Le icone dell’incontro con Gesù

Grazia Villa 

Carissime,
sono rimasta molto colpita da tutto il lavoro che emerge dal blog e sono solo rammaricata di non avere usato correttamente questo strumento, leggendo passo dopo passo, intervenendo e commentando, e non facendo cioè quello che ho fatto questa sera, cioè copia-incollare tutto su un unico documento stamparlo e portarmelo in viaggio per non essere … assente almeno quando starò con voi in presenza!!!

Mi limiterò, pertanto, a confessarvi che dopo tutto il vuoto fare un pò il pieno con il calore della presenza fatta non solo di corpi in-contatto, ma anche di pensieri in relazione, mi rilassa molto, vista l’acutezza della fatica di stare in presenza del Divino assente …beh ne parleremo a Cattolica! Come contributo tardivo, anche se non in relazione con quanto scritto dalle altre, visto che leggerò attentamente solo domani in treno, per ora vi riciclo questo testo che ho scritto come “catechesi” per le/gli scouts adulti, essendo per donne e uomini ho utilizzato sia le figure femminili, sia quelle maschili nei vangeli.

E’ una specie di affresco sotto la Croce. Mi permetto di farlo a ciò legittimata dai commenti biblici di Catti e Paola Morini. Spero non vi dispiaccia!
Basta, ci vediamo tra poche ore… Provo ad allegare il testo. Un abbraccio grato.

Vs. Grazia Villa

Le icone dell’incontro con Gesù

Con timore e tremore mi accingo a “scrivere” di icone. Posso tentarlo avendo la consapevolezza che la parola tentativo ha la stessa radice di tentazione e che l’icona, come diceva Basilio, è il vangelo degli analfabeti. Se è vero quindi che l’icona è una teologia per immagini che attinge alla Scrittura, dove “la prima è vangelo rivolto all’orecchio, la seconda è vangelo rivolto all’occhio”, ma entrambe “scrivono” il mistero del Cristo, prima di partire per questa avventura, devo mettermi in ginocchio, anche se artrosi delle ossa e sclerocardia lo rendono ogni giorno più difficile. Non sono sola, però, ci sono le sorelle, i fratelli del MASCI, il popolo incontrato per strada ed insieme ci fermiamo a contemplare nella preghiera, ad ascoltare l’Icona, immagine dell’invisibile e presenza dell’invisibile, davanti alla quale nella liturgia delle comunità credenti, ci si inchina e magari la si bacia.

Non sono però una pittrice di icone, ma una maldestra ascoltatrice di Vangeli e come donna d’Occidente e non di Bisanzio, sono abituata ad essere rapita dagli affreschi, così ho pensato di condividere più che tante piccole icone un grande affresco composto da alcuni riquadri che convergono al centro con lo sguardo fisso su Gesù crocifisso, come nelle pale o nelle volte o nelle vetrate colorate, icone gotiche d’Europa.

Sullo sfondo vi è la Luce di Gesù che ci guarda, ci guarisce e parla con autorità, Gesù che ci affianca e cammina con noi, Gesù seduto che discute ed accarezza, che rimprovera e si fa accarezzare, Gesù consegnato, ferito, appeso, deposto, disteso, risorto, Gesù che ci precede in Galilea.

Intorno a Lui: fratelli, sorelle e madri, donne e uomini, fanciulle e giovani, vecchie ed anziani, la moltitudine delle bambine e dei bambini, degli infermi guariti, dei liberati dai demoni, dei beati che hanno creduto senza vedere, delle sante e dei santi in comunione d’amore, tutti i seguaci dell’Agnello, magari sconosciuto.

I Quadro: LE DISCEPOLE E DISCEPOLI SENZA NOME  

Donne in piedi che stanno ai piedi di Gesù  (Lc. .8,1-3; Mt. 14,21; Mc.. 5,25-34; Gv. .8,3-11; Mc. 7,24-30)

Siamo le molte altre, quelle che non entrano nemmeno nella conta della moltiplicazione dei pani (erano circa cinquemila, senza contare le donne e i bambini) siamo qui ai piedi della Croce, siamo arrivate da lontano e siamo salite, con o senza mariti, a Gerusalemme. Siamo in tante e senza nome  e nei secoli futuri del Regno molte altre potranno identificarsi con noi, con il nostro pianto su Gerusalemme interrotto per ordine del maestro poco prima che esalasse l’ultimo respiro, la sua Ruah, effusa anche su tutte noi.

ECCOMI. Sono la donna che non smetteva di perdere sangue, ricordata nei secoli con un nome segnato da un finto pudore, se non da misoginia, mi hanno chiamata: l’emorroissa.

