GENOVA PRIDE 2009 – alcune riflessioni

di comunità cristiana di base di Pinerolo

(…) come uomini e donne, come cristiani/e, in forza della nostra umanità e della nostra fede, siamo convinti/e che ognuno/a abbia il diritto di essere se stesso/a nella pace, nell’amore e nella libertà, qualunque sia la sua identità affettiva e sessuale, culturale, religiosa, etnica.

Vogliamo, nel contesto di tutte le lotte per i diritti civili, partire dal riconoscimento del diritto di identità sessuale come momento costitutivo della personalità, sapendo che dire e vivere queste cose è una buona azione civile in una situazione che non è per niente civile.

La bellezza della nostra fede ci orienta a lavorare per una chiesa plurale in cui non sia permessa nessuna dittatura teologica né alcuna prassi ecclesiastica che impediscano alle comunità e alle singole persone, nel confronto costante tra esperienze e voci diverse, di esprimersi liberamente. La libertà gioiosa e responsabile dei figli e delle figlie di Dio rappresenta un connotato essenziale della nostra fede.

Ora nelle chiese cristiane, senza per nulla coltivare illusioni, è in atto un cammino irreversibile di cui sono protagonisti i gay e le lesbiche credenti. Il vento di Dio non può essere fermato né da documenti colpevolizzanti né da interventi repressivi.

(…) Noi ci muoviamo in direzione diversa. Il discorso pubblico, aperto, esplicito e motivato ha in sé una portata positiva, conferisce dignità, favorisce le persone e l’affermazione dei diritti.
E’ tempo infatti di dire apertamente che l’inconciliabilità tra esperienza gay, lesbica, trans e vita autenticamente cristiana è un pregiudizio, un oltraggio alle persone, una affermazione teologica che si può motivatamente e tranquillamente contrastare e rifiutare, una discriminazione inaccettabile, una bruttificazione della fede.

Molti gay e molte lesbiche sono cristiani e cattolici “né più né meno” degli eterosessuali, possono vivere il loro amore senza sensi di colpa e partecipare a pieno titolo a tutta la vita della comunità cristiana. E voglio aggiungere che le lesbiche ed i gay, qualora lo desiderino e lo richiedano per motivi di fede, hanno il diritto di celebrare festosamente la loro unione d’amore nella comunità cristiana (Se non è ius conditum è ius condendum).

La nostra comunità di base di Pinerolo e altre comunità cristiane non vedono in questa scelta nulla di straordinario o di contrario all’evangelo di Gesù e continueranno a farlo nelle modalità concordate con i/le celebranti. In questi anni sarà fondamentale la dimensione ecumenica, interreligiosa delle nostre ricerche e delle nostre prassi.

Uscire dalla comoda terra di nessuno e investire con coraggio nella speranza e nella lotta, con amore nonviolento, è il cammino in cui non possiamo perdere tempo nel leccarci le ferite o nelle sterili polemiche.
Le strade si aprono e si percorrono solo insieme: credenti, non credenti, gay, lesbiche, eterosessuali, transessuali e quanti altri/e credono nell’amore e nella libertà che è fatta di convivialità delle differenze.

(…) Il paradosso è davvero provocatorio: se si accordano i più scatenati nemici, come possiamo noi – che siamo tutti e tutte semplicemente uomini e donne e, nel linguaggio della fede, creature – non trovare la strada? Forse che, nel cammino della vita, gay, lesbiche ed eterosessuali non cerchiamo gli stessi sentieri di amore, di giustizia, di tenerezza, di felicità? Non cerchiamo forse tutti/e un mondo dove ci si accolga gli uni le altre, dove ci sia più “posto” per ogni persona e meno egoismo?

(…) Ma perché le nostre strade diventino comunicanti occorre evitare una trappola. Occorre evitare di chiedere permesso, di chiedere l’autorizzazione e la benedizione alla “chiesa del bussate e vi sarà chiuso”.
Finché gay e lesbiche, divorziati/e, separati/e, conviventi, oppure preti che incontrano un amore continueranno a chiedere il permesso di vivere le proprie esperienze alla chiesa-gerarchia, forse non nascerà molto di nuovo.

Continuare a bussare alla porta della chiesa-gerarchia per chiedere di entrare e per ottenere almeno un posticino all’ombra ad occhi bassi e tenendo il fiato per non disturbare nessuno, significa bussare alla porta sbagliata e compiere un’operazione da schiavi/e.

