Cattolici e politica: tra parresìa, profezia e moderazione di S.Rizza
Salvatore Rizza
Adista Notizie n. 27/2012
«È impressionante come tanta nostra gente sia parte integrante di quella folla che va a comporre l’immagine sconfortante di un Paese condizionato dalla presenza di corrotti e corruttori, di evasori, di fautori di illegalità diffusa, difensori sistematici della rivendicazione dei diritti nell’ignoranza, se non nella denigrazione, dei doveri». Saranno fischiate le orecchie a Formigoni (e non solo) sentendo le recenti parole di mons. Crociata, rivolte, come si dice, a “suocera” (gli assistenti ecclesiastici) perché “nuora” (i cattolici che fanno e/o faranno politica) intenda.
Se i cattolici che fanno politica dovessero sentirsi rappresentati da personaggi come Lusi (e amici) e come Formigoni (e Compagnia), sarebbe difficile pensare che la politica sia buona e che sia un ideale da perseguire. Non si tratta di imbastire processi contro qualcuno: ognuno è responsabile delle proprie azioni, soprattutto se intime e segrete (chi è senza peccato…), ma di chiedere, specie ai cattolici, di testimoniare le ragioni della propria speranza. Non occorre essere e proclamarsi “di parte cattolica” per invocare l’esigenza di una buona politica per tornare a crescere (Documento per “Todi 2”).
Gli amici “cattolici” che tornano a muoversi verso Todi per la seconda volta (e quante volte ancora?) dovrebbero, insieme alla totalità dei cattolici, che presumibilmente non rappresentano, chiedersi, con fraterna e coraggiosa parresìa, a che punto siamo della notte e quanto ancora all’alba?
La riflessione rischia di divenire parenesi di noiosa omelia domenicale. Le numerose iniziative che intendono promuovere il dialogo tra le parti e richiamare al dovere della moderazione reciproca, se non velleitarie, sono tentativi utili e necessari, in una società dalle tendenze individualiste e dalle crescenti ineguaglianze economiche, sociali, culturali.
Forse i cattolici hanno bisogno di tornare dalle parti di Cremona per ascoltare il richiamo di un don Mazzolari, preoccupato che i suoi fedeli cattolici non fossero ancora tanto cristiani. La moderazione di cui molti “politici cattolici” si riempiono la bocca sembra coincidere con la “vecchia” capacità di mediazione di certa Dc (i dorotei, moderati per eccellenza), capace di “mediare su tutto” dato che ormai non “credevano più in niente”.
La moderazione, che è l’affermazione di una mitezza estrema e di un esercizio di vita, da tradurre anche nella eventuale gestione del potere (anche politico), per il cattolico si traduce nella capacità di essere profeta, senza essere necessariamente “religioso” ma semplicemente “laico” (come lo furono tutti i profeti dell’A.T. e dei nostri tempi).
La società di questo nostro tempo globalizzato lo richiede a tutti gli “uomini di buona volontà”, a partire dai credenti (cattolici e non). Ma solo a loro? Sarebbe una presunzione se non fosse progetto da realizzare “laicamente” con tutti coloro che lo vogliono, inducendoli con la “testimonianza” (quella del martire, non quella potente e danarosa di Cl) e la “mitezza del cuore”.
Il recente richiamo di un “laico” di professione e di lunga data, come Galli della Loggia (CorSera, 24 giugno), appare “stranamente” (perché ex partibus infidelium) condivisibile per il suo invito ai cattolici, non solo a non farsi tentare da vecchie nostalgie di “partito cattolico”, ma a impegnarsi a dare «voce cristiana, e quindi cattolica», entrando nell’agone culturale, e se si vuole pre-politico, per ristabilire i punti forti dall’etica pubblica, della legalità, della ricerca autentica del “bene comune”.
I “credenti-cattolici” sono “popolo di Dio”, ma anche “popolo di cittadini”, impegnati nella società con tutti gli altri, per renderla “vivibile”. Ma questo è il compito e lo scopo della società civile. Quella “religiosamente connotata” non è parte a sé, ma “parte del tutto”, chiamata a farsi lievito per la pasta, con il prezioso contributo dei valori propri. E allora che bisogno c’è di pellegrinare a Todi?
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Quel che resta dei cattolici”. Una ricerca sulla crisi della chiesa in Italia
Luca Kocci
Adista Notizie n.27/2012
Quella italiana resta una società cattolica: dal punto di vista quantitativo i sacramenti reggono, l’istituzione ecclesiastica gode di un enorme spazio e ruolo pubblico, i “grandi eventi” cattolici – dai family day ai raduni giovanili con il papa – riempiono le piazze. Questo è quello che appare, limitando l’osservazione alla superficie. Ma approfondendo la visione, senza fermarsi alle statistiche ufficiali e all’informazione mainstream, si vede con chiarezza che la fotografia non corrisponde alla realtà: la partecipazione alla messa domenicale è in netto calo, il popolo di Dio appare sempre più distante – se non indifferente – alle indicazioni della gerarchia, la società è sempre più secolarizzata.
