L’indignazione non basta più
Livio Pepino e Marco Revelli
www.micromega.net
C’è, nel Paese, un’anomalia. L’indignazione è maggioranza, schiacciante maggioranza. Basta vedere l’andamento del voto nelle ultime tornate elettorali. Ancor più, è sufficiente passeggiare in un mercato e viaggiare su tram o treni. Eppure quell’indignazione non conta nulla a livello istituzionale. Oppure veicola movimenti populisti e pieni di contraddizioni. Così cresce il rischio che l’indignazione si chiuda in se stessa e produca sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità.
Crescono nel Paese i poveri. A dismisura. Nel 2012 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni 814mila, pari al 7,9 per cento della popolazione (mentre nel 2011 erano 3,415 milioni pari al 5,2 per cento). E sono ben 9 milioni e 563mila, pari al 15,8 per cento della popolazione, le persone in condizione di povertà relativa, cioè con una disponibilità inferiore a 506 euro mensili. Senza contare l’area della “deprivazione” o della “vulnerabilità”, pari al 41,7 per cento degli uomini e delle donne, non in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno. E cresce, ancor più, la disuguaglianza. Basterebbe. Ma c’è di più. Il di più è il degrado morale e istituzionale – insolente, a dir poco – che accompagna la crisi economica, producendo una vera e propria corruzione del sistema. I guasti riguardano, anzitutto, l’assetto etico del Paese. Sono stati “sdoganati” comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni. È stato autorevolmente autorizzato l’inaccettabile per qualunque comunità civile, come se l’appartenere al circolo magico del potere permettesse tutto. È stata cancellata – neutralizzata, assimilata, condivisa – l’anomalia italiana costituita dalla persona di Silvio Berlusconi, dalla sua trasgressione di tutti i caratteri di virtù pubblica e privata. E per questa via è stata sancita l’ammissibilità della compravendita dei corpi e delle menti, della frode e dell’evasione fiscale, dell’ostentazione del privilegio e della pratica del «non sa chi sono io», della menzogna sistematica e della falsificazione dei fatti.
Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale. E, invece, ci tocca assistere allo spettacolo deprimente dell’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una comune maggioranza di governo. Si colloca qui il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino della “sinistra” e in particolare del Pd. In realtà la mutazione genetica in atto nel Partito democratico sta modificando (ha ormai modificato) il quadro delle culture politiche italiane. Senza considerare lo spettacolo meno nobile della corsa a ricollocarsi, spartirsi le potenziali cariche, riconquistare posizioni perdute, consumare vendette antiche e recenti, mutare amicizie… Può non piacere – e non piace – ma questo è il Pd reale, non quello immaginario dei falsi realisti che aspettano ogni volta un “segno” di una sua rinata identità di sinistra.
La nascita del governo delle “larghe intese” poi, lungi dal garantire stabilità, ha dato vita a un meccanismo auto-dissolutivo, istituzionalizzato l’instabilità e facendone un carattere strutturale del nostro sistema politico. Ma tensioni e instabilità sono determinati essenzialmente da questioni di superficie e di spartizione del potere. Nel profondo, l’abbraccio apparentemente innaturale delle “larghe intese” è il suggello di un pensiero unico che attraversa le forze politiche dominanti, traducendosi persino in gesti e parole indistinguibili: nell’ossequio cieco e acritico all’Europa dei mercati, nel tentativo di esorcizzare il conflitto sociale (fino ad evocare irresponsabilmente, con il supporto di improbabili maîtres à penser, i fantasmi del terrorismo) e finanche nel disegno di stravolgere la Costituzione, servendosi a tal fine di una inammissibile modifica dell’articolo 138, cioè della norma di chiusura che dovrebbe garantirci – tutti – contro i colpi di mano di aggregazioni corsare…
Tutto ciò è chiaro da tempo, ma – sino ad oggi – non ha trovato interpreti e soggetti capaci di raccogliere l’indignazione e di modificare la realtà. Non per mancanza di idee o di progetti, che, anzi, sono stati oggetto di molte significative elaborazioni. E neppure per carenza di risorse umane e personali, ché forse mai come nell’ultimo decennio c’è stato un fiorire di iniziative settoriali, movimenti, associazioni anche di grande respiro. Quel che è mancato è stata la capacità di costruire un soggetto (nuovo, plurale, partecipato) in grado di raccogliere consenso e di proporsi, anche nei luoghi della rappresentanza, come veicolo di cambiamento. Nel bacino degli indignati chi non ha scelto l’autoemarginazione si è mosso, sul piano elettorale e dell’organizzazione della rappresentanza, riproponendo metodi logori e perdenti. Le ultime consultazioni elettorali sono state univoche e senza appello. La sommatoria di vecchi soggetti politici della sinistra (con o senza rinforzi) è un’operazione perdente e impresentabile in sé, a prescindere dai programmi. E c’è di più. Il voto – con la ripetuta sconfitta dell’intero arco della sinistra, pur in situazioni spesso favorevoli – ha messo a nudo la fine (probabilmente irreversibile, per lo meno nel modo con cui esso è stato declinato nel Novecento) del termine “sinistra”, con quanto esso evoca, come elemento di aggregazione, convincimento, mobilitazione. Restano validi e addirittura rafforzati – almeno per noi – i contenuti fondamentali che in tale termine si sono condensati negli anni, ma senza modi nuovi per veicolarli rischiano di essere travolti.