In tal caso, continuando a chiedere il patentino alle gerarchie, siamo noi che non abbiamo liberato la nostra coscienza e, anziché praticare un dignitoso confronto, ricadiamo nella grave malattia dell’obbedienza ecclesiastica a qualunque prezzo.

La porta della chiesa cristiana è aperta da Dio, come ci ha insegnato Gesù:”Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Matteo 7,7-8).

Se vogliamo usare questa metafora della porta, dobbiamo ricordarci che l’unica porta alla quale i credenti devono bussare è la porta di Dio.

(…) Oggi abbiamo da fare cose più serie che non il perdere tempo rincorrendo un insegnamento sconfortante nella sua forma, odioso nella sua sostanza, ridicolo nei suoi riferimenti teologici e culturali, tragicamente perdente sul piano storico.

Ecco perché ha sempre più senso il nostro “esserci” nelle chiese cristiane senza ridurci al pensiero dominante. Ecco perché una presenza dialogica, disobbediente in nome dell’obbedienza al Vangelo, … è sempre più feconda e non cede alla tentazione di mettersi da parte.

Forse, ripensando alle varie teologie femministe e alle varie teologie della liberazione, ci accorgiamo che i frutti migliori sono cresciuti là dove ci si è presi il permesso (la gioia ed il coraggio) di non chiedere più il permesso, ma di riflettere e agire dentro le chiese in vera libertà.

Crediamo che umiltà ed audacia possano accompagnarsi: possiamo tenere i cuori vicini anche se le nostre idee sono lontane. Anche questo è un modo “amoroso” di stare nella società e nelle nostre chiese (…). (GIUGNO 2008)

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(…) In ogni cosa è determinante l’impegno quotidiano, spesso quasi “invisibile”. E’ proprio in questa direzione che si costruiscono i percorsi più fecondi e duraturi. Le esperienze più utili sono proprio quelle che maturano lentamente, silenziosamente, nei piccoli gruppi, negli incontri personali … senza alcun rumore. Ma se il Gay Pride non ha senso senza questa piccola rete di relazioni e di impegni quotidiani, è pur vero che esso ha il pregio di rendere evidente la realtà omosessuale in un contesto che vuole emarginarla e renderla invisibile.

(…) Poter uscire allo scoperto e gridare in pubblico la gioia di essere gay o lesbica o transessuale non ci sembra cosa di poco conto. Poi per noi credenti della comunità di base di Pinerolo il Gay Pride, in questo annuale riproporsi in molte città, è decisamente rilevante perché manifesta un fatto davvero positivo: sono sempre più numerosi gli omosessuali credenti che, anche nei cortei, dichiarano la loro fede senza lasciarsi “sconfortare” dalle dichiarazioni della gerarchia cattolica.

Come in ogni iniziativa collettiva, anche nel Gay Pride esistono sempre aspetti e linguaggi deboli e urtanti sui quali è utile saper ascoltare osservazioni critiche e suggerimenti, ma il messaggio centrale è quello della libertà, della tenerezza, la voglia di poter essere in pubblico ciò che si è in privato.

(…) la libertà non è mai sganciamento totale da ogni vincolo. Ci sono vincoli che stringono e costringono, che sono ingiusti e prevaricatori, opprimenti e spersonalizzanti: è nostro impegno spezzarli. “Ma ci sono anche vincoli che offrono opportunità, che aiutano a crescere. Come il filo che Arianna offre a Teseo per farlo uscire dal labirinto: da una parte, in quanto filo, fune e legame, vincola e lega, ma dall’altra parte… aiuta a ritrovare la strada per uscire dal labirinto stesso” (Fran
cesca Rigoti, Animazione sociale 8/9 2001).

Anche un legame, un vincolo d’amore non va buttato via alla prima rottura o alla prima tempesta. Certi “vincoli” assunti liberamente esigono anche una certa dose di disciplina dei sentimenti e della volontà per essere mantenuti in vita. Proteggerci dalle decisioni avventate, custodire con cura un amore, disciplinare le nostre relazioni è necessario per diventare persone libere e responsabili. Questo però non esclude che, come può capitare ad un sacerdote che scopre la vocazione all’amore o in una separazione tra due persone che si sono impegnate con un matrimonio o un patto di amore, si resti liberi di passare a seconde nozze o ad altra scelta rompendo il vincolo precedente.

