La Chiesa immor(t)ale

Federico Tulli
www.cronachelaiche.it/ 16 febbraio 2012

Come anche il più estroso dei bookmakers avrebbe previsto è rimasta immacolata la fedina penale di Joseph Ratzinger, Tarcisio Bertone e Angelo Sodano. La causa intentata nei loro confronti presso la Corte distrettuale del Wisconsin dall’avvocato di John Doe, una vittima del sacerdote e pedofilo seriale, Lawrence Murphy, deceduto nel 1998, si è conclusa con il ritiro della denuncia a pochi giorni dalla sentenza. Nel 2011 Jeff Anderson, legale di Doe, per far ottenere un risarcimento al suo assistito aveva puntato il dito contro la Santa Sede e i suoi gerarchi, sviluppando la teoria secondo la quale la responsabilità delle azioni di un dipendente deve ricadere sul datore di lavoro. Nel caso di Muprhy, dunque, non solo la diocesi di Milwaukee, ma anche il Papa in quanto a costui spettano le nomine dei vescovi in tutto il mondo. Quando Anderson ha capito che molto probabilmente avrebbe perso la causa, venerdì scorso 10 febbraio, ha ritirato la denuncia. Evitando così di compromettere l’esito di azioni giudiziarie simili avviate negli Stati Uniti nei confronti della Santa Sede in altri processi per pedofilia ecclesiastica.

Padre Lawrence Murphy, cappellano alla Saint John’s School di Milwaukee, violentò oltre 200 scolari sordomuti di età inferiore ai 12 anni tra il 1950 e il 1974. Solo a metà anni 70 fu trasferito dal proprio vescovo in un’altra diocesi dove a suo dire non commise più abusi. Secondo l’avvocato della Santa Sede Jeffrey Lena, intervistato da Andrea Tornielli per Vatican Insider, «è evidente che la responsabilità di fare in modo che non potesse più nuocere ricadeva sui vescovi». Lena quindi, spiegando la linea difensiva, ha ribadito che «la Santa Sede non può avere la responsabilità di controllare direttamente le azioni di più di 400.000 preti in giro per il mondo».

Per inquadrare meglio la storia facciamo un passo indietro di qualche anno. In base a un dossier reso pubblico nel 2010 dal New York Times è emerso che solo nel 1996, l’arcivescovo di Milwaukee monsignor Weakland aveva informato del caso il cardinale Ratzinger all’epoca prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. In un primo momento, l’allora segretario di Ratzinger, Tarcisio Bertone, apparve deciso a istruire il processo canonico. Informato del rischio di essere ridotto allo stato laicale, Murphy (che ammise tutti i suoi crimini quando oramai erano prescritti) scrisse ai suoi futuri giudici ecclesiastici di essere pentito e malato, e chiese di evitare il processo. Una linea di condotta probabilmente studiata a tavolino dal sacerdote pedofilo, poiché lo psichiatra assunto dalla diocesi di Milwaukee per esaminarlo aveva scritto chiaro e tondo nel rapporto conclusivo: «Non si rende conto del male fatto e sembra insensibile alle cure». Passano un paio di anni e il 30 maggio 1998 al termine di un summit in Vaticano in cui si deve decidere il da farsi, a Murphy viene intimato di «riflettere sulla gravità del male fatto» fino a quando non darà «prove di ravvedimento». La punizione viene comminata dall’attuale segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, nel corso di un incontro con monsignor Girotti, don Antonio Manna dell’Ufficio disciplinare, padre Antonio Ramos, monsignor Weakland, il suo vescovo ausiliare, monsignor Skiba e monsignor Fliss, vescovo di Superior.

Il resto è storia, Murphy muore il 21 agosto dello stesso anno senza aver mai speso una parola per le vittime. Ma non è l’unico a mantenere un rigoroso silenzio. Secondo quanto scritto nel documento «confidenziale» protocollato n. 111/96 – facente parte del dossier del New York Times – che riassume le fasi dell’incontro, Weakland nota che in caso di processo si correrebbe il «pericolo di grande scandalo qualora il caso venisse pubblicizzato dalla stampa». A calare la pietra tombale sulla vicenda ci pensa il cardinal Bertone osservando in quella stessa sede che il processo è inutile «per la difficoltà dei sordomuti a testimoniare senza aggravare i fatti».

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Un orco in meno e l’occasione persa

Federico Tulli
www.cronachelaiche.it/ 20 febbraio 2012

Ha violentato numerose bambine per 20 anni, a Firenze. Denunciato dalle vittime è stato riconosciuto, da chi l’ha indagato, responsabile dei crimini sulla base di prove e testimonianze inoppugnabili. Ma non ha mai messo un piede in tribunale italiano. E mai lo farà, mercoledì scorso è morto. Come è stato possibile? Perché in Italia la brevità dei termini di prescrizione previsti per gli abusi “sessuali” (10 anni) consente a un pedofilo di passare agilmente tra le maglie della giustizia e farla franca.

