sede del partito croato Hdz che del bosniaco musulmano Ssa. Un giovane mostarino, Teo Grancic, ha scritto un articolo che sta avendo molto successo in rete spiegando che le proteste di Mostar «non le hanno fatte i musulmani, né gli hooligan, né gli anarchici, né gente pagata per farlo. Le ha fatte il popolo».
Sui muri di Tuzla, nei primi giorni delle proteste, gli operai hanno scritto «Dimissioni! Morte al nazionalismo!» Per il momento, nessuno è riuscito a mettere il cappello etnico ai dimostranti. Al contrario, solidarietà ai manifestanti bosniaci è arrivata anche da Belgrado, dove ieri si è svolta una manifestazione cui hanno partecipato alcune centinaia di persone, convocate semplicemente su Facebook da un gruppo denominato “Sostegno dalla Serbia alla gente di Tuzla”. Nella convocazione si scrive che «la migliore solidarietà che possiamo mostrare è organizzarci anche noi contro il furto delle risorse della gente che continua da ormai 20 anni, attraverso guerre e privatizzazioni».