Cipro: Il muro uccide ancora
di Christian Elia
da www.peacereporter.net
Sono passati 35 anni. Oggi il governo greco e quello di Cipro hanno commemorato l’attacco dell’esercito turco nell’isola del Mediterraneo per tutelare la comunità turca dalla volontà di annessione della Grecia. Cipro è anocrea divisa, anche se la riunificazione sembra sempre più vicina. Ma il muro che divide in due l’isola da 35 anni uccide ancora.
”Ammetto che non pensavo fosse così pericoloso, ma anche se l’avessi saputo l’avevo promesso ai miei figli. Vi porterò fuori da questo inferno nel quale hanno trasformato l’Iraq, gli avevo detto. Loro mi guardavano sicuri che tutto sarebbe andato per il meglio, si fidavano di me. Certe volte, quando guardo la cicatrice di mio figlio e rifletto su come sono ridotto penso di averli delusi”.
Alì Fahad non ha la faccia buona. Fisico tarchiato, pochi capelli, sguardo da duro, baffoni neri come la notte. La moglie sorride sempre, mentre prepara il tè e riceve gli ospiti nel piccolo appartamento arredato in modo impersonale. La casa, nei pressi del lungomare di Larnaca, l’hanno ottenuta dal governo greco-cipriota, assieme allo status di rifugiati politici. Alì, sua moglie e i loro tre bimbi. Undici, otto e cinque anni. Tutti attorno al papà, che siede sul divano. Un quadretto familiare perfetto, se non ci fosse quel trespolo di ferro che serve ad Alì per tenere alta la gamba destra, spappolata dal calcagno al tallone da una mina anti uomo. Un elemento innaturale, che l’abbraccio della famiglia di Alì rende meno duro ma non meno stridente.
”Venivamo da anni terribili e, forse, ho avuto un calo d’attenzione. Mi sono rilassato, a un soldato non dovrebbe mai capitare”, racconta Alì. L”uomo non è un rifugiato come tanti, figlio disconosciuto di un Paese in guerra. Alì è sempre stato uno che la guerra l’ha fatta. Alla parete c’è una foto enorme: Alì in divisa che stringe la mano a Saddam Hussein. Un generale della Guardia Repubblicana, i fedelissimi del rais. ”Quando gli Stati Uniti e tutti gli altri hanno invaso l’Iraq abbiamo provato a difendere la nostra terra, ma c’era troppa differenza di forze in campo. Molti dei nostri si preparavano alla guerriglia, ma io non ne volevo sapere. Il governo iracheno era stato rovesciato e da quel momento eravamo un Paese occupato e non volevo relazionarmi con tutti i tipi strani che sono arrivati in Iraq. Ho subito deciso di lasciare il Paese, ma è cominciato un incubo”.
Alì e la sua famiglia scappano in Siria prima, in Giordania poi. Non lo dice, ma come gerarca del regime aveva disponibilità economiche negate a tanti innocenti in fuga dalla guerra. Contando su protezioni politiche o amicizie personali in giro per il Medio Oriente riesce a trovare ospitalità, anche in Turchia per un periodo. ”Alla fine però dovevamo sempre scappare, perché la mia presenza metteva nei guai i miei amici. Mi cercavano i servizi segreti di mezzo mondo. Nel 2007, dopo quattro anni di fuga, mi hanno costretto a tornare in Iraq”, racconta Alì, mentre moglie e figli lo ascoltano in silenzio, pendendo dalle sue labbra. ”La situazione era insostenibile. La casa era perduta, ma abbiamo trovato accoglienza in casa di un parente. Dopo qualche tempo la notizia della mia presenza si è sparsa: troppo pericoloso restare a Baghdad”. In quanto generale della Guardia Repubblicana, nell’Iraq del dopo Saddam la vita di Alì valeva meno di niente. ”Mi cercavano gli Usa, i fondamentalisti venuti dall’estero, gli sciiti e i curdi. Tutti volevano uccidermi”. In fondo Alì sa di aver fatto qualcosa, all’epoca del regime di Saddam, per meritarsi tutto questo odio. ”In Iraq, dopo il 2003, ti ammazzano per niente. Per il resto, che dire, eseguivo gli ordini”. In perfetto stile da Processo di Norimberga Alì taglia corto, con uno sguardo che ha un solo significato: di questo non parlo.
”Ho deciso di scappare ancora, investendo gli ultimi soldi che mi erano rimasti. Un amico, dalla Siria, ha detto che poteva ospitarmi per un po’, poi mi avrebbe messo in contatto con qualcuno che mi avrebbe portato a Cipro, nella zona turca – racconta l’ex generale iracheno – Da là, a sentir lui, era molto facile passare nella zona greca, quindi nell’Unione europea. Così avrei potuto ottenere lo status di rifugiato politico”. La famiglia di Alì si mette in viaggio di nuovo, all’inizio del 2008. Riesce ad arrivare in Siria, vivendo nascosti. Riesce anche a procurarsi i soldi necessari per il viaggio di cinque persone: 15mila euro. ”Tutti quelli che conoscevo mi hanno aiutato”, racconta Alì, sorvolando sui fondi messa da parte durante il regime. ”Il 4 dicembre del 2008, dopo un anno da incubo, siamo riusciti a partire per Cipro. L’organizzazione, che ho contattato a Damasco, mi ha assicurato che avrebbero pensato a tutto loro. All’arrivo nell’isola avrei trovato un altro membro della banda che avrebbe portato me e la mia famiglia fino a un punto del muro dove è facile passare. Dall’altra parte avrei trovato ancora un altro tizio che ci avrebbe portato fino a Nicosia dove avrei potuto chiedere lo status di rifugiato per tutti noi”.
