Diritto di asilo: dalla storia vera alla storia giusta
Michele Manocchi
www.vociprotestanti.it
Quale partecipazione alla vita democratica, quali reali possibilità di contribuire al bene comune ha un migrante rifugiato che si è visto faticosamente riconoscere il diritto di asilo? Michele Manocchi (ricercatore sociale, si occupa di valutazione di progetti rivolti ai rifugiati), volontario dell’associazione Mosaico-Azioni per i rifugiati, in questa testimonianza descrive il difficile percorso di un richiedente asilo che deve raccontare la sua storia a una Commissione dovendola convincere della bontà della sua richiesta. Le immagini che corredano il testo sono a cura del Progetto Scambiamente.
Dal 2007 mi occupo di immigrazione e diritto d’asilo, due temi che si prestano bene a indagare le difficoltà di reale partecipazione che gli immigrati hanno nel nostro Paese. Nella mia attività di valutazione di progetti rivolti ai rifugiati, così come nel corso delle ricerche che ho svolto soprattutto nel campo del welfare, ciò che osservo con particolare attenzione sono i processi decisionali, in quanto in essi è possibile vedere all’opera i criteri e i valori in gioco di contesto in contesto e le forme di discussione e partecipazione.
Prendiamo il caso del sistema di accoglienza e supporto pensato per richiedenti asilo e rifugiati. Queste persone subiscono innumerevoli processi di etichettatura durante il loro percorso, che parte con una fuga dal proprio Paese, più o meno organizzata e più o meno rocambolesca, e che termina, si fa per dire, con l’approdo in Italia e la richiesta d’asilo. Ogni persona, organizzazione, istituzione che in qualche modo entra in contatto con loro produce delle etichette con cui definirli: i trafficanti di persone, le Ong, le forze militari e di polizia non solo europee ma di ciascuno dei Paesi che esse attraversano, e poi i volontari, i medici, gli educatori e operatori sociali qui in Italia. Ciascuna di queste figure ha una sua idea della persona che ha di fronte, creata a partire spesso da preconcetti, se non veri e propri pregiudizi, anche positivi (altrettanto pericolosi che quelli negativi), che fanno da base alle esperienze dirette che poi si possono avere, e che magari sono in grado di ridimensionare, ridare forma a quanto si pensava in precedenza.
In nessuno di questi incontri, processi, relazioni, la persona rifugiata è messa nelle condizioni di potersi esprimere liberamente, contribuire, da parte sua e alla pari con gli altri, alla costruzione della realtà che prende forma sotto i suoi occhi, protestare contro le etichette che gli vengono appioppate.
Facciamo qualche esempio, per spiegare meglio queste affermazioni. Il richiedente o la richiedente asilo deve passare il vaglio di speciali Commissioni al fine di ottenere un permesso di soggiorno. Questa procedura, che è legittima, in quanto ogni Paese ha tutto il diritto di controllare chi vi vuole entrare, è però ricca di insidie per la persona umana-richiedente asilo. Sulla carta, il colloquio con questa Commissione dovrebbe aiutare il richiedente a raccontare i “fatti” accaduti affinché il commissario abbia gli elementi di giudizio necessari. Ciò che accade, invece, è che il richiedente deve imparare, grazie all’aiuto di altri rifugiati già passati per la Commissione, o di qualche operatore sociale, a raccontare la “storia giusta”.
Infatti, i racconti dei richiedenti asilo che ho intervistato in questi anni, e le molte testimonianze di operatori sociali e di membri delle Commissioni, parlano di commissari poco preparati, tempi del colloquio contingentati, interviste che sembrano interrogatori pensati per cogliere in fallo il richiedente asilo anziché aiutarlo ad esprimersi liberamente.
Spesso i richiedenti asilo hanno avuto esperienze che un essere umano “normale” non solo non ha vissuto, ma non è neanche in grado di immaginare davvero.