Quello che rimane, però, non sono macerie e deserto, ma una sorta di sdoppiamento, di «due Chiese»: la Chiesa «macchina dei sacramenti», istituzionale e gerarchica da una parte, la Chiesa del Vangelo e del «popolo di Dio in cammino» dall’altra. La prima sembra apparentemente capillare, solida e potente, ma è in realtà fragile e vuota («un immenso edificio ancora sostanzialmente integro nella facciata», al cui interno però sempre più spesso «crolla una parete o un pavimento»); la seconda è periferica e minoritaria, ma anche vitale e autentica. Con una speranza per il futuro: i laici. A patto che le gerarchie concedano loro autonomia e libertà e a condizione che si prenda atto, senza rammaricarsene, che i cattolici autentici sono ormai minoranza nel Paese e che la società cristiana è un’eredità del passato verso cui non provare alcuna anacronistica nostalgia.
È il quadro che emerge dalla ricerca di Marco Marzano (Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia, Feltrinelli, Roma, 2012), sociologo dell’Università di Bergamo già autore di altre monografie sul mondo cattolico, che, a differenza di analoghi studi, «armato di scarpe buone, di taccuino e di registratore», come scrive egli stesso, non si ferma alla contabilità dei dati, ma attraversa il cattolicesimo reale delle parrocchie – oggetto centrale della sua indagine –, degli oratori, dei gruppi e dei movimenti, interloquendo con preti, parroci, animatori, “cattolici della domenica” e cattolici militanti e impegnati, per fare una radiografia sicuramente non esaustiva, ma completa e veritiera del cattolicesimo italiano, «quello che si intreccia con la vita quotidiana di milioni di italiani, di una massa di persone sistematicamente esclusa dai riflettori delle grandi ribalte mediatiche occupate invece quotidianamente da papi e cardinali».
E allora battesimi e prime comunioni resistono non tanto perché i fedeli siano convinti dell’importanza vitale della loro celebrazione, ma perché sono tappe predefinite dell’esistenza sociale di un cittadino italiano, credente e no, a mezza strada fra «rito magico» e scadenze rituali che segnano la “presentazione in società” di una bambina e di un bambino, oppure occupazioni pomeridiane (i vari catechismi) da affiancare ed incastrare fra la palestra e la piscina in attesa della festa conclusiva da vivere con amici e parenti. Quando però il percorso si è esaurito, tranne eccezioni quantitativamente minoritarie, la cresima diventa il «sacramento dell’addio» – addio dalla frequentazione della parrocchia e spesso da qualsiasi forma di cammino di fede –, la penitenza è di fatto già scomparsa, i matrimoni religiosi crollano anche numericamente (257mila nel 1991, 156mila nel 2008) – e quelli che sopravvivono in molti casi hanno la motivazione non particolarmente forte della bella liturgia nella bella chiesa del centro storico – e si torna a celebrare o a partecipare ad un sacramento solo alla fine della vita, in occasione del funerale, anche in assenza di un analogo rito laico di elaborazione collettiva del lutto.
Alle parrocchie in crisi – guidate generalmente da due parroci-tipo: gli «ordinari», che «tirano a campare» vivendo sulla «rendita» del «residuo radicamento sociale di cui la Chiesa può ancora beneficiare», e i «rinunciatari», che «hanno decisamente tirato i remi in barca chiudendo i battenti della parrocchia o quasi» –, se non vogliono rassegnarsi all’idea del «rally del prete» che corre da una parte all’altra per celebrare messe ed amministrare sacramenti, restano due possibilità: gettarsi a capofitto fra le braccia dei movimenti, ufficiali o no – e qui spesso compare la figura del parroco «carismatico» e accentratore –, oppure scegliere la faticosa strada tracciata dal Concilio Vaticano II che prevede la «crescita di un laicato autonomo e responsabile», perché «la parrocchia deve diventare la casa della comunità e smettere di essere quella del prete», racconta a Marzano don Marcello, parroco di Santa Rosa, parrocchia della periferia di una grande città.
È questa, secondo Marzano, la speranza per i cattolici italiani: «Una Chiesa umile e di minoranza, libera dalle ansie dell’imperialismo etico e dell’egemonia culturale, in grado di affrontare la crisi del clero e soprattutto di prendere sul serio le domande di espressività e di soggettività che vengono da credenti diventati sempre più adulti». Se i laici saranno in grado «di farsi sentire, di reclamare spazi e autonomie, di protestare contro le scelte sbagliate dei presbiteri e dei vescovi, di polemizzare con i movimenti, di richiedere un passo indietro al narcisismo clericale», «di pretendere di essere trattati da adulti, di vincere i complessi di inferiorità verso le tonache, le timidezze e quel moderatismo che li fa immancabilmente arrestare di fronte alla possibilità di una qualche frattura ecclesiale», forse allora si potrà costruire «una risposta più solida e credibile, meno velleitaria, all’ansia di rinnovamento» che spira da molte parti.
Altrimenti resterà solo da intonare il De profundis.