Non ero povera, anzi avevo potuto spendere tutti i miei averi per farmi curare da molti medici, ma era andata sempre peggio, rimanevo perennemente impura, intoccabile, infeconda ed inutile in  un mondo che maledice le sterili. Ma non ero ancora piegata, osavo ancora camminare tra la folla, conscia del mio segreto, forte della speranza dell’impossibile, del resto sapevo che Jawhè poteva accogliere la preghiera di una donna dal grembo chiuso, dal ventre vecchio o malato.

Ho udito che questo Gesù è un profeta. Ci provo, non occorre spiegare, tanto meno supplicare davanti alla folla, se è veramente potente basterà toccare il suo mantello, come una sposa vera (proprio quella che io non sarò mai!) ed essere salvata da questo destino di solitudine.

Accade tutto in fretta… di colpo il sangue non sgorga più dal mio grembo, il corpo risorge ed io lo sento, ne sono certa, lo so con la sapienza dei sensi rinati, ma lui se ne accorge. Come abbia fatto in quella calca, se lo sono chiesti infastiditi anche i discepoli intorno a lui mentre lo sento pronunciare quella terribile domanda che stravolgerà tutta la mia vita. Chi mi ha toccato? Non solo, ora si gira intorno, mi cerca con lo sguardo e sembra già sapere che sono una… lei, che il tocco è stato di una mano di donna, che il potere di far uscire la “forza” era stato richiamo di sposa, invito alle nozze.

Che fare? Fuggire da sola, come ero arrivata, con questa gioia nel cuore o rimanere, gettarmi ai suoi piedi, scoprirmi definitivamente, svelare il mio segreto, ora che potevo andare a testa alta e feconda di futuro per le strade di Galilea? Impossibile resistere, cado ai suoi piedi, gli grido sgomento e speranze, dolore e guarigione, così lui chiosa per sempre, davanti agli ottusi: Va in pace o figlia, la Tua fede, (capite proprio la mia fede!) Ti ha salvata e rimani guarita del Tuo male.

Mi rialzai per sempre, lo seguii a piedi fin qui a Gerusalemme, ed ora sono ancora ai suoi piedi sotto la croce!

ECCOMI. Sono la donna che ha tradito il suo sposo, ricordata per secoli senza falsi pudori, col disprezzo nel cuore, mi hanno chiamata: l’adultera.

Era fatta, mi avevano beccato, anzi ci avevano beccato, ma lì io ero sola, trascinata nella spianata del tempio, non mi restava che sentire le prime pietre, poi il dolore mi avrebbe travolto e non avrei provato più niente. Fine di tutto: la vita, i sogni, le corse, la passione e le bugie, tutto avvolto nel silenzio della morte, bagnato da qualche lacrima, almeno le mie mi nascondono lo sguardo feroce ed avvilente dei miei accusatori.

La legge è la legge, ed io lo sapevo, noi lo sapevamo, ed ora sono qui in mezzo, per la prima volta nel luogo delle dispute, nello spazio della Torah, nel tempio di Davide, davanti a scribi e farisei, esposta senza difensori all’applicazione della Legge di Mosè e della sua interpretazione autentica. Non posso e non potrò più stare in piedi, nemmeno ora posso alzare lo sguardo, sono accasciata, giù per terra, di sbieco riesco a vedere solo il dito di uno sconosciuto che scrive nella polvere, ma non so leggere e non capisco ciò che scrive.

Accade tutto lentamente… Sono pronta alla condanna inesorabile, di certo la lapidazione, ma ecco odo pronunciare quella incredibile frase che stravolgerà tutta la mia vita. Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei. Silenzio. Sto ancora a testa bassa, con lo sguardo catturato dal dito che scrive, poi sempre di sbieco vedo la polvere che si alza, sollevata dai piedi che camminano, dai passi insperati di chi si allontana, incerto e carico del peso di ogni  grande o piccola violazione degli oltre 600 precetti, giogo ben più gravoso delle pietre che a poco a poco cascano inerti e non più mortifere dalle braccia fiacche.

Siamo soli, lui ancora seduto ed io in mezzo, senza sapere che cosa fare: alzarmi, scappare, correre via sempre più lontana dallo scampato pericolo, tornare viva per le strade di Gerusalemme. Impossibile resistere, rimango ai suoi piedi, in silente attesa di parole o di un’unica ultima pietra. E’ lui che si alza e mi libera. Nessun sasso, nessuna condanna ormai lo sappiamo tutte e due. Eppure a questo uomo misterioso non basta la constatazione della ragione, mi vuole regalare la pace del cuore.

Non sa il mio nome, solo il mio genere: “Donna” mi chiama come sta chiamando sua madre, qui, sotto la croce. Donna, dove sono i tuoi accusatori. Nessuno ti ha condannata? Sento la mia voce, quella che non avrei mai più pensato di udire soffocata dal rumore delle pietre, rispondere con un suono flautato di speranze inedite: Nessuno Signore. In controcanto da salmista l’ormai Amato ribatte: Neanche io ti condanno, va’ e non peccare più.