Il dolore e la sofferenza che raccontano queste persone non è realmente comprensibile. Ci si ritrova a ricevere questi racconti dolorosi, fatti di perdita di persone care, abbandono forzato della propria famiglia e del proprio Paese, con la presenza costante della morte (tra i compagni di viaggio), e nei casi più drammatici con racconti di torture, incarcerazioni violente, abusi sessuali. Ma ricordare non è semplicemente una questione di memoria, un tecnicismo che lo Stato, attraverso la Commissione, pretende che venga affrontato con precisione dal richiedente asilo, perché si ha bisogno di tutte le informazioni. Ricordare significa costringere le persone a raccontare, e spesso a raccontarsi per la prima volta, a fare mente locale, su esperienze così dolorose da risultare spesso inesprimibili e anche incomprensibili. Non solo. Ricordare forzatamente significa anche non lasciarsi il tempo di dare un senso alle cose, ma dover trovare subito dei significati che tra l’altro siano comprensibili da persone di un’altra cultura, con le quali non si condivide quasi nulla, che appartengono ad un altro mondo e hanno altri punti e valori di riferimento.
Il richiedente asilo ha alcune decine di minuti per produrre una storia convincente, coerente sia al proprio interno sia con i fatti storico-politici del proprio Paese, e che ricada nei criteri stabiliti dalla legge italiana, che ricalca la Convenzione di Ginevra del 1951, secondo la quale il richiedente asilo è lo straniero che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese».
La difficoltà del ricordare diventa allora dolore del ricordo, e spesso anche vergogna del ricordo, vergogna per quando si è dovuto subire ed ora si è costretti a riportare, ma anche un senso di vergogna che deriva dall’essersi trovati in situazioni disumane, perpetrate da propri simili, e magari esservi sopravvissuti laddove compagni, amici, fratelli, sono periti.
Ora, tutti questi elementi appena citati non costituirebbero un problema nell’ambito di una relazione terapeutica, anzi ne sarebbero la ragione e il fulcro.
Ma il colloquio con le Commissioni non ha natura terapeutica ma amministrativa, in quanto i commissari devono decidere se concedere o meno un permesso di soggiorno al richiedente, e non aiutarlo ad affrontare il proprio recente passato. Si aggiunga – elemento davvero importante – che le Commissioni italiane sono di nomina ministeriale (Ministero dell’Interno) e sono composte da un funzionario della carriera prefettizia, con funzioni di presidente; un funzionario della Polizia di Stato; un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato-città e autonomie locali e un rappresentante dell’Unhcr (Alto Commissariato delle nazioni Unite per i Rifugiati). A parte quest’ultima, le altre sono persone che potrebbero non essersi mai occupate di richiedenti asilo, ed essere state assegnate, spesso anche in qualità di vicari, a questo ruolo. E la formazione che ricevono è, a detta degli stessi commissari, del tutto insufficiente, sia su come si conduce un colloquio di questo tipo, sia sulle situazioni dei Paesi di origine dei richiedenti asilo.
Questa profonda impreparazione di alcuni commissari, che io ho potuto testare troppe volte vedendo i risultati prodotti sui richiedenti asilo ascoltati, è uno dei problemi più profondi e al contempo nascosti di questo processo, in grado di procurare ulteriore sofferenza al richiedente e anche di produrre situazioni di vera e propria violazione dei diritti della persona.
Visto quanto appena illustrato, i richiedenti asilo entrano in un processo dove le figure degli altri rifugiati e degli operatori sociali diventano preminenti. Queste persone, infatti, possono sostenere il richiedente, aiutarlo, e se egli ha trovato posto in qualche progetto di prima accoglienza o addirittura nello Sprar (il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati di cui l’Italia si è dotata a partire dai primi anni del 2000, e che è sempre risultato sottodimensionato rispetto alle reali esigenze), costituiscono il suo principale punto di riferimento.
