Iran, partita a scacchi sull’atomo
Michele Paris
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La prima giornata dell’atteso summit tra l’Iran e i rappresentanti dei P5+1 (USA, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania) a Baghdad si è conclusa con modesti progressi e lo scambio reciproco di proposte per risolvere l’annosa questione del nucleare di Teheran. Il secondo round di negoziati in questo 2012 è stato preceduto sia dalle solite minacce più o meno velate e da nuove sanzioni per mettere gli iraniani sotto pressione sia da qualche segnale incoraggiante, come l’incontro dall’esito moderatamente positivo tra le autorità locali e il direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Yukiya Amano.
Quest’ultimo, in seguito ai colloqui di Vienna andati in scena qualche giorno prima, domenica e lunedì si era recato a sorpresa a Teheran e, al ritorno nella capitale austriaca dove ha sede l’AIEA, ha affermato che un accordo sulle ispezioni degli ispettori internazionali ai siti militari segreti dell’Iran è a portata di mano. Pur senza specificare i tempi previsti e ammettendo ancora varie divergenze tra le due parti, Amano ha confermato “importanti sviluppi” nelle trattative per giungere ad un “accordo strutturale” con l’Iran.
Le discussioni che hanno preceduto l’incontro di Baghdad ruotavano sostanzialmente attorno alla possibilità da parte dell’AIEA di avere accesso al sito militare di Parchin dove, secondo rapporti di intelligence occidentali, gli iraniani avrebbero condotto test relativi ad esplosioni nucleari. L’Iran, in realtà, non ha mai opposto un rifiuto di principio alle ispezioni a Parchin, bensì aveva negato l’accesso al sito durante un’ispezione di qualche mese fa perché non concordata. In quell’occasione Amano ritirò bruscamente gli ispettori dall’Iran, scatenando sulla stampa occidentale una valanga di commenti circa la presunta mancanza di collaborazione della Repubblica Islamica.
Al contrario del suo predecessore, Mohamed ElBaradei, il diplomatico giapponese alla guida dell’AIEA dal 2009 è considerato molto più docile al volere di Washington e ha tenuto nel recente passato una linea dura nei confronti dell’Iran. Per questo motivo, l’ottimismo espresso qualche giorno fa dopo la sua prima visita a Teheran sembra confermare che gli Stati Uniti siano interessati ad una soluzione temporanea che mantenga aperti i canali di comunicazione con l’Iran almeno fino a dopo il voto per le presidenziali di novembre.
Questa strategia è volta a prevenire un attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane da parte di Israele nei prossimi mesi e ad evitare una nuova impennata del prezzo del greggio a causa dell’aumento delle tensioni in Medio Oriente. Scenari, questi, che comprometterebbero seriamente le chances di rielezione del presidente Obama.
Nel medio periodo, tuttavia, è facile prevedere un nuovo deterioramento dei rapporti tra l’Iran e l’Occidente, dal momento che il governo americano e i loro alleati da anni sfruttano la questione del nucleare – del quale non esistono prove che sia indirizzato a scopi militari – per promuovere un cambiamento di regime a Teheran.
Il relativo entusiasmo prodotto dai colloqui condotti da Amano, in ogni caso, è servito ad alleggerire l’atmosfera dei negoziati di Baghdad e ha evidenziato, come era apparso chiaro già a Istanbul lo scorso aprile, la volontà iraniana di fare alcune concessioni al gruppo dei P5+1. Questo atteggiamento più disponibile da parte dei rappresentanti della Repubblica Islamica testimonia di una certa unità ritrovata all’interno della classe dirigente dopo il colpo inflitto al presidente Ahmadinejad e ai suoi sostenitori con le recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento (Majlis), ma rivela anche un ovvio desiderio di vedere allentate alcune delle sanzioni occidentali che pesano sull’economia del paese.
La proposta avanzata dai P5+1 a Baghdad intende in primo luogo giungere al congelamento del processo di arricchimento dell’uranio al 20% in cambio di una serie di incentivi, come la promessa di fornire assistenza tecnologica a Teheran per lo sviluppo di un programma nucleare civile. Da parte iraniana, invece, il capo dei negoziatori, Saeed Jalili, ha a sua volta presentato un pacchetto in cinque punti che comprende una vasta gamma di questioni relative al nucleare e non solo.
Al di là del clima sostanzialmente cordiale di Baghdad, a testimonianza di come molti in Occidente siano più o meno apertamente ostili ad una risoluzione diplomatica della questione del nucleare iraniano, nei giorni precedenti il summit di Baghdad erano giunti numerosi segnali preoccupanti. Per cominciare, lunedì il Senato americano aveva approvato un’estensione delle sanzioni che gravano sul settore petrolifero iraniano colpendo altre due compagnie che operano in questo ambito e restringendo perciò ulteriormente i canali di vendita all’estero del greggio di Teheran.
All’inizio della scorsa settimana, inoltre, in un dibattito in tarda serata la Camera dei Rappresentanti aveva dato il via libera ad una risoluzione (H. Res. 568) che rende più facile l’azione militare contro l’Iran da parte statunitense. La misura autorizzerebbe di fatto un’aggressione preventiva nel caso l’Iran dovesse ottenere “la capacità di costruire armi nucleari”. La parola “capacità” è volutamente vaga e, in teoria, potrebbe già applicarsi alla situazione iraniana attuale ma anche a molti altri paesi come, ad esempio, Brasile o Giappone.
In un gesto probabilmente diretto al governo Netanyahu, giovedì scorso l’ambasciatore USA a Tel Aviv, Dan Shapiro, aveva poi detto alla radio dell’esercito israeliano che il suo paese ha già predisposto i piani necessari per un attacco contro l’Iran e che tale opzione è “totalmente disponibile”. Gli alleati europei degli Stati Uniti si sono anch’essi uniti al coro di minacce. Secondo quanto riportato mercoledì dalla BBC, infatti, il governo britannico starebbe valutando le proprie mosse in caso di un conflitto in Medio Oriente, scatenato da un’eventuale aggressione militare di Israele contro i siti nucleari iraniani.
Domenica scorsa, d’altra parte, il vice ministro degli Esteri russo, Sergey Rybakov, sul volo di ritorno dal G8 di Camp David aveva anch’egli confermato che alcuni paesi Occidentali stanno studiando una possibile azione militare contro l’Iran. Secondo Rybakov, “i segnali che ci giungono, sia dai canali pubblici che dalle fonti di intelligence, indicano come l’opzione militare in alcune capitali sia considerata realistica e possibile”.
Le provocazioni provenienti dall’Occidente e da Israele, secondo molti osservatori, servono soltanto a mantenere alta la pressione sul governo iraniano, così da convincerlo a cedere sulla questione del nucleare. Come si è più volte visto in questi anni, e non solo relativamente all’Iran, questa tattica aggressiva provoca tuttavia soltanto l’irrigidimento delle posizione della controparte e sembra perciò adottata precisamente per far naufragare i negoziati e giustificare un’azione più aggressiva per arrivare al rovesciamento di un regime non gradito.
Per quanto riguarda infine il vertice in corso a Baghdad, i negoziati continueranno nella giornata di giovedì, quando si conoscerà la risposta iraniana alla proposta dei P5+1. In ogni caso, come hanno messo in guardia i diplomatici presenti nella capitale irachena, dal summit ci si attende soltanto un eventuale accordo su misure volte a creare un clima di fiducia tra le parti, per poi riprendere i colloqui in una nuova sede nel prossimo futuro.