Mi rialzai per sempre, lo seguii a piedi fin qui a Gerusalemme, ed ora sono ancora ai suoi piedi sotto la croce.

ECCOMI. Sono la donna disposta a tutto per liberare la figlia tormentata dal demonio, ricordata nei secoli con l’odio sottile per diversi e straniere, mi hanno chiamato: la cananea o siro-fenicia.

Mi avevano detto che il profeta Gesù aveva passato il confine, si era ritirato dalle nostre parti fuori dal territorio degli ebrei, forse per riposarsi presso un mare vero e non sulle rive del lago di Tiberiade, che solo la prosopopea dei vicini può definire “mare”. Ne approfitto, decido, vado, lo raggiungo, purtroppo non è solo, non importa, con tutta la mia forza grido e gioco subito la mia carta implorandolo come Messia, riconoscendolo come Figlio di Davide. Storditi dalle mie urla di madre ferita a morte dall’impotenza verso il male che tormenta mia figlia, i suoi lo pregano di esaudirmi per liberarsi di me e dall’imbarazzo di essere inseguiti da una donna per giunta  cananea.

Niente da fare, quel Signore non mi degna di uno sguardo e risponde da ebreo ortodosso, ora so che lo fece per lasciare espandere tutta la mia forza, lasciar esplodere il mio coraggio e mostrare ai detrattori legalisti di sempre, la bellezza della mia intelligenza nella fede e la validità del mio argomentare. In quel momento, però, non ne sapevo niente, mi importava solo di mia figlia e non avevo tempo, nemmeno quello di cercare la complicità delle donne che lo seguivano, quindi mi getto ai suoi piedi.

Ma lui continua con quella solfa del popolo eletto, con le solite distinzioni tra cani e fedeli, che purtroppo non muoiono mai, ma per farsi capire da una donna presupposta ignorante usa parole facili, quelle di tutti i giorni, quelle imparate a Nazareth: pane, figli, cagnolini. Di queste cose, però, le donne sanno, le sanno da sempre, sono le cose di casa ed allora il sapere viene fuori, quante volte si vedono i cani mangiare le briciole… E lui rimane folgorato, anzi lo convinco!

Non sa il mio nome, solo il mio genere: “Donna” mi chiama come sta chiamando sua madre, qui, sotto la croce e mi dice addirittura: Donna, grande è la Tua fede. Avvenga per Te come desideri. Ed io che cosa potevo volere ancora, con mia figlia guarita e questa gioia di essere riconosciuta per sempre nella profondità di un desiderio che spinge ad azioni coraggiose, se non andare oltre il confine?

Mi rialzai per sempre, lo seguii a piedi fin qui a Gerusalemme, ed ora sono ancora ai suoi piedi sotto la croce.

Uomini viandanti e vedenti  (Lc. 10,1-11; Lc. .24,13-35))

Di noi settanta o settantadue non è rimasto nessuno al Golgota, qualcuno guarda da lontano e vede da dietro le donne più vicine alla croce sopraffatte dal pianto e dal dolore per questa fine amara,  preoccupate per il recupero del corpo, per la sepoltura, per il sabato imminente che avrebbe posticipato gli unguenti.

I dodici sembrano tutti spariti, tranne Giovanni, il prediletto, che si intravede proprio sotto la croce con Maria, la madre di Gesù, così attaccato al legno che sembra voglia raccogliere tutte le ultime parole, gli ultimi gemiti, senza disperdere nulla: sangue, acqua, soffio, vedere e toccare tutto per poi raccontare all’infinito, ciò che l’orecchio alla cena di Pasqua aveva solo carpito ed intuito dai battiti del cuore di Gesù.

Nessuna traccia di Pietro e Giacomo, di Giuda si dicono cose tremende. Di noi settanta, abituati ad andare a due a due, rimane solo qualcuno, in disparte, a macerare la propria rabbia od il rancore oppure a disperarsi, interrogarsi. Noi due ancora insieme, Cleopa ed io, increduli per come è andata a finire. Sta arrivando Giuseppe, quello ricco di Arimatea, che non era mai stato dei nostri, di noi designati da Gesù, quel giorno per annunciare che il Regno di Dio era vicino, poi Nicodemo, il fariseo, quello che andava a trovare Gesù di notte. Ci penseranno loro a staccarlo dalla croce, a consegnarlo alla madre e poi a deporlo almeno in un sepolcro mai usato. Noi ce ne andiamo, anzi, passato  il primo giorno dopo il sabato, andremo via anche da Gerusalemme, tanto qui non succederà più niente di quello che avevamo sperato.