Che fare, dunque?
Per ricominciare – come sempre è accaduto nei momenti cruciali della storia – bisogna prima finire. Inutile pensare a una rigenerazione di questo sistema. Il fatto è che un reale cambiamento deve passare attraverso una profonda discontinuità di prassi e comportamenti. Il punto fondamentale è ormai chiaro: chi fa la politica? i cittadini, singoli e organizzati nella rete di movimenti, associazioni, comitati che animano il quotidiano e i territori? o un ceto politico professionale, investito di una ampia delega, che trae la sua legittimazione da una sperimentata capacità tecnica (sic!)? Per chi sceglie la prima opzione – e non può non essere così nella nostra prospettiva – c’è un corollario. Non solo i partiti tradizionali ma la stessa forma partito, così come la conosciamo, è superata, finita, travolta dagli eventi (pur essendo stata – meritoriamente – l’asse portante dello sviluppo della democrazia del dopoguerra). E quel che è finito non si può resuscitare. Occorrono forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dal basso dei sistemi della rappresentanza. Senza una rifondazione profonda – inutile illudersi e illudere – è finita anche la sinistra. Anche perché le indicazioni programmatiche, se non sorrette da un reale radicamento sociale e da adeguate garanzie personali, rischiano di restare dei “pezzi di carta”.
* questo testo costituisce l’introduzione al libro collettivo “Grammatica dell’indignazione” (Edizioni Gruppo Abele) in questi giorni in libreria
Economia – Allarme della London School of Economics: “Non rimarrà nulla dell’Italia”
Roberto Orsi
affaritaliani.it
Nel giro di 10 anni del nostro Paese non rimarrà più nulla. O quasi. E’ la conclusione catastrofica cui giunge nella sua analisi il professore Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science (LSE). Che cosa ci sta portando alla dissoluzione e all’irrilevanza economica? Una classe politica miope che non sa fare altro che aumentare le tasse in nome della stabilità. Monti ha fatto così. E Letta sta seguendo l’esempio. Il tutto unito a una “terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa”.
L’ANALISI DI ORSI
“Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà.
Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo. Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione.
Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce. Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori.
La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza , l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa.
L’Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell’UE e uno dei più alti al mondo. Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese. Non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale: un grande flusso di aziende italiane si riversa nella vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli. A un recente evento organizzato dalla città svizzera di Chiasso per illustrare le opportunità di investimento nel Canton Ticino hanno partecipato ben 250 imprenditori italiani.
La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. Coloro che producono valore, insieme alla maggior parte delle persone istruite è in partenza, pensa di andar via, o vorrebbe emigrare. L’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri Paesi più organizzati che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente, addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia.
L’Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi – collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale.
L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi. L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia.
In conclusione, la rapidità del declino è davvero mozzafiato. Continuando su questa strada, in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna. Entro un altro decennio, o giù di lì, intere regioni, come la Sardegna o Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare.
I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il Paese aveva occupato solo nel tardo Medio Evo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità. A meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia.”