Il caso Alcoa e i doveri di un governo
Chiara Saraceno
Repubblica, 11 settembre 2012
Un Ministro dello Sviluppo che, quando faceva il banchiere, ha contribuito a salvare l’Alitalia (a spese del contribuente) non può limitarsi a dire agli arrabbiatissimi lavoratori dell’Alcoa che non c’è niente da fare. È troppo tardiva la correzione di ieri: ormai il danno è fatto. Ed è sperabile che il ministro del Lavoro non riprenda il refrain che le è caro. Ovvero che: «Il lavoro non è un diritto. Bisogna meritarselo, anche con il sacrificio». Di sacrifici dei lavoratori, specie manuali, è purtroppo piena la storia anche recente, anche di ieri, con l’operaio di Taranto ustionato gravemente mentre lavorava a mettere a norma uno degli impianti più scandalosamente pericolosi del nostro paese. Di fronte alla crescita inarrestabile della disoccupazione, cui si unisce quella della inattività per scoraggiamento e disperazione, nessuno, tanto meno chi governa, può permettersi di dire alternativamente che non c’è nulla da fare e che se non si ha lavoro è perché non lo si merita abbastanza.
Il problema del mercato del lavoro italiano, della disoccupazione giovanile che non rallenta, della disoccupazione dei quaranta-cinquantenni, delle donne che non ce la fanno a tenere insieme il doppio carico di lavoro pagato e non pagato, in una situazione in cui i pochi servizi disponibili vengono ridotti e i datori di lavoro hanno sempre più il coltello per il manico, non dipende certo dal fatto che tutti questi soggetti non si meritano abbastanza un posto di lavoro decente. Non vorrei che, dopo l’ottocentesca distinzione tra poveri meritevoli e immeritevoli, ora se ne inventasse una analoga per i lavoratori, per nascondere così le responsabilità sia della politica che dell’imprenditoria e della finanza per la crisi economica in cui ci troviamo e le crescenti disuguaglianze che sta producendo.
La crisi economica e sociale che stiamo attraversando non è certamente responsabilità principale di questo governo, come ci viene ricordato continuamente con toni da salvatori della patria ora da uno, ora dall’altro ministro e dallo stesso presidente del Consiglio (anche se non pochi di coloro che ora ne fanno parte hanno avuto non irrilevanti responsabilità politiche ed economiche in passato). Sia il caso Taranto sia il caso Alcoa testimoniano di quanta insipienza politica e imprenditoriale sia stata capace la nostra classe dirigente. Tuttavia il governo non può chiamarsi fuori dalle proprie responsabilità di fronte al destino di migliaia lavoratori e lavoratrici e delle loro famiglie.
La politica del rigore non solo non basta, ma può provocare, se non corretta e compensata, danni sociali, oltre che economici, gravissimi e di lungo periodo. I tafferugli, le intemperanze avvenute ieri a Roma nel corso della manifestazione degli operai dell’Alcoa sono la spia di una tensione che sta montando e si incattivisce anche perché non trova una sponda credibile, un orizzonte di azione praticabile. È vero che l’Alcoa era una azienda pesantemente sussidiata, che ha tratto il proprio profitto sia dal lavoro dei suoi operai che dal finanziamento pubblico. È stato probabilmente uno sbaglio spendere così risorse che avrebbero potuto essere meglio investite per produrre occasioni di lavoro più sostenibili. Ma oggi non si possono cambiare le regole senza farsi carico del destino di chi alla fine risulta essere più vittima che beneficiario di quelle scelte. Perché ha lavorato, ha fatto il proprio dovere, in cambio di una paga modesta. Non c’è politica di rigore che tenga.
Occorre, per questi operai e per le migliaia di altri lavoratori che rischiano di perdere il lavoro nelle prossime settimane e mesi, o di non trovarlo quando lo cercano, preparare occasioni di lavoro sostenibili, in primis nella produzione di quei beni collettivi di cui il nostro paese ha tanto bisogno: cura dell’ambiente, dei beni culturali, delle persone non autosufficienti. La politica del rigore ad ogni costo non sta dando i risultati sperati. La luce in fondo al tunnel sembra più una chimera che una speranza. E comunque gli individui e le famiglie devono poter vivere ogni giorno ed avere un orizzonte temporale minimo per fare progetti e alimentare speranze.
Invece di ripeterci che il lavoro non è un diritto esigibile e che il governo non può garantire il lavoro a tutti, il governo dovrebbe ricordarsi che l’articolo 4 della Costituzione affida allo stato una grande responsabilità, quella di promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro. Meglio se contestualmente investe e fa investire nella produzione di beni collettivi. Se non ora, quando?
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Quanto lavoro senza diritti
Francesco Piccioni
www.ilmanifesto.it
La provocazione di Mario Monti sullo Statuto dei lavoratori non poteva restare senza risposta e contestazioni di merito, anche perché stavolta è andato decisamente fuori del suo campo. Su più campi.