E pensare che eravamo tornati esaltati dalla nostra missione, pieni di gioia avevamo raccontato: Signore anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome. Come sempre lui aveva smorzato gli entusiasmi e le nostre manie di grandezza con parole misteriose, sempre riferite al cielo, le stesse che usava quando dopo aver previsto la sua morte ignominiosa, concludeva che dopo tre giorni sarebbe risorto. Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.

Ma! A volte proprio non lo capivamo, ma era troppo bello stare con lui: quante camminate, quanti miracoli, quante chiacchierate, quante cene, quanto potere in parole ed opere, quanta autorità, non come quella degli scribi e dei farisei, tanto meno quella tronfia e fasulla dei nostri dominatori romani. E poi noi eravamo stati scelti da lui, dal Messia, lui che avrebbe liberato Israele…

Basta, andiamo, è inutile pensarci, è ora di tornare ai nostri villaggi e riprendere in mano le nostre vite, altro che centuplo, un pugno di mosche in mano ed il ronzio nelle orecchie del vaneggiamento delle donne, delle nostre, di quelle che erano state in giro con noi dalla Galilea ed erano salite a Gerusalemme, che ora si sono inventate una visione di angeli, avendo trovato il sepolcro vuoto.

Basta, andiamo, è inutile illudersi, è ora di pensare ad un altro modo per liberare il nostro popolo dall’occupazione straniera ed anche di toglierci il peso di questa tristezza che ci opprime. Tanto anche gli altri uomini che sono andati alla tomba hanno visto che era vuota, come hanno raccontato le donne, ma lui non l’hanno visto.

Basta, andiamo, è inutile continuare a parlarne tanto non serve a niente, anzi chi è questo forestiero che cammina con noi che non sa niente di Gesù di Nazareth e che ci costringe a rivangare il suo e nostro fallimento. Non solo, alla fine del resoconto che per noi non è stato facile, pretende di rimproverarci, dandoci degli sciocchi e dei lenti di cuore. Senza lasciarci il tempo di reagire, comincia a rileggere tutta la storia, lui che non ne sapeva niente, partendo da Mosè e da tutti i Profeti.

Basta, andiamo, è tardi, il giorno è al tramonto, non possiamo più camminare, non lasciamolo andare più lontano, rimani con noi, mangiamo qualche cosa insieme. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, spezzò il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ha spezzato il pane…Non è possibile è lui, è proprio lui, ecco perché ci ardeva il cuore quando parlava con noi per strada, quando ci spiegava le Scritture.

Basta, andiamo, è inutile indugiare, non importa se è sparito dalla nostra vista, ora i nostri occhi vedono anche l’invisibile, guardano le cose di lassù, sono cadute le scaglie della cecità delle tenebre, il cuore batte leggero liberato dall’ombra della morte ed i nostri passi si dirigono sulla via della pace. Torniamo a Gerusalemme, dobbiamo raccontare quanto è accaduto lungo la via e di come sarà possibile camminare d’ora in poi con il Viandante per ogni strada del mondo, magari su un sentiero al tramonto… a due a due, con i nostri nomi scritti in cielo.

II Quadro – INCONTRARE IL SIGNORE IN PIENO GIORNO O NELLA NOTTE OSCURA

La “teologa” di Samaria  (Gv 4, 1-45)

Ho sete ha detto, così gli hanno dato una spugna imbevuta di aceto, me lo hanno appena raccontato alcune donne di Galilea che erano più avanti e sono riuscite a parlare con la Madre.  Dammi da bere, era cominciato con queste parole l’incontro per il quale ora sono qui a Gerusalemme.

Sono salita per la festa, non per andare al tempio, non adoravo nemmeno a Garizim, seguivo ancora per obbedienza alla legge i riti, certo come potevamo seguirli noi donne, ma ormai dentro di me zampillava un’acqua nuova per attingere la quale non serviva più nessun tipo di brocca. Sono salita perché sapevo che quel uomo sarebbe entrato nella città di Davide ed il popolo avrebbe capito quello che lui mi aveva rivelato quel giorno al pozzo di Giacobbe.

Faceva così caldo quel giorno al pozzo, del resto era mezzogiorno, l’ora che preferivo per caricarmi d’acqua. Nessuna attesa, niente chiacchiere, un po’ di pace per stare assorta nei miei pensieri.

Da lontano vedo un uomo seduto al pozzo, sono incerta se tornare indietro, ma l’acqua mi serve, con tutti quelli che l’aspettano a casa, poi vado, tanto mi sembra un giudeo ed i giudei non hanno rapporti con i Samaritani. Come non detto, non solo mi rivolge la parola ma mi ordina di dargli da bere e non capisco perché debba obbedirgli, anzi glielo dico, visto che i giudei non hanno rapporti con i Samaritani!