Queste figure guidano il richiedente verso il colloquio, aiutandolo a capire in quale situazione si troverà, e dunque anche aiutandolo, da una parte, a ricostruire la propria storia e, dall’altra, a modellarla affinché sia coerente con le richieste della Commissione e soprattutto eviti gli aspetti che invece potrebbero rilevarsi controproducenti. Ad esempio, se si dice che a causa della guerra, si è perso tutto e non si ha più di che sostentarsi nel proprio Paese, si rischia di dare la possibilità alla Commissione di giudicare il caso come “classico migrante economico” e non come “richiedente asilo” (vedete ancora la potenza e al contempo l’ottusità delle etichette che, pure, utilizziamo tutti i giorni in ogni nostra esperienza e relazione). Questo processo di “educazione” del richiedente asilo ha però come rischio il fatto che le storie potrebbero appiattirsi tutte su alcuni elementi standard che si ritengono utili al fine dell’ottenimento del permesso di soggiorno, lasciando da parte non solo gli altri avvenimenti occorsi al richiedente ma anche, cosa ancora più grave, le sue interpretazioni di tali fatti. Sono numerosi i casi di richiedenti asilo nigeriane respinte dalle Commissioni perché il racconto è basato sulla paura di essere uccise, all’eventuale ritorno in patria, per stregoneria.
Questo elemento non è contemplato dalla Convenzione di Ginevra e non rientra nell’attuale orizzonte valoriale dell’Occidente. Dunque, se le donne nigeriane lo utilizzano, rischiano il diniego, e quindi gli operatori consigliano loro o di cambiare storia, o di omettere questo particolare – ad esempio se sono presenti altri avvenimenti che da soli sono in grado di giustificare la richiesta d’asilo – o addirittura di cambiare percorso amministrativo e denunciarsi come vittime della tratta di esseri umani. Tutto questo produce quel passaggio dalla “storia vera”, irrecuperabile, incomprensibile, inafferrabile, alla “storia giusta”, pulita, lineare, circostanziata, coerente.
In tutto questo processo, la voce del richiedente asilo è mediata, rimodulata, soffocata, assente, e potremmo spingerci a dire sostituita, perché ciò che egli dirà in Commissione probabilmente è qualcosa che non avrebbe mai detto e che mai più dirà in situazioni più accoglienti.
E questa esclusione della sua voce, questo non ascolto delle sue aspettative, richieste, bisogni, non finisce con l’ottenimento di un permesso di soggiorno, in quanto spesso continua con l’ingresso nei programmi di accoglienza.
Il risultato di tutto quello che qui ho sommariamente accennato, è l’appiattimento dell’identità dell’essere umano sul solo ruolo che i sistemi di accoglienza riescono a contemplare, ovvero quello di richiedente asilo e la conseguente creazione di storie giuste da parte di quest’ultimo, che impara ad adeguarsi e a conformarsi alle richieste che riceve, pena l’esclusione da qualsiasi forma di supporto. Alcuni rifugiati tentano delle forme di affermazione del sé, delle strategie per fronteggiare questa situazione all’interno della quale sentono di perdere il controllo e di mettere a repentaglio il loro equilibrio identitario, anche con forme estreme come le occupazioni di stabili abbandonati.
Ma queste azioni sono spesso destinate a fallire, perché non riescono a procurare quegli spazi, quelle spinte di cui essi sentono di avere bisogno, allontanandoli dai loro originali obiettivi. E anzi molte di tali azioni rischiano di creare maggiore sofferenza, perché a volte devono necessariamente percorrere vie considerate illegali, come accade quando una madre rifugiata che ha ottenuto il ricongiungimento familiare di uno dei suoi figli lo fa arrivare regolarmente in Italia ma poi lo affida a qualche trafficante di persone per spedirlo in Paesi dove l’accoglienza funziona meglio.
Tutto ciò è ben noto alle istituzioni e agli operatori pubblici, ma è evidente la mancanza di volontà politica di affrontare questo tema, forse in parte perché riguarda una percentuale esigua di popolazione, forse perché riguarda persone che non hanno il diritto di voto, e dunque non sono elettoralmente interessanti, forse perché in Italia siamo ancora in un’epoca dove chi alza più la voce, chi riesce a pagare i migliori avvocati, chi ha il potere di piegare i palinsesti televisivi al suo volere, riesce a ottenere cose che non sono previste nelle nostre leggi, o addirittura a farla franca nonostante le schiaccianti prove di comportamenti illegali, e i rifugiati non hanno certo questo livello di potere.