Sul piano politico-sindacale, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha sentito subito puzza di bruciato. «Non vorrei che qualcuno, siccome non c’è una idea su nulla, si reiventasse una logica contro i lavoratori. Mi pare che abbiamo fatto già abbastanza contro i lavoratori».
Una logica che appartiene al «peggiore liberismo, quello che ha teorizzato che la diseguaglianza abbia fatto crescere il mondo mentre sono quattro anni che il mondo non sa uscire dalla crisi determinata proprio da quella logica lì». Una dimostrazione del fatto che «questo governo non ha idea su cosa fare per lo sviluppo e la crescita. È la ripetizione di un film già visto. Si continua a riproporre ricette che hanno già dimostrato la loro fallimentarietà oppure si butta la palla in un altro campo».
I diritti del lavoratore
I giuslavoristi, naturalmente, entrano nel merito e nella «filosofia» che Monti butta lì come un’ovvietà. Giovanni Naccari, una vita nella consulta giuridica della Cgil, lo Statuto dei lavoratori l’ha visto nascere. «Monti è sicuramente un bravo economista di scuola liberista ma quando esce dal suo campo dice cose che non hanno riscontro nella realtà; né sotto il profilo scientifico, né dei contesti storici». Soprattutto, non sta in piedi l’idea che esista una contraddizione tra «quantità dei diritti» e «quantità dei posti di lavoro». In fondo, si tratta del solito tentativo di far passare un lavoratore «protetto» dal diritto come un «fannullone» o un privilegiato, ammiccando esplicitamente alle sacche di clientelismo esistenti in alcuni settori. «Chi è che ha voluto decenni di regalie e clientele? La stessa classe dirigente che ha voluto Monti premier».
Sul piano scientifico, al contrario, «la compatibilità tra diritti e sviluppo è acclarata» (il «libro bianco» di Delors); e anche tra efficienza e proprietà statale (Massimo Severo Giannini). Naccari ricorda che «allora erano d’accordo tutti, anche le imprese e Gianni Agnelli; erano consapevoli di poter avere una tregua nel conflitto sociale, che avrebbe prodotto sviluppo economico». Del resto, non è mai stato vero che le imprese tendono a non assumere se sanno di non poter licenziare: «i licenziamenti collettivi» per stato di crisi sono sempre stati possibili, la Fiat, nel 1980, mandò via in un sol colpo 23.000 lavoratori.
La «stagione dei diritti» arrivò al culmine di un forte periodo di crescita (il «boom») e fu interpretata come un «doveroso scambio» con la lunga compressione imposta in precedenza («sia sotto la dittatura fascista che nel ventennio successivo»). Un «modello» che non ha caratterizzato soltanto l’Italia ma l’Europa intera, contemporaneamente; al punto che «oggi i cinesi stanno studiando il nostro sistema di welfare».
Lo sfruttamento senza diritti, infatti, «funziona nel periodo di ‘accumulazione originaria’», quando un paese passa a forza dalla dimensione agraria ad una industriale. Poi deve «sviluppare il mercato interno». L’espansione dei diritti, dunque, è figlia di una visione «lungimirante ed evoluta», «smorza tensioni che avrebbero ripercussioni economiche negative». Oggi, dopo anni di «riforme pensionistiche» e del mercato del lavoro, «abbiamo lavoratori anziani licenziabili e giovani precari per sempre; è questa la società che hanno in mente?».
Lo Statuto recepisce un principio costituzionale che nel lavoro cerca l’«emancipazione della persona», non solo l’agente economico. Certo, per chi vede il mercato secondo la vulgata protestante (il «successo come prova del favore divino»), tutti i diritti dello Statuto (studio, riunione, ecc) appaiono un intollerabile «spreco».
Casa, affitti, equo canone
Con l’esempio sulle case Monti cade platealmente nella demagogia. «Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso più difficile la disponibilità di alloggi a favore di coloro che si volevano tutelare».
Ma le «norme», da sole, non fanno il mercato. L’economia reale conta un po’ di più. E là dove non c’è – come in Italia negli ultimi 30 anni – una «politica della casa», ecco restringersi improvvisamente «l’offerta» di abitazioni, che facilita la salita dei prezzi (sia dell’acquisto che degli affitti).
Una prova? Guardiamo i dati (del 2004, ma la situazione è anche peggiorata dopo le «cartolarizzazioni» di Tremonti). In Italia le case popolari costituiscono solo il 4% del totale delle abitazioni occupate. In Francia la percentuale sale al 17%, nell’iperliberista Gran Bretagna al 18, tra i «rigoristi» del nord Europa si arriva al 20% della Svezia, al 25 dell’Austria e addirittura al 35% dell’Olanda.
Anche alla Bocconi dovrebbero sapere che il rapporto domanda/offerta pesa più delle «norme», bene o malintenzionate che siano.