Quando un vincolo di amore cessa di essere uno stimolo, uno spazio di vita e diventa un ostacolo, una fonte di angoscia, allora può essere necessario romperlo e compiere nuove scelte dopo accurata analisi della situazione. Sovente si tratta semplicemente e dolorosamente di prendere atto che la realtà è cambiata. Quando il vincolo è privo di contenuto, quando i tentativi di rivitalizzarlo risultano inefficaci, onestà vuole che si cerchino altri sentieri per vivere e amare. Ma i nuovi sentieri non sono sconfinate praterie in cui si corre senza regole e senza relazioni impegnative. La libertà è fatta anche di salutare disciplina.

(…) celebrazioni liturgiche delle unioni di amore di coppie gay e lesbiche: esse contengono parole, sentimenti e riti che esprimono la costruzione di un percorso di fedeltà.Queste persone danno una profonda testimonianza di libertà dagli schemi culturali e religiosi dominanti e, nello stesso tempo, mettono davanti agli occhi la loro scelta di amore responsabile e fedele. L’omosessualità non è una scelta, ma una condizione. Perciò il vivere un rapporto stabile e fedele è davvero una scelta matura che molti gay e lesbiche cercano con tutto il cuore.

Lawrence Kushner, Con gli occhi della mente, Edizioni Ecig, pag. 123-124: “Quello che sappiamo sull’omosessualità è che non sappiamo che cosa rende omosessuale una persona. Il figlio di chiunque può venir fuori omosessuale. Qualunque cosa sia quello che fa diventare omosessuale un uomo o una donna, stando alle migliori conoscenze scientifiche a nostra disposizione, non sembra aver niente a che fare con i genitori, con la società o con la salute mentale. In tutte le culture il numero degli omosessuali resta apparentemente costante. Le statistiche suggeriscono che sono circa il cinque – dieci per cento dell’intera popolazione. Insomma, a dispetto di quello che facciamo o non facciamo, un certo numero di esseri umani saranno gay o lesbiche.

Persone che conosciamo e amiamo saranno – o sono già – omosessuali: molte di loro sono proprio i nostri figli. E non c’è assolutamente niente che possiamo o potremmo fare per cambiare questa realtà. L’omosessualità è un immutabile aspetto della personalità. Non possiamo chiedere agli omosessuali di praticare il celibato. L’amore e le sue espressioni in ogni forma di attività umana, inclusa la sessualità, sono una dimensione indispensabile della realizzazione umana. Rifiutandoci di legittimare una relazione monogamica omosessuale, infatti, scoraggiamo queste persone dal costruire famiglie stabili. Mentre l’attuale realtà sociale rende inevitabile la creazione di comunità “gay”, potremmo cercare di formare una comunità ebraica nella quale tutti sono benvenuti e rispettati indipendentemente dalle loro preferenze sessuali. Non c’è ragione morale o religiosa per la quale due uomini o due donne non possono creare relazioni monogamiche, attente e amorevoli, e famiglie.

Le coppie omosessuali possono allevare alla perfezione figli sani. In effetti, dati i disastri dell’educazione infantile di cui siamo testimoni all’interno di famiglie eterosessuali, è diffìcile immaginare come genitori omosessuali possano fare di peggio. Tutti noi siamo obbligati ad aiutare gli esseri umani a realizzare al massimo il potenziale che hanno ricevuto da Dio in qualunque corpo, in qualunque psiche e in qualunque anima siano stati creati. Questo è il rimprovero che viene dalla professoressa Ellen Umansky: chi siamo noi per affermare che la maniera in cui Dio ha creato certe persone è un abominio? E chi siamo noi per negare a un altro essere umano le gioie dell’amicizia con il pretesto che le loro necessità non sono identiche alle nostre? Non dobbiamo avere altro scopo se non la totale accettazione.

Come dice rabbì Joel Kahn, “Dio non crea inutilmente”… Qualcuno mi ha chiesto come mi sono sentito a stare sotto la chuppah (il baldacchino nuziale) con due donne. Non mi sono offeso per la domanda, perché io stesso ero curioso. Ma la risposta riserva una sorpresa. Mi sono sentito come quando sto sotto una chuppah con due persone che si amano e sto per benedire una famiglia ebrea. Apparivano radiose, felici, innamorate. Con la coda dell’occhio sono riuscito a vedere la madre di una delle spose. Era raggiante di orgoglio, proprio come ogni altra madre la cui creatura ha trovato il compagno della sua vita e una comunità da chiamare “casa, famiglia”. Ci sono alcuni effetti secondari di tutto questo. Una famiglia che lasciò la comunità per protesta poi successivamente ritornò. Ho unito altre tre coppie di lesbiche che non si distinguono da qualunque altra famiglia”. (NOVEMBRE 2001)

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(…) La chiesa non è là dove c’é la gerarchia, ma dove si cerca, sulla strada di Gesù, di accogliere e di compiere la volontà di Dio nel dialogo sincero, nel rispetto reciproco, nell’accoglienza delle differenze che rendono più ricca e più viva la vita.

Semmai, in attesa che dalle strutture della chiesa, mediante un processo di riconversione, scompaiano le gerarchie e fioriscano i ministeri, coloro che nella chiesa cattolica rivestono funzioni direttive non potrebbero, anziché fornire risposte e distribuire certezze (spesso scadute da un pezzo!), imparare ad ascoltare e accogliere umilmente i germi di profezia e di testimonianza che anche oggi nascono nel mondo, nelle varie comunità, nelle persone?

Forse uno dei guai più tragici in cui è caduta la gerarchia vaticana sta proprio nel fatto che su molti terreni, su molte questioni ha smesso di interrogarsi. Quando si perde lungo il cammino l’arte di porsi domande si corre il rischio di formulare come risposte la proiezione delle nostre paure, dei nostri deliri di onnipotenza, degli interessi dell’istituzione “vendendoli come Parola di Dio”.

Nessuna retorica religiosa, nessuna sacra spettacolarità, nessuna politica dei buoni sentimenti, nessuna esortazione populistica e nessuna orgia di compassione e di carità possono sostituire questo atteggiamento profondo, questo passaggio decisivo da una concezione dirigista-magisteriale ad una pratica della compagnia umana ed evangelica che davvero cambierebbe il volto della nostra chiesa.

(…) questi giorni di PRIDE, insieme a tante altre piccole piccole iniziative, lacerano il tessuto di ipocrisia che il potere vaticano, colpevolizzando l’amore omosessuale e lesbico e spingendo al nascondimento, di fatto coltiva e favorisce.

Questa volta forse il cammino di libertà avviene dall’agorà all’ecclesìa, dalla piazza alla chiesa. Ma anche dentro la chiesa cattolica c’è fermento, soffia vento di libertà. La teologa Elisabeth Schüssler Fiorenza coglie la radice del comportamento vaticano: “La gerarchia è talmente disperata da voler imporre giuridicamente ciò che non può argomentare teologicamente”.

(…) La nuova obbedienza all’evangelo è più libera, responsabile e consapevole. Anziché disperdere energie in interminabili polemiche ecclesiali si punta a costruire una spiritualità cristiana della gioiosa accoglienza di sè, della gratitudine a Dio nella consapevolezza che l’amore omosessuale è un Suo dono non meno di quello eterosessuale. Una spiritualità in cui si dialoga e ci si confronta con tutti, ma si o
bbedisce a Dio solo.

In questa spiritualità cristiana in cui campeggia per ciascuno/a la chiamata di Dio ad amare, anzichè cercare nascondigli, anzichè esaltare la rinuncia all’amore secondo la propria natura e negarsi con un celibato imposto o doversi far accettare con un matrimonio eterosessuale, gli omosessuali e le lesbiche stanno compiendo il grande e benedetto cammino di Abramo: “Abramo, vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò…e diventerai una benedizione… E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. (Gen. 12,1-3). Ci piace leggere questa “partenza” di Abramo, questo suo uscire dal “nascondiglio” della propria terra, cultura e gente come metafora e parabola dell’uscire allo scoperto di molti omosessuali e lesbiche.

Il “recinto” non promuove la vita. Occorre più spazio! Ma per partire ci vuole una decisione così coraggiosa che la Bibbia la esprime plasticamente nei termini di un duro ordine, di una “ingiunzione” ripetuta ben tre volte da parte di Dio. Più che di un invito pressante, qui si tratta quasi di una “cacciata”, di una “espulsione”. Abramo non partiva se Dio non lo sradicava. Poi “Abramo partì”. Ecco il “miracolo” di cui siamo testimoni oggi. Mentre molti dicono e urlano “Abramo non partire!”, gli omosessuali e le lesbiche che diventano consapevoli del loro dono di Dio, della chiamata, della vita più piena che sta davanti a loro…, partono ed escono allo scoperto.

E Dio, come per Abramo, è la loro compagnia. Certo c’è subito chi si separa da loro, ma il “paese” che si apre davanti ai loro occhi è “numeroso come la polvere della terra” (Genesi 13). Se la strada si fa difficile occorre credere nella compagnia e nella promessa di Dio: “Guarda in cielo e conta le stelle” (Genesi 15).

E’ il cielo, il sorriso di Dio, la sua mano amica che dà il coraggio di partire, che mette nel cuore voglia di libertà e di felicità, che fa sentire l’amicizia, la solidarietà e il calore di tutti quegli uomini e quelle donne che si decidono per un cammino umano in cui si diventi gli uni per le altre una benedizione, rompendo quelle ipocrite perimetrazioni che le culture del dominio e della discriminazione hanno costruito.

Non basta la nostra forza per certe decisioni. Abramo ce lo ripete oggi. Tutta la vita di Gesù lo manifesta: senza la forza che viene dalla fiducia in Dio noi cristiani non possiamo compiere il cammino di liberazione. La parola di Dio è “scatenata” perché non accetta di essere messa in catene, ma anche perché dove Dio ci dona la Sua parola si rompono tante catene.

La gerarchia vaticana e i credenti che oggi chiudono gli occhi di fronte a questa “benedizione” e vogliono rinchiudere Abramo nel recinto di una piccola area e impedirgli di inoltrarsi “gaiamente” per le vie del mondo, perdono una occasione storica di conversione e di rinnovamento. Questo è un Kairòs, un’opportunità che Dio ci offre per comprendere e vivere più intensamente la nostra realtà di uomini e donne e per rendere più viva la testimonianza al Vangelo del regno di Dio. Dio è bello, è amico della vita e, ogni volta che noi ne facciamo il custode di un ordine ingiusto, bruttifichiamo il Suo volto.

Diciamolo apertamente: quando omosessuali e lesbiche respingono le false “alternative” del nascondimento, della negazione di sé o di una solitudine forzata, essi diventano una benedizione che rallegra le loro vite, ma anche una benedizione di cui abbiamo bisogno noi, di cui hanno bisogno le nostre comunità cristiane, in primo luogo quelle cattoliche. Quando si cercano i sentieri dell’amore si diventa sempre una benedizione perché, per usare il linguaggio biblico, si vive nella benedizione, anzi si vive della benedizione.

Quanta strada aperta davanti a noi! Da una parte occorre rimanere in dialogo sincero e appassionato con tutte le componenti della nostra chiesa, dall’altra è necessario partecipare all’elaborazione di una teologia, di una predicazione , di una pratica pastorale e di una catechesi comunitaria che aprano i cuori e le menti sulla varietà dei doni di Dio, sulla realtà dell’amore omosessuale e lesbico senza il minimo cedimento alla cultura della concorrenza con altre forme di amore.

Questo è un compito comune che già registra l’opera di molti teologi e teologhe e l’impegno di molte comunità per andare oltre le ambigue affermazioni del Catechismo della Chiesa Cattolica. Così pure sarà importante, a mio avviso, portare le esperienze, i confronti e le prospettive che emergono da queste giornate nella varie diocesi, nel tessuto delle chiese locali. E chissà che non possa nascere una lettera aperta ai fratelli e alle sorelle della chiesa cattolica più che non solo alla gerarchia.

La nostra speranza è che anche questi momenti e questi giorni di proposta e di dialogo diventino per noi e per tanti uomini e donne un appello ad amare di più, a crescere nella solidarietà, a coltivare la tenerezza, a praticare e diffondere percorsi di nonviolenza, liberi anche dalle fobie, dalle ossessioni, dalle repressioni sessuali che concorrono anch’esse a chiuderci in quell’isolamento e in quell’egoismo che tanto piace ai signori del libero mercato.

(…) la gioia con cui si sta svolgendo questo PRIDE ha in sé una forza “provocatoria” e propositiva notevole. E’ la gioia e la fantasia che creano sentieri verso un futuro più felice. Il cantare la vita e l’amore non è “contro” nessuno, ma è invito rivolto a tutti perché , nelle alterne vicende della vita, non accantonino mai la gioia, non dimentichino di danzare la vita, di rallegrarsi di ogni spazio di libertà personale e collettiva che cresce nelle vie del mondo.

Chi ha paura di questa gioia e di questa fantasia forse deve domandarsi se davvero promuove la vita o se difende un certo assetto di società e di chiesa. Insieme omosessuali ed eterosessuali, e quante altre differenze popolino la terra, ascoltiamo la Parola di Dio che ci invita a “scegliere la vita” e leghiamoci in un forte patto di tenerezza per promuovere una cultura ed una pratica dell’accoglienza reciproca. (GIUGNO 2000)