Il caso dell’ex parroco fiorentino Lelio Cantini, autore di violenze su minorenni di età compresa fra i 10 e i 17 anni, e deceduto a 89 anni nella più assoluta indifferenza dei media nazionali, è emblematico per comprendere quanto siano inadeguati i termini di prescrizione stabiliti dall’ordinamento italiano per questo genere di reato. Dato lo scalpore che suscitò la vicenda quando venne alla luce a metà del decennio scorso, sarebbe stata l’occasione giusta per riaccendere i riflettori su di un nodo irrisolto nella difficile battaglia contro la pedofilia e avviare un dibattito pubblico. E invece il silenzio dell’informazione non fa che rafforzare la genetica (e sospetta) inerzia di Governo e Parlamento di fronte a queste vicende. Accusato per abusi avvenuti tra il 1973 e il 1993, Cantini fu denunciato nel 2004 da alcune vittime che per prime avevano avuto il coraggio di rivolgersi alla magistratura. Erano quindi passati undici anni dalle ultime presunte violenze e questo l’ha messo al riparo da una condanna penale. L’archiviazione per prescrizione dei reati è scattata a maggio 2011 e il decreto gli è stato notificato nel convento dei frati francescani di Fiesole. Qui l’ex parroco della Regina Pacis si era ritirato nel 2008 dopo essere stato ridotto allo stato laicale perché riconosciuto responsabile di «abuso plurimo e aggravato nei confronti di minori» da parte della Congregazione per la dottrina della fede. Colpevole per il Vaticano, prescritto per lo Stato italiano.

Per inciso, la sentenza della Cdf non ha impedito alla Curia toscana di rendersi protagonista di una surreale polemica con la procura di Firenze. Polemica che vale la pena riassumere brevemente anche per ricordare l’idea che si erano fatti i magistrati su questa vicenda. Nel decreto di archiviazione il pm Canessa faceva riferimento a comportamenti omissivi da parte delle autorità religiose e a una «lunga inerzia» che aveva consentito a don Cantini di proseguire nella sua condotta. La stoccata parte dal periodico delle diocesi locali Toscana Oggi che definisce il decreto una condanna «impropria», pronunciata «senza processo». Secca la replica della procura di Firenze che sottolinea come nella richiesta di archiviazione fosse contenuto «l’elenco dei singoli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini in merito alla sussistenza dei fatti addebitati all’indagato ed alle condotte di terze persone unitamente ai motivi per cui non è stato possibile esercitare l’azione penale, o per estinzione del reato per prescrizione (fatti addebitati al Cantini), o per mancanza di querela (fatti relativi alle asserite minacce ricevute da alcune parti offese ed agli abusi sessuali patiti da persona compiutamente identificata)». Molto probabilmente, dunque, colpevole anche per lo Stato italiano. Ma prescritto.

Della necessità di rivedere i termini di prescrizione si è molto parlato sulla scia degli scandali che hanno colpito la Chiesa cattolica di mezza Europa tra il 2009 e il 2010, quando il governo italiano rappresentato dalla ministra per le Pari opportunità, Mara Carfagna, ospitò la cerimonia di presentazione della campagna anti-pedofilia lanciata dal Consiglio d’Europa. In quella occasione, era il 29 novembre 2010, Carfagna nel rispondere a chi scrive assicurò che anche il nostro parlamento «nelle prossime settimane» avrebbe ratificato la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso “sessuale”. Sono passati 15 mesi. Il testo di legge – che contiene tra le altre misure, il raddoppio dei termini di prescrizione entro cui è possibile denunciare l’abuso, l’introduzione del reato di apologia della pedofilia e l’inasprimento delle pene – giace esangue alla Camera senza che nessuno sappia dire quando e se riprenderà l’iter di approvazione. Considerando la particolare ferocia del reato e, sopratutto, le conseguenze a livello psichico che subisce la vittima di un abuso, da anni è in atto in Europa una campagna per l’eliminazione di qualsiasi termine di prescrizione per questo crimine. Non sono affatto rari i casi in cui chi ha subito una violenza in tenera età impieghi anni, se non decenni (come nel caso delle donne abusate da don Cantini), a vincere vergogna, sensi di colpa, diffidenza dei familiari e dell’ambiente in cui vive prima di rivolgersi a uno specialista o all’autorità giudiziaria per raccontare quanto subito. In Italia, grazie alla cosiddetta norma ex Cirielli la prescrizione per il reato di “pedofilia” (termine tuttora assente dal nostro codice penale) è stata addirittura ridotta da 15 a 10 anni.

Altrove l’approccio istituzionale è ben diverso. Ad esempio, in Germania, il 23 marzo 2011 la pressione dell’opinione pubblica indignata per gli scandali emersi in numerosi istituti scolastici del Paese retti da gesuiti, portò all’approvazione di una legge che prevede un allungamento da tre a 30 anni per i tempi di prescrizione delle responsabilità civili. Una misura inevitabilmente destinata a rafforzare la posizione delle vittime nelle procedure penali relative a casi di pedofilia. Di notevole importanza sono, almeno sulla carta, anche le Nuove norme approvate a maggio 2010 da Benedetto XVI, che in Vaticano fanno scattare la prescrizione dopo 20 anni dal compimento della maggiore età del minore «con» cui il «chierico» ha compiuto l’atto di violenza. Come pure segna una svolta il Protocollo emanato ad aprile 2011 dalla Conferenza episcopale cilena a fronte del clamoroso “caso Fernando Karadima” (sacerdote ottuagenario molto noto nel Paese e tra i più influenti religiosi nella Chiesa del Cile), tristemente simile a quello di don Cantini, che consente alle gerarchie locali d’indagare anche nelle vicende in cui sia già subentrata la prescrizione. Misura che denota estrema civiltà e lancia un segnale forte anche contro chi si ostina a proteggere migliaia di scheletri in altrettanti armadi, ma che ancora oggi non ha “imitatori” in nessun altro Paese al mondo. Italia compresa.