Non è andata così.”Durante il viaggio nessun problema e, arrivati a Cipro Nord, abbiamo trovato un furgone che ci aspettava. Eravamo venti persone, alcuni iracheni (ai quali non ho mai rivelato la mia identità), palestinesi e ceceni – dice Alì – Io temevo che qualcosa potesse andare storto, ma tranquillizzavo tutti, ostentando sicurezza. I miei figli mi guardavano, capisce. Sono sempre stato il loro eroe. Ma quella maledetta notte qualcosa è andato storto. Era la notte tra il 4 e il 5 dicembre. Il tizio che guidava il furgone ci ha portati in aperta campagna. Quel buio pesto non mi piaceva. Ho combattuto nella guerra con l’Iran, ho combattuto in Kuwait e contro gli Usa. So riconoscere il pericolo, ma il tizio pakistano ci continuava a dire che era tutto a posto. Mi sono fidato. Ho sbagliato”.
La moglie di Alì tira a sé, stringendolo in un abbraccio, il figlio piccolo. Come a proteggerlo dai ricordi. Il bimbo ha una cicatrice sulla tempia destra. ”Mia moglie teneva il grande per mano, mentre io mi tiravo dietro i più piccoli. Affondavamo nel terreno, era faticoso camminare. Faceva freddo, tanto freddo, ma non c’era ghiaccio. In quel momento ero contento, magari invece mi avrebbe salvato la gamba. E’ stato all’improvviso. Ho capito subito di aver pestato una mina e di averla innescata. Ho tentato di lanciare lontano da me i bimbi, ma il più piccolo è stato colpito da una scheggia alla testa. Io ho sentito un dolore lancinante, la vista mi si è offuscata. Ricordo solo le urla di mia moglie e la faccia di mio figlio. Poi sono svenuto”. Gli altri figli toccano la cicatrice del piccolo, mostrandolo come un pupazzo e ridendo con lui, come solo i bambini sanno fare delle tragedie. La moglie di Alì, invece, si asciuga una lacrima e continua il racconto. ”Ero disperata, pensavo fossero morti entrambi. Gli altri mi hanno aiutato e, quando hanno girato il corpo di mio marito, ho visto che aveva il piede ridotto a un grumo di sangue – dice la donna – mio figlio invece strillava e aveva una macchia di sangue sulla testa, ma era vivo. Ho guardato la guida che era isterico e continuava a dire che dovevamo muoverci o altrimenti sarebbero arrivate le guardie di frontiera. Gli ho detto di aiutarci, invece di dire idiozie! Ma è scappato. Proprio così, ci ha abbandonati là, come animali braccati”.
Al buio, in un Paese sconosciuto, con due feriti e in una zona minata. Un incubo divenuto realtà. Il gruppo è rimasto là, preparandosi al peggio. L’esplosione, però, aveva attirato davvero l’attenzione di una pattuglia greco-cipriota che è accorsa con un’ambulanza sul posto. Da quel momento Alì e il piccolo sono stati ricoverati in ospedale e curati. Hanno ottenuto la casa e lo status di rifugiati. ”Solo che adesso temiamo di perdere tutto”, dice Alì. ”In molti a Cipro parlano di rispedirci a casa, ma in Iraq ci ucciderebbero. Io voglio guarire, trovarmi un lavoro e rifarmi una vita qui con la mia famiglia’
‘.
Il tema dei rifugiati politici, a Cipro, è al centro di un aspro dibattito. ”Il problema è che, attraverso un’accurata campagna dei media, si è riusciti a far passare un messaggio: tutti i richiedenti asilo sono bugiardi. Fingono storie cariche di dolore, ma sono in cerca di lavoro come tutti gli altri. Di un lavoro che finiscono per togliere ai ciprioti. E la gente ci crede”. Doros è un’attivista che si batte per il rispetto dei diritti umani nell’isola del Mediterraneo. Dirige il Kisa Center, una specie di network di avvocati, operatori sociali e attivisti che tenta di migliorare la situazione, legale e sociale, dei migranti a Cipro. Nel loro ufficio, una palazzina nel centro storico di Nicosia, sembra di essere a Babele: uomini, donne e bambini provenienti da tutto il mondo affollano il cortile e lo animano di chiacchiere frizzanti. ”A Cipro, al di là dell’assistenza sanitaria gratuita, manca tutto per coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiati – spiega Doros – non c’è una politica reale d’inserimento di queste persone. Alcuni di loro, in attesa di sapere se la loro domanda è stata accettata oppure no, aspettano fino a otto anni, muovendosi come fantasmi.
Ricevono un piccolo sussidio mensile e fanno lavoretti saltuari, ma non riescono davvero a rifarsi una vita”. I flussi di migranti sono notevoli, a Cipro, vista la prossimità tra la zona turca e quella greca. Un muro separa due mondi opposti. Solo che ci sono le mine. ”Quello che è capitato ad Alì e alla sua famiglia, per fortuna, riguarda una minoranza di persone”, spiega il direttore del Kisa Center. ”L’aspetto inquietante, però, è che questo genere d’incidenti è in aumento e soprattutto in zone che non risultano minate. Non so che pensare. Secondo alcuni i trafficanti di essere umani, che sono privi di qualsiasi scrupolo, mettono mine anche dove ce ne sono per scoraggiare quelli che vorrebbero passare senza pagare loro. Altri sostengono che sia la polizia stessa a porre le mine, per rendere il confine impermeabile ai migranti. Oppure, come capita, le mine negli anni si spostano. Ma per me, questa è l’ipotesi meno credibile. Anche se spero di sbagliarmi”.