Commento letture domenica 2 giugno gruppo Marconi – Cdb SanPaolo
Nota previa: Il gruppo “Marconi”, ha scelto di concentrare la riflessione sul brano della Lettera di Paolo ai Corinzi ampliando, però, la lettura dal v. 17 “ Non posso lodarvi per il fatto che nelle vostre riunioni…” fino al v. 26. Subito dopo la lettera di Paolo è stato aggiunta la lettura di un brano del vescovo Tonino Bello “ContemplATTIVI”. In chiusura degli interventi è stato letto un brano di Ignazio Silone dal suo romanzo : Vin e Pane.
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PAOLO, dopo Atene va a CORINTO , città snodo strategico di commerci e religioni, non meno arrogante e sicura di sé dei sapienti di Atene.
Sta a Corinto circa un anno e mezzo , poi continua il suo cammino instancabile e scrive loro la prima lettera …..lo avevano nel frattempo raggiunte notizie sulla comunità, molto negative.
In questa prima lettera ai Corinzi, c’è anche la prima versione della cena del Signore ( circa 30 anni prima dei vangeli di Marco, Matteo e Luca ).
Dopo aver riportato – in modo molto sobrio- gli elementi essenziali dello svolgimento della cena pasquale, come gli erano stati trasmessi, aggiunge – di suo!- questa valutazione di fondo: ogni volta che mangiamo di questo pane e e beviamo a questo calice annunciamo la morte del Signore, FINCHE’ EGLI VENGA.
“HO RICEVUTO E A MIA VOLTA VI HO TRASMESSO”: questo incipit denota una sorta di voluta “solennità”: indica che Paolo NON sta per raccontare una melanconica CENA TRA AMICI (l’ultima) , MA intende mettere i suoi lettori di fronte ALLA ESSENZIALE E FONDAMENTALE VICENDA STORICA fondante la comunità dei seguaci di Cristo.
E non siamo neppure soltanto di fronte ad un incontro tra fratelli e sorelle di destino (certo è anche questo: perciò è particolarmente odioso dividersi tra chi mangia a crepapelle e si ubriaca e chi resta con la fame con cui era venuto alla riunione e che nella fame resterà anche dopo il pasto comunitario )
Questo andazzo per Paolo era insopportabile, ma lo dice con una forza ed una terminologia inattese: GETTA RE DISPREZZO SULLA CHIESA DI DIO. Perché Paolo usa questo termine , che a prima vista appare un fuori tema?
E’ una sorta di iperbole oppure è una espressione che evoca un pensiero più profondo?
Quel ritrovarsi insieme – alla pari, tra simili, spogli di sicurezze e di varie sazietà (ed è in questa volontaria e consapevole privazione che viene annunciata la morte del maestro!) – (proprio questo ritrovarsi insieme ) ERA e Continua ad essere costantemente ATTO FONDATIVO della “ CHIESA” di Dio.
Abbiamo dunque a che fare con un pensiero nuovo.
Questo convenire insieme – e sono assolutamente secondari i modi e le forme che nella vicenda storica esso assume via via , nelle differenti “chiese”, fino alla nostra comunità di base in Roma – era e resta il luogo e l’ora : DOVE DUE o PIU’ RIUNITI E RIUNITE NEL MIO NOME , IO SONO in mezzo a loro.
Nei testi antichissimi della comunità dei cristiani era “normale” scriversi con questi termini: “La chiesa di Dio che soggiorna a Roma, alla chiesa di Dio che soggiorna a Corinto…a Tessalonica..a Gerusalemme…” (e viceversa, naturalmente).
E non si trattava di letteratura! (tra parentesi, il termine greco tradotto con “soggiorna” è paroikusa…..da cui parrocchia… che indica una dimora provvisoria propria dell’esiliato……C’è da restare un poco interdetti : costoro non facevano letteratura …ma avevano creato un vocabolario nuovo per esprimere una radicale (seppure e felicemente minoritaria!) novità di pensiero!!!
Per Paolo di Tarso, Eucarestia e Ecclesia – insieme e inestricabilmente congiunte – sono come il GRANDE TEATRO E DRAMMA del TEMPO che vivono i seguaci di Gesù, fino al suo ritorno.
Un “evento” che si svolge essenzialmente fuori dal Tempio E CHE ESSENDO UN PASTO (non un sacrificio) è di fatto a-religioso.
Quando scrive ai Corinzi, Paolo – avendo ormai da tempo alle spalle la iniziale, entusiastica attesa di un imminente ritorno di Cristo (utopia con cui Paolo aveva dovuto e voluto fare i conti nella seconda lettera ai Tessalonicesi – scritta tra il 50 e il 52..guarda caso proprio mentre sta a Corinto – ha pensato ed elaborato una forte e ben strutturata concezione del tempo.
