Siria: tentativi di pulizia etnica contro i curdi
Gianni Sartori
www.riforma.it
Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, è di oltre trentamila il «fiume umano» di curdi in fuga dalla Siria verso il Kurdistan come diretta conseguenza degli scontri tra milizie islamiste e combattenti curdi dei Comitati di protezione del popolo curdo (Ypg, ala militare del Patiya yekitiya democrat, Partito unione democratica curda); la causa primaria sta tuttavia nei rapimenti e nei massacri di civili operati dai gruppi fondamentalisti legati ad Al Qaida: in particolare, Jabhat Al-Nusrah (Fronte Al-Nosra, del cui leader, Mohammed Al-Jawlani, si racconta sia legato all’intelligence turca e alla Cia) e una formazione da qualche tempo molto attiva nel nord della Siria, il cosiddetto Emirato islamico in Iraq e Levante di origine irachena.
Il conflitto aperto tra curdi e milizie integraliste arabo-sunnite, ripreso verso la metà luglio del corrente anno, aveva conosciuto un’ulteriore accelerazione il 31 luglio quando più di 200 civili curdi, in gran parte donne e bambini, erano stati presi in ostaggio nei villaggi di Tall Haen e Tall Hassel, nella provincia di Aleppo. Il rapimento di massa era apparso una ritorsione per le recenti sconfitte inflitte all’Emirato islamico in Iraq e Levante dalla resistenza curda nella zona di Ras Al-Ain. Secondo fonti curde, «i rapiti provenivano dalle famiglie dei soldati curdi delle brigate che in precedenza facevano parte dell’opposizione dell’Esercito libero siriano e avevano poi disertato per integrarsi nelle forze di autodifesa curde».
Secondo alcuni osservatori, «nel nord della Siria è ormai in corso la prevista campagna di agosto e settembre con cui si tenta di far instaurare una no-fly zone, corridoi umanitari e, infine, l’intervento militare». A farne le spese, soprattutto i civili curdi. Infatti, in agosto, il presidente del Kurdistan iracheno, Massud Barzani, ha invocato un’inchiesta internazionale mettendo in guardia i paesi coinvolti nel conflitto siriano, in particolare la Turchia, che «se cittadini innocenti, donne e bambini curdi risultassero sotto minaccia di morte e terrorismo, la regione del Kurdistan irachena sarà pronta a difenderli».
Il Kurdistan siriano è composto sostanzialmente da tre enclave attualmente non comunicanti: la regione di Afrin (nord ovest di Aleppo), alcuni territori sotto la città turca di Urfa (Ras Al-Ain, Amude, Hassaké) e Djezireh dove sorge Kameshli, da Damasco considerata «città strategica». In Siria i curdi costituiscono il 10% della popolazione e sono concentrati soprattutto nella regione di Jezireh. Consapevole di non poter combattere contemporaneamente su troppi fronti, all’inizio del 2012 Bachar Al-Assad è corso ai ripari restituendo la nazionalità siriana a quei 60. 000 curdi che ne erano stati privati nel corso degli anni sessanta in ritorsione alle loro richieste autonomiste. Inoltre, in cambio della garanzia che avrebbe mantenuto l’ordine nella regione, l’ufficialmente illegale Pyd ha avuto la possibilità di realizzare un’embrionale forma di autonomia.
Dal luglio 2012, con il tacito accordo del governo di Damasco impegnato a riconquistare le grandi città, i curdi controllano almeno sei centri abitati nella zona di frontiera con la Turchia: Ain Al-Arab (Kobani), Amuda, Afrin, Dirbassyé, Til Temur, Derik. Anche Qamishli, Hassaka, Tirbaspi sono amministrate di fatto dai curdi dove, limitatamente all’interno delle caserme, è ancora presente l’esercito lealista siriano. (…)
Nel maggio 2013 il conflitto tra islamisti e curdi è stato innescato dalla katiba jihadista Liwa Al-Tawhidi legata ai Fratelli musulmani, che aveva occupato il villaggio curdo di Aqaiba allo scopo di impedire agli abitanti del villaggio sciita di Nubel di sfuggire all’assedio posto dai ribelli anti-Assad. All’opposto, i combattenti dell’Ypg consentivano agli sfollati di transitare liberamente verso zone più sicure. In luglio i curdi, organizzati in milizie di autodifesa, sono riusciti a estromettere dal nord-est della Siria i gruppi legati ad Al-Qaida, ma in agosto i fondamentalisti sono tornati all’attacco riorganizzati e riforniti di armi. Il 5 agosto Jabhat Al-Nusrah ha quindi colpito nel distretto di Tal Abya, governatorato di Raqqa, che è area curda ricca di petrolio.
Secondo l’agenzia Itar-Tass (che ha diffuso immagini agghiaccianti e ha intervistato alcuni curdi sfuggiti al massacro) nel corso dell’attacco sono stati uccisi circa 400 civili, compresi donne, anziani e bambini. Le milizie islamiste avrebbero operato come veri e propri squadroni della morte anti-curdi. È possibile che l’attacco sia un effetto collaterale della decisione dell’Unione europea, dell’aprile 2013, di «revocare il divieto di importare il petrolio siriano dai territori controllati dai ribelli». Un modo, questo, per finanziare indirettamente l’opposizione senza aver fatto i conti con le conseguenze che ricadono sulla popolazione curda.
Per Charles Lister e Jeremy Binnie (analisti della rivista IHS Janè Defence Weekly – Terrorism and Insurgency Centre, ritenuta «fonte autorevole» sia da Le Monde sia dalla Cnn) «ogni grande offensiva del 2013 nel nord della Siria è stata annunciata, guidata e coordinata dagli islamisti».
Non di rado conflittuali sono anche i rapporti tra gli islamisti e l’Esercito libero siriano. In luglio, un esponente di Emirato islamico in Iraq e Levante aveva assassinato Abu Bassir, noto dirigente della ribellione contro Assad, sollevando le proteste dell’Esl. Il 10 agosto si sono registrati scontri tra islamisti e Esl per il controllo dei depositi di alcuni zuccherifici nella provincia di Al-Raqqa e nella zona dei giacimenti petroliferi di Deir Al-Zor.
È assai probabile che sia opera dell’Emirato islamico in Iraq e Levante anche la quasi contemporanea uccisione del leader curdo e co-fondatore del Pyd, Issa Huso. Nei mesi scorsi Issa Huso, incaricato dei rapporti con gli Esteri per conto del Consiglio supremo curdo, che riunisce tutte le formazioni politiche curde in Siria, aveva criticato duramente le azioni dei fondamentalisti. Secondo altre fonti, l’attentato di fine luglio a Kamechliyé in cui Issa Huso ha perso la vita, potrebbe essere stato realizzato dai servizi segreti siriani per contrastare il recente avvicinamento tra i curdi di Siria e Ankara. Un avvicinamento dovuto alle pressioni del Pkk ormai in pieno «processo di pace».
Nei primi tempi della ribellione siriana la posizione del Pyd era stata di assoluta neutralità (qui vivono sia curdi sunniti che sciiti e alawiti, così come curdi non-islamici) e solo nel marzo 2013 si è registrata la rottura con Damasco, ferma restando la sostanziale diffidenza che le formazioni curde mantengono nei confronti degli arabi, indipendentemente dalla loro collocazione pro o contro Assad. Dopo l’uccisione di Issa Huso, il Pyd aveva chiamato a raccolta le altre formazioni curde per combattere unitariamente contro i fondamentalisti, chiedendo «al popolo curdo un passo avanti. Chiunque sia armato deve entrare nelle fila dei Comitati per la tutela del popolo curdo (Ypg) e affrontare gli assalti di questi gruppi armati».
Si ritiene che scopo del viaggio nel nord della Siria di padre Paolo dall’Oglio, fino a pochi giorni prima nel Kurdistan iracheno, fosse quello di trattare per la liberazione degli ostaggi e impedire l’ulteriore inasprimento del conflitto tra milizie islamiche e combattenti curdi. Il gesuita si era recato a Rakka nel nord-est della Siria, una cittadina sotto il controllo di Emirato islamico in Iraq e Levante e della brigata Ahrar Al-Cham. Qui i gruppi islamisti avrebbero operato molte esecuzioni pubbliche di presunti «traditori» ed eliminato anche i membri del Consiglio locale eletto dopo la partenza dell’esercito siriano da Rakka.
1944-2014: a settanta anni di distanza, un ricordo di
SARA CHE NON VOLEVA MORIRE…
(Gianni Sartori)
Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono…
Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
Il tragitto dei 43 Ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto.
Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri di Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e, questo l’ho saputo solo recentemente, venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (in alcuni scritti viene definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Sembra anche che la madre riuscisse a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Purtroppo invano. Sara venne immediatamente ripresa dagli sgherri nazifascisti.
In Polonia la maggior parte dei 47 deportati (tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944.
La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.
Gianni Sartori (settembre 2014)