Se tu conoscessi il dono di Dio, incomincia a vaneggiare, il sole a volte dà alla testa ai viandanti e non tutti sono abituati a stare sotto il sole quando è alto, insiste: se tu conoscessi chi è colui che ti dice dammi da bere, tu  avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva. Non c’è dubbio, è il caldo, ma tanto vale rispondere per le rime a quest’uomo misterioso o semplicemente troppo affaticato, che pretende di attingere al pozzo senza secchio, credendosi più grande del nostro padre Giacobbe. Sapevo che era rischioso parlare con un giudeo, ma sapevo come trattare gli uomini e che in certi momenti valeva la pena assecondarli. Va bene, visto che puoi darmi un’acqua che mi toglierà la sete per sempre, dammi quest’acqua così non devo più tornare ad attingere.

Ma ecco le parole che hanno stravolto per sempre la mia esistenza: Va chiamare tuo marito ed io posso sputare in faccia a questo sconosciuto invadente tutta la mia verità: Non ho marito. E lui: Hai detto il vero, ne hai avuti cinque e quello che hai ora non è tuo marito.

Il cuore mi balza in petto, come è possibile? Lui sa, lui conosce, lui comprende quanto questa legge del levirato sia fatta per gli uomini, sia così lontana dall’amore quello vero, a prima vista, come quello di Giacobbe per Rachele, a quello stesso pozzo. Lui sa che non sono più la sposa, non più la diletta, non più l’amata!

E’ un profeta, allora posso fargli tutte le domande che da tempo tenevo racchiuse nel cuore, quelle cui mi sono aggrappata per dare un senso alla mia vita di non amata, le speranze e le attese che hanno alimentato la mia sete di anawin: dove adorare Dio, da dove viene la salvezza, quando verrà il Messia… Il sole è sempre più alto, non ho più caldo, non ho più sete, resto solo in attesa di una risposta dal Profeta.

Sono io che parlo con Te. Non è possibile Sono io…IO SONO! Mollo tutto, corro, volo, non mi importa più di nessuno, nemmeno dei suoi che mi hanno guardato storto, nessuno mi potrà più guardare in quel modo, nessuno metterà più in dubbio le mie parole, la mia vita, la mia intelligenza, il mio sapere, io ho incontrato il Messia, quello che doveva venire ad annunciare ogni cosa, è venuto, l’ho incontrato, mi ha parlato e mi ha detto tutto di me.

Per questo sono salita a Gerusalemme, per vedere Israele che incontra il suo Re, per cantare con i giudei benedetto colui che viene nel nome del Signore, per gridare osanna al Figlio di Davide, per proclamare che è venuto il salvatore del mondo.

Ho sete, dammi da bere…dal pozzo del suo cuore è uscito un fiotto d’acqua, non serve niente per attingere, è bastata una lancia. E’ acqua salata, come quella delle lacrime che mi bagnano il volto, è acqua di sangue, è acqua di sposa, è acqua di vita eterna.

Nicodemo, dottore della legge (Gv 3, 1-21; 19,31-42))

E’ buio fitto, proprio come quando andai di nascosto ad incontrarlo, eppure siamo in pieno giorno. Tutto è compiuto, come mi aveva annunciato quella stessa notte, con quelle parole che avevano sconvolto per sempre la mia vita. “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo”, ed ora eccolo lì innalzato sul legno del patibolo, davanti a tutti noi.

Mi aveva rimproverato durante la nostra insolita discussione: Tu sei maestro in Israele e non conosci queste cose?

Già io, maestro in Israele, ero andato per quello, per capire, per provare a mettere insieme tutto quello che sapevo, quello che avevo studiato ed imparato in tanti anni con quella realtà nuova che stava scoppiando in Giudea: un uomo che può compiere tali segni non poteva che essere da Dio, dovevo comprendere fino in fondo: Chi era costui? Possibile che fosse l’Atteso da secoli?

Immerso nelle tenebre di questa ora nona, mentre ricordo quella notte, ho un sussulto, che stanno facendo i soldati romani di guardia?

Già, io maestro di Israele, conosco le scritture: si sono divise le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte.

Ma quella notte, tra gli ulivi, Gesù il nazareno, solennemente e con tanto di premessa veritativa mi aveva detto che senza nascere dall’alto non si può vedere il Regno di Dio. Come era possibile? Dove era scritto? Da dove venivano quelle strane parole, pur se pronunciate con autorità, addirittura “In verità”? Come può rinascere uno che è vecchio? Può forse tornare una  seconda volta nel grembo di sua madre?

Già, io maestro di Israele, non capivo niente. Per non parlare di quella storia dello Spirito e del vento, delle cose del cielo e di quelle della terra, di Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Unigenito. Chi è questo Figlio dell’uomo? Sarà quello del profeta Daniele? Ma che significa che non è venuto per condannare il mondo, ma dove vanno a finire la giustizia di Jawhè, la sua collera divina?

Torna un po’ di luce in questo assurdo pomeriggio di primavera, così riesco a vedere chiaramente con i sensi quest’ultima scena che  mi fa quasi svenire: i soldati sono venuti a spezzare le ossa dei crocifissi per accelerare l’agonia, ma quello che si ferma davanti a Gesù non ripete l’antica usanza, prende una lancia e lo colpisce al fianco!

Già, io maestro d’Israele, so che cosa significa: Non gli sarà spezzato un osso… Volgeranno lo sguardo a colui che avevano trafitto.

Mi butto in ginocchio e dentro il mio cuore scoppia quella Verità che con tutta la mia dottrina non avevo saputo vedere: Costui è veramente il Figlio di Dio (seppi più tardi che un centurione ignorante l’aveva capito ben prima di me!). Arriva una folata di vento fortissimo e finalmente ne sento la voce, sarà quello Spirito che mi farà rinascere dall’alto? (seppi più tardi che andò a squarciare il velo del tempio…)

Già, non so più se io sono o sarò maestro d’Israele, so solo che devo andare a prendere almeno trenta chili di mirra e di aloe, prima che si faccia troppo tardi, prima che arrivi quel sabato fatto per l’uomo come diceva lui, il Signore del sabato, prima che torni un’altra notte oscura dobbiamo trovare un giardino, come quello dell’Eden, perché il giusto riposi, almeno fino all’alba del nuovo giorno nel quale forse potremo rinascere dall’alto!

III Quadro – ANNUNCIARE IL RISORTO TRA LACRIME DI GIOIA E DI DOLORE

Maria di Magdala  (Gv. 20,1-18; Mt.26,6-13;Mc.14,1-11;Gv.12,1-8)

Nicodemo aveva già portato trenta chili di mistura di unguenti, ma non c’era stato il tempo per preparare il corpo, era arrivato il sabato, già il sabato, in cui lui diceva sempre che era lecito guarire, ma che questa volta non potevamo proprio violare. Ore lunghissime interminabili, passate a piangere, finché gli occhi si sono prosciugati, noi tutte insieme, con la madre di Gesù, con sua sorella, con Salome, con Maria, madre di Cleopa. Tutte insieme ad aspettare l’alba del nuovo giorno.

Io però non riesco ad aspettare nemmeno l’aurora e, mentre è ancora buio, vado al sepolcro, voglio essere la prima e soprattutto voglio essere da sola, voglio poter bagnare ancora una volta con le mie lacrime il suo corpo, ungere il capo, baciare i suoi piedi, senza che nessuno mi veda e senza che nessuno mi giudichi. L’altra volta a Betania volevo solo fare un gesto d’amore ed è stato un diluvio di rimproveri, alcuni dei suoi si sono addirittura infuriati per lo spreco del profumo, ma lui no, lui sapeva che lo amavo e io, da quando mi aveva liberato dei miei demoni, sapevo che amava me.

Da quel momento lo avevo seguito per sempre ed ovunque e lui non aveva mai dubitato del mio amore. A quella cena aveva capito il mio dono silenzioso, tra chi ama non servono le parole, ci sono gli sguardi, ci sono le mani, ci sono i piedi, ci sono i sensi, ci sono i riti, c’è una celebrazione in cui il canto sono i gesti, la  musica  le carezze, il profumo è la gioia di stare insieme. E mentre mi lasciava fare e li invitava a lasciarmi in pace pronunciò quelle incomprensibili parole che nuovamente mettevano in subbuglio al mia vita. Lo ha fatto in vista della mia sepoltura (…) ed ovunque sarà annunciato il mio Vangelo, nel mondo intero, si dirà in memoria di lei quello che ha fatto.

Il mondo intero, il Vangelo ovunque, in memoria di me, il ricordo mi opprime, rallenta il mio passo, mi rimane solo la sua sepoltura!

La pietra è stata tolta, devo avvertire le altre donne che stanno arrivando e quelli che stanno nascosti in casa. Pietro e Giovanni corrono a vedere ed arrivano al sepolcro, prima il più giovane e poi il più vecchio. Pietro entra per primo, escono senza dirmi niente, forse non mi hanno vista o già non si ricordano più di me, (seppi dopo che Giovanni solo vedendo aveva già creduto, ma i suoi occhi non erano ciechi, erano stati fissi al cuore trafitto sul quale amava chinare il capo!)

Già, io ero rimasta fuori, non avevo potuto, né voluto entrare, non sopportavo l’idea di non vederlo più, nemmeno da morto. Le lacrime che credevo di avere esaurito riprendono a sgorgare, non capisco più niente e non distinguo ciò che vedo, sento solo delle voci che mi chiedono il perchè del mio pianto. Che domande, chi sono, perchè non capiscono il mio dolore ? Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto.

Poi una voce diversa che arriva da un’altra parte, mi giro ed ancora la stessa domanda assurda, possibile che anche questo uomo non capisca, perchè piango, chi cerco, ma insomma in questo giardino ho perso il mio sposo, il mio Signore e con lui la mia vita. Mi chiedi perchè piango, chi sei Tu così forestiero, così sconosciuto, così nemico? Anzi forse se sei stato tu a portarmelo via, abbi pietà di me, dimmi dove lo hai messo, io andrò a riprendermelo. Mi accascio ai tuoi piedi, ti abbraccio le ginocchia, abbi pietà di me…

Maria, mai mi parve più dolce il mio nome. Rabbuni, mai mi parve più intimo questo titolo. Non mi trattenere. Maria, lasciami andare!

Lo sposo mi chiede il permesso, con la sapienza di un  cuore che ama lo sento, mi parla, “lasciami andare, devo andare dal Babbo a farmi vedere, a dire che è tutto a posto, che la Morte è vinta, il nemico, il Maligno distrutto per sempre, che sono vivo, che il Redentore è vivo. Ora devo preparare i posti, mandare il Consolatore, insomma, Maria, tesoro, amica mia bella, colomba, lasciami andare, ho ancora da fare, fino alla fine del mondo!”.

Lascio la presa (ma quando mai ero riuscita ad afferrarlo?), al massimo gli avevo irrorato i piedi di lacrime ed inondato il capo di profumo, l’avevo solo amato dalla testa ai piedi! Volo ad annunciare l’inaudito. Ho visto il Signore, rinuncio al “mio” Signore, del resto anche lui aveva rinunciato a “suo” Padre  sulla croce, regalandolo per sempre a tutti noi.

Sono sazia, sono piena, sono colma, non più colei in cerca dell’amore, ma colei che lo porta in grembo per le strade del mondo. Maria, o mia diletta, lasciami andare, anzi corri anche tu ad annunciare il nostro Amore, la nostra buona notizia, il nostro abbraccio, la Tua unzione, il Tuo sacerdozio, continua a fare questo in memoria di me.

 

Simone, detto Pietro (Gv.1,41-42; Mt.14,22-33; 16,16-19; 16.21-23; Lc. 9,28-36; 22,31-34; 22. 54-62, Mc.14,53-72; Gv.13, 1-11; 20,19-22; 21, 1-18)

Maria è piombata in casa che era ancora buio per avvertirci che la pietra del sepolcro era stata tolta. Senza parlare Giovanni ed io siamo partiti di corsa, con il cuore che batteva all’impazzata, che cosa è successo ancora? Arrivo dopo il ragazzo che mi lascia entrare per primo. C’è tutto: i teli, il sudario, ma lui non c’è. Ci mancava anche questo…Giovanni entra guarda ed il volto gli si illumina, non ho voglia di chiedergli niente. Non riesco, ho il cuore piombato e la mente piatta, non riesco né a pensare, né a fare, né tanto meno a parlare.

Tutti si aspettano che io dica o faccia qualche cosa, ma io da quella notte sono paralizzato, non sono bastate le lacrime per sciogliere questo nodo di dolore. Adesso chi glielo dice alla madre, agli altri che è scomparso, se Giovanni vuol dire qualche cosa faccia pure, tanto io da quella notte non sono più Cefa, sono tornato ad essere Simone.

Che c’è ancora? Arriva Maria di Magdala, come sempre invasata, dice che lo ha visto, per me lo ha scambiato per il custode del giardino, l’amore è cieco. Ed anche se fosse lui, non vorrebbe più saperne di me dopo quello che avevo fatto l’altra notte, anche se fosse vero quello che ci aveva detto quando io lo avevo preso in disparte per rimproverarlo, perchè non poteva apertamente parlare così del suo arresto, della sua condanna, della sua morte infame, aggiungendo quella follia che sarebbe risorto il terzo giorno, sì quella volta mi aveva cacciato indietro e mi aveva chiamato Satana, ed alla luce dei fatti aveva ragione!

Ma io ero convinto di essere nel giusto, anche se in pochi, noi lo avevamo visto sul monte con Mosè ed Elia, avevamo lasciato tutto per lui, così potente in parole ed opere, avevamo capito che era  il Cristo il Figlio del Dio vivente. Ed io avevo preso coraggio e glielo avevo detto, anche se lui continuava a dirci di tacere, e quella volta aveva pronunciato quelle parole che avevano definitivamente stravolto la mia vita e cambiato il mio nome: Beato Tu Simone, figlio di Giona…Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno  su di essa…

Già, Satana, le potenze degli inferi, il mio terrore del buio, della morte e dello sheol, come sul lago quando lo avevamo scambiato per un fantasma ed eravamo spaventati da morire, io però mi ero buttato perchè lo volevo stanare e lo avevo provocato Signore se sei Tu comandami di venire verso di te sulle acque. Il vento era troppo forte e la paura di annegare nella acque oscure  mi aveva travolto e veramente sarai affogato nella mia mancanza di coraggio se non avessi gridato e lui non mi avesse teso la mano.

Ma più mi avvicinavo a Gerusalemme mi sembrava di essere diventato più forte, anzi tutti noi lo eravamo diventati, nelle dispute Gesù sopravanzava sempre quelli che lo combattevano, era imbattibile quando parlava, qualcuno insisteva a dire che lo volevano morto, ma anche se ci avessero provato lui era il Messia, che potere potevano avere su di lui e comunque io sarei stato pronto a morire per lui!

Anzi era il suo potere a crescere a dismisura, quello di guarigione era diventato sempre più grande, nessun demone gli resisteva, nessun male era insanabile, anche i peccati potevano essere perdonati, nemmeno quello strano sonno mortifero di Lazzaro aveva impedito di farlo uscire dal sepolcro. Già, quel sepolcro… Lazzaro era già di tre giorni, come aveva detto Marta… eppure.

Sono qui in disparte a rimuginare, ma ecco che sono costretto ad interrompere i  miei pensieri. Pace a voi… Non è possibile. Pace a voi… Ecco mostra le ferite, ed ancora Pace a voi... Non le guardo. Pace a voi. Quale pace? Non riesco a gioire, sono troppo terrorizzato, non posso alzare gli occhi, non posso incrociare i suoi occhi ancora fissi su di me.

Nonostante il gran piangere amaro non riesco a cancellare il ricordo del suo ultimo sguardo, quando nel cortile della casa del sommo sacerdote avevo spergiurato di non essere dei suoi, di non conoscerlo, di non sapere nulla di quel prigioniero, lui si era girato, a fissarmi in volto, mentre un gallo cantava ed a sigillarmi il cuore sotto  il peso della mia vigliaccheria.

No, non era bastata la sua preghiera per me: Simone, Simone ho pregato per Te, perchè la tua fede non venga meno e tu una volta convertito conferma i miei fratelli. No, non era bastato farmi lavare i piedi e chiedergli di essere lavato tutto dalla testa ai piedi per avere parte di lui. No, non era bastato il battesimo del mio nuovo nome, io figlio di Giona, bastardo del cuore, ero solo il fratello di Andrea Simone, un galileo, tradito dal dialetto davanti ad una serva, a mia volta traditore davanti al mio Signore.

Ed ora sono qui, in questa casa in festa, dove tutti mi sembrano impazzire di gioia, ma è come se le sue parole di pace scivolassero su di me tanto che mi sembra di non sentire nemmeno il Suo Spirito effuso su tutte le persone nella casa, uomini e donne, che lo avevano seguito dalla Galilea fino a Gerusalemme. Crollo, cuore e corpo non reggono, mi si annebbia definitivamente la vista e non sento più niente.

Ora, però sento un odore che avrei riconosciuto tra mille: pesce arrostito. Ma dov’ero finito? In riva ad un lago, il mio lago… Non ricordo se ero io che avevo pescato tutta la notte, senza risultato, se ero io che avevo ributtato le reti, raccogliendo un mare di pesci oppure se il dolore degli ultimi giorni mi faceva confondere la memoria o la nostalgia mi faceva sognare altre notti dense di misteriosi successi. Non so nemmeno se ero io che mi ero cinto le vesti e gettato in mare oppure se il rimpianto mi faceva pensare alla notte in cui ero stato salvato dalle acque dal mio Signore.

Oh Dio, ma è Gesù, il mio Signore, che ho tanto amato… Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro? (Mi sta parlando, il mio Signore mi rivolge ancora la parola!) Certo Signore, lo sai che ti voglio bene. (Ancora, mi parla ancora!) Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro? Certo Signore, lo sai che ti voglio bene.

Sto male, non si fida più del mio amore, ha bisogno di conferma, per che cosa? Per pascere le sue pecorelle? Ma a me non importa più di pascolare le pecore, di confermare fratelli e sorelle, di essere Pietro, una roccia invincibile, voglio ancora il suo sguardo d’amore, voglio ancora che lui mi ami, voglio che mi liberi dal peso della morte del cuore, voglio che mi salvi, voglio che sia a lui a dirmi che mi ama ancora.

Simone, mi vuoi bene? Ha capito che io posso solo provare a volergli bene, non riuscirò mai ad amarlo come lui mi ama, a fare quello che lui ha fatto a me. Signore tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene. Pasci le mie pocorelle.

Mio Signore potrò pascere le Tue pecore solo se Tu, un fratello o una sorella, uno dei Tuoi piccoli, una della Tue bambine mi tenderà la mano, mi vestirà e mi porterà dove io non voglio. Ti voglio bene. Amen