Secondo queste scansioni:
a) IL tempo normale/ordinario /vecchio – il cui nome proprio è chronos– che parte dalla creazione e si conclude con l’evento messianico (che per Paolo non è la nascita di Gesù ma la sua morte/resurrezione).
b) Il tempo NUOVO: dopo la morte e la resurrezione, inizia il tempo nuovo che egli chiama con una parola nuova – Kairòs . Di cui dice che è un tempo contratto (che non significa che dura poco). Paolo usa il termine greco synestalménos (parola usata al v.7,29, che normalmente veniva usato per esprimere l’azione di imbrogliare le vele e anche la contrazione della fiera prima di spiccare il salto . E’ il nostro tempo: di Paolo e nostro. E NON è la fine del tempo ma piuttosto il “tempo che ha iniziato a concludersi ”: è un tempo pieno, sovraccarico persino, di DECISIONI, DECISIONI URGENTI, decisioni radicali. Nulla può essere rinviato. E’ attesa , ma operosissima . E chi si distrae (come facevano i tessalonicesi) a chiedersi : quando tornerà? Viene trattato come colui che guarda il dito e non la luna!
c) La terza scansione è l’eskaton, su cui ora per brevità sorvoliamo..…ma almeno è utile sapere che non è banalmente la cosiddetta “fine del mondo”.
(in questi giorni è uscito un piccolo libro di Cacciari – Il potere che frena -e qualche anno fa, uno di Agamben – Il tempo che resta – una analisi da grecista di alto livello del pensiero di Paolo. Due filosofi, non teologi di professione! )
COME SI PUO’ CONSTATARE , Paolo si coinvolge nel pasto comunitario della memoria della Cena del Signore , non con le emozioni del ricordo, ma con l’animosità di un pensiero e dell’ azione, per nulla “religiosi”, per reinventare la concezione della storia e del tempo contemporaneo!
…..era partito da una maleodorante storia di maleducazione – direi- quella di chi si si faceva una scorpacciata in faccia ai poveracci, figli di una società diseguale e arricchita di una città di commerci; è approdato ad una nuova concezione della storia e del tempo.
SIAMO BEN LONTANI DALL’IMPOSTAZIONE – tra il folclore e la strumentalizzazione della religiosità popolare – CHE STA ALLA base della festa del “CORPUS DOMINI” e alle processioni con ostensori e baldacchini deambulanti. Che purtroppo pare siano tornati di moda.
Nel gruppo si notava che questa festa del “corpus domini” esprime un approccio tardivo nel cattolicesimo stesso ed è sconosciuto alla tradizione orientale ed è stata usata come una potente clava popolare nella lotta contro la Riforma. Un approccio che ha comportato anche spericolate elaborazioni come quella della “transustanziazione”, su cui peraltro – ci faceva notare Luigi – anche il concilio vaticano II ha – forse non a caso – glissato, mettendo in grande ambascia tanti ordini religiosi impostati sulla pratica fondante delle Adorazioni eucaristiche, almeno nella immediata fase del dopo-concilio …dopo si è fatto finta di niente, tornando alle abitudini processionali.
Il nostro gruppo ha però anche sottolineato come ben altro siano state e sono le diverse prassi di testimonianza che hanno costituito – anche per molti di noi – momenti di crescita nei percorsi di ricerca e di fede (ad esempio, i piccoli fratelli e le piccole sorelle di Foucauld, Spello, Carlo Carretto, ecc.) – dove il silenzio, la preghiera nuda e spoglia anche di parole e con l’ implicito rifiuto delle ostensioni trionfalistiche, possono essere coerentemente : “annuncio della morte del Signore, finché egli venga” (secondo il linguaggio profondo e impegnativo, e tutto da approfondire, di Paolo). In questa diversa prassi e testimonianza abbiamo anche considerato quel concetto della “contemplAttività”, tanto caro a Tonino Bello, le cui conseguenze nella prassi della pace attiva tra i conflitti contemporanei sono parte della storia delle Cdb..
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ContemplaTTivi
Tonino Bello, Cirenei della gioia
Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità: è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia che non parte da quella tavola.
Solo se partiamo dall’eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di origine controllata, come dire, avrà la firma d’autore del Signore. Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l’amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l’eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.
Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell’azione. La contemplattività, con due t, la dobbiamo recuperare all’interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell’abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l’amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di poter essere suoi intimi.
Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo, diamo l’impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento profondo.
Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa, abbandonarsi un’altra. Quand’ero istruttore di nuoto – ero molto bravo, e quando ero in seminario tantissimi hanno imparato da me a nuotare – quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono qui io; non ti preoccupare…». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d’amore.
Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui, lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».
Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale, perché siamo bravi ad organizzare, chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i tossici, per i malati di AIDS… diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgeranno che non c’è sostanza, che non c’è l’acqua viva, la gente se ne va.
Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un’altra cosa. Significa che da quella tavola ci dobbiamo alzare: significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.
Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c’è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella Chiristi fideles laici, c’è una dissociazione tra la fede e la vita.
La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e lì dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in modo o nell’altro: c’è uscito anche Giuda, «ed era notte» (Gv. 13,30).
Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell’intimismo, ovattato dove le percussioni dei mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra l’ordine del giorno che il mondo ci impone.
Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo..