Stati Uniti: una potenza in declino?
Fabrizio Maronta
www.confronti.net
La domanda che ogni elettore si pone andando a votare per le presidenziali è: si sta meglio o peggio di quattro anni fa? Difficile rispondere: la sensazione è che oggi gli americani non stiano certamente peggio, ma nemmeno meglio. La crisi c’era già da prima, ma Obama ha adottato le misure giuste per superarla?
Maronta fa parte della redazione di «Limes. Rivista italiana di geopolitica».
Moto d’orgoglio o grido d’aiuto, l’elezione di Barack Obama nel 2008 rispondeva a un duplice bisogno dell’America. Primo: rinverdire la fede in sé stessa e nei suoi ideali. Secondo: correggere gli squilibri economici, legislativi, militari e politici che ne minano la leadership. Esponendola all’incubo, in verità ricorrente nella storia americana, del declino rispetto alle potenze (ri)emergenti. «The West and the Rising Rest»: l’Occidente (leggi: America) in declino e il «resto» (leggi: Cina) in ascesa. Questo il cruccio degli analisti d’oltreoceano.
Realismo e idealismo, dunque, alla base del successo del 2008. O meglio: realismo al servizio dell’idealismo. In una nazione che concepisce la primazia materiale come funzione di un primato morale, l’uno non si tiene senza l’altro. «La nostra Costituzione è stata scritta per un popolo fortemente religioso e dotato di spiccato senso morale. Essa risulta assolutamente inadatta al governo di qualsiasi altro popolo che non abbia tali caratteristiche»: così John Adams nel 1798. Una religione immanente, però. Che non postula la perfezione, ma la perfettibilità («A more perfect union», il titolo di uno dei discorsi di Obama più riusciti della campagna 2008). Qui sta, in nuce, la differenza tra Paradiso dantesco e sogno americano. Con un’importante postilla: il primo è insondabile perché trascendente; il secondo è costantemente scrutinabile, perché immanente. Se il sogno si appanna, ad essere scossa è dunque la certezza del primato morale da cui esso promana.
È sotto questa duplice lente – empirica e ideale – che va letto il (primo?) mandato di Obama, per tentarne un bilancio. Il quale è condensabile nella domanda che l’elettorato rivolge a se stesso: il Paese sta meglio o peggio di quattro anni fa? Dalla risposta dipende la rielezione. Ma la risposta non è così semplice. Quando Ronald Reagan pose quest’interrogativo agli americani nel 1980, la sensazione generale era che Jimmy Carter avesse perso il controllo dell’economia – il tema su cui, in ultima istanza, si decidono le elezioni. Il quesito suonava retorico, tant’è che «the Gipper» (il soprannome deriva da un personaggio che Reagan aveva interpretato quando faceva l’attore, ndr) conquistò la presidenza.
Oggi le cose appaiono più sfumate, perché la recessione precede l’elezione di Obama: su questi non ricade pertanto la responsabilità del disastro, ma quella dei rimedi adottati per arginarlo. È su questo che l’America giudica il suo attuale presidente; e il giudizio è controverso. Il che spiega l’alta quota di indecisi (circa il 30%, molti dei quali potrebbero però astenersi) e la rimonta di uno sfidante – Mitt Romney – tutt’altro che brillante e con più di uno scheletro fiscale nell’armadio.
Stando ai numeri, oggi gli americani non stanno molto peggio di quattro anni fa. Ma non stanno nemmeno molto meglio. Per la maggior parte di loro, questo fine 2012 assomiglia terribilmente ai primi mesi del 2009. Il numero di occupati è pressappoco lo stesso: 133 milioni, in cui va però inclusa la cosiddetta sottoccupazione (part-time forzati e mansioni dequalificate), triste effetto collaterale della crisi; il tasso di disoccupazione è simile (8,3%); i redditi reali ristagnano (+1% rispetto al 2009); la ripresa della borsa, sebbene reale, vale appena a tamponare i danni del 2008-2010, biennio in cui gli indici crollarono, decurtando i risparmi della classe media. Intanto, i prezzi della benzina sono saliti e quelli delle case sono scesi, erodendo ulteriormente la base del benessere diffuso.
Non così male, si dirà, per un presidente «di guerra», eletto in un momento in cui l’economia collassava, la gente era terrorizzata, i licenziamenti fioccavano al ritmo di centinaia di migliaia al mese e la borsa puntava dritto verso l’abisso. Il fatto è che tamponare l’emergenza era solo il primo punto dell’agenda di Obama. E forse, in prospettiva, nemmeno il più importante. Il succo della sua promessa stava nella restaurazione dell’ottimismo, declinato nella sua versione più alta: speranza (Hope). Non una boutade elettorale, ma il motore primo della capacità, tutta americana, di sfidare il senso comune e accantonare le certezze acquisite in vista di un orizzonte di miglioramento. Operazione che richiede una sana dose d’incoscienza e d’ingenuità («ingenuity» è il termine inglese per «ingegno»): quelle profuse da Obama nel 2008 e in cui l’America si è riconosciuta.
La differenza fondamentale tra gli Stati Uniti del 2008 e quelli del 2012 non sta dunque nella loro condizione materiale, ma nel loro stato mentale. Al terrore del precipizio si è sostituita una quieta angoscia, una sensazione di stagnante insicurezza che mina il morale e la fiducia, rendendo arduo sognare. Condizione molto simile a quella evocata da Carter nel luglio 1979, nel suo famoso «malaise speech», brillante diagnosi di un male che l’ex coltivatore di arachidi della Georgia non seppe curare, cedendo così a Reagan le chiavi della Casa Bianca. Obama è ben conscio del rischio politico insito in questa situazione, tant’è che la sua campagna punta a chiedere un altro mandato per «finire il lavoro» iniziato quattro anni orsono. Altrettanto consapevoli sono però i repubblicani, che con la scelta dell’ultraliberista Paul Ryan a vice di Romney hanno sì pagato pegno all’influenza del Tea Party, ma hanno anche strizzato l’occhio all’elettorato scoraggiato, contrapponendo al presidente «depotenziato» un politico giovane ed energico, incarnazione del dinamismo di cui il Paese è orfano.
Sul fronte della politica estera, Obama sconta il peso di un’eredità pesante e di dinamiche che sfuggono in gran parte al suo controllo (e a quello del suo eventuale successore). La campagna mesopotamica è nominalmente conclusa, ma Washington mantiene oltre 15mila uomini nel confinante Kuwait, fulcro della presenza militare Usa nel Golfo e Paese esposto più di altri ai contraccolpi della latente instabilità irachena. In Afghanistan prosegue la riduzione delle truppe in vista del ritiro completo nel 2014, data oltre la quale il ritorno in grande stile della leadership talebana che sverna in Pakistan è un’eventualità tutt’altro che remota.
Intanto, le prospettive di nuclearizzazione dell’Iran si stanno gradualmente mutando in certezza, dividendo l’intelligence Usa tra ottimisti – che propugnano un contenimento in stile guerra fredda – e pessimisti – che preconizzano la corsa all’atomica da parte delle petromonarchie arabo-sunnite, ansiose di neutralizzare la minaccia posta dalla bomba sciita. In ogni caso, il programma atomico degli ayatollah un risultato l’ha già prodotto, generando una frattura tra Stati Uniti e Israele (nonché all’interno della stessa leadership israeliana): se lo Stato ebraico vede nell’Iran e nelle sue appendici regionali (Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina) una minaccia esistenziale, l’America vi legge un problema serio, ma essenzialmente regionale. L’orizzonte strategico israeliano è Teheran, quello statunitense è Pechino. Di questo a Gerusalemme si sta prendendo atto; un po’ meno in Europa, dove si continua a coltivare l’illusione che la rendita geopolitica derivante dalla Cortina di ferro sia sopravvissuta a quest’ultima. Ma Washington non è Trieste, né Berlino: per gli statunitensi il muro è un concetto fungibile, non una categoria mentale e sono pronti a sostituirlo con una Muraglia al mutare delle priorità strategiche.
Che le priorità siano cambiate, del resto, lo si è capito in Libia, dove Obama (ma Romney avrebbe fatto lo stesso) ha relegato l’America al ruolo di piattaforma logistica, lasciando volentieri a francesi e britannici (coadiuvati dal rituale atto di presenza italiano) il boccone più indigesto della «primavera» fiorita a due passi da casa nostra. Ma lo si osserva anche in Medio Oriente, dove Washington si guarda bene dall’armare pesantemente la rissosa insurrezione siriana, per timore di replicare l’esperienza dei talebani negli anni Ottanta e di trasformare la Siria del dopo-Assad in un nuovo Afghanistan. Il prezzo è una guerra civile lunga e sanguinosa; il vantaggio (auspicato) è non dover aprire un nuovo fronte di guerra, per il quale l’America non ha voglia e, soprattutto, mezzi.
Dietro le cause prossime della crisi – l’ipertrofia finanziaria, la sostituzione di main street (la strada dei negozi e dell’economia reale) con Wall Street – si cela infatti lo strutturale deterioramento della posizione fiscale ed economica statunitense. Le cui radici affondano nel breve «momento unipolare» vissuto dall’America tra il 1991 (crollo dell’Urss) e il 2001, anno in cui Osama bin Laden si incaricò di fugare ogni dubbio sulla presunta «fine della Storia». In quel glorioso decennio, l’America felix di Clinton ha sostanzialmente trascurato gli effetti dirompenti dell’irruzione nel mercato del lavoro globale di oltre 2 miliardi di asiatici. Un evento epocale, che ha posto fine allo storico monopolio occidentale delle mansioni specializzate, innescando una concorrenza mondiale sui salari. Se nel 1989 gli allora 248 milioni di americani rappresentavano il 23% dei circa 900 milioni di lavoratori del Primo Mondo (un rapporto di 1 a 2,8), oggi 300 milioni di statunitensi si trovano a competere con quasi 3 miliardi di operai, ingegneri, medici, biologi sparsi per il mondo (un rapporto di quasi 1 a 10). Oltre e più della New Economy, a rendere competitiva l’America negli ultimi vent’anni sono state la progressiva compressione salariale e la svalutazione del dollaro. Cioè la svendita del sogno americano.
Questa è una realtà dura da gestire per Obama. Ma anche per chi si candida a succedergli.