Casa: tra sogni e bisogni
di Marco Rostan
da www.riforma.it
Con il piano casa varato da governo e Regioni aumenteranno le nuove costruzioni innescando un nuovo enorme consumo di suolo e di cemento, meglio ricostruire
Dopo tanto clamore sul «piano casa», sembra proprio che il testo finale sia abbastanza diverso da quello inizialmente diffuso. Le Regioni hanno puntigliosamente rivendicato le loro competenze e si sono opposte a una serie di deroghe ai piani regolatori. In cambio si sono impegnate a tradurre in proprie leggi l’accordo raggiunto. Nelle reazioni degli opposti schieramenti, tra chi vede solo abusivismo e cementificazione, e chi esalta la possibilità di ingrandire finalmente il proprio alloggio con un po’ meno di burocrazia, si è visto quanto la questione casa interessi gli italiani. E non solo quelli ricchi.
Insieme alla scuola e alla sanità, essa è stata, negli anni ‘60, la grande questione sociale e il movimento operaio, gli studenti, i sindacati sono scesi in piazza spesso per rivendicare quelle che allora si chiamavano riforme di struttura. Non erano però le rivendicazioni di questo piano casa. Si chiedevano case a un affitto accessibile: alcune forze della sinistra chiedevano che non superasse il 10% del salario.
Oggi, anche sulla base della mia esperienza come presidente di una commissione edilizia, dico che non ha senso infierire su chi desidera aggiungere un vano al proprio appartamento, o recuperare un sottotetto seguendo le già previste norme di risparmio energetico e di inclinazione delle falde. Certo non ci si può regolare nello stesso modo nel caso della chiusura di una veranda su una villetta di Pomaretto e in quello di un balcone nel centro storico di Roma. Sembra che questo sia stato recepito.
Ma che succederà se, al posto del permesso di costruire rilasciato dall’Ufficio tecnico del Comune, sarà il proprietario, con il suo professionista di fiducia, entrambi interessati a costruire, a garantire che tutto è a posto dal punto di vista estetico e soprattutto statico? E se qualcuno volesse fare il furbo andando oltre l’aumento di volumetria consentito, tanto poi tutto si risolve con una multa e magari anche un condono?
Diciamo allora che, da un lato, occorre rispondere aduna pesante mancanza di alloggi popolari, che per altro non è nuova nel nostro paese. Nella prima ricostruzione post-bellica, con il ministro dei Lavori Pubblici Amintore Fanfani, si creò un istituto apposito, l’Ina-Casa, incaricato di attuare il «Piano Casa». L’architetto Italo Insolera, con il quale ho condiviso le mie prime collaborazioni urbanistiche per Italia Nostra, in difesa delle coste della Sardegna, ha ricordato giorni fa come, intorno all’Ina-Casa, si mobilitarono allora le migliori energie di giovani architetti e ingegneri e sorsero i primi quartieri veramente moderni, con servizi adeguati, a Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Palermo. In quegli anni c’erano i fondi per la ricostruzione europea, c’erano strumenti urbanistici se non perfetti per lo meno condivisi, si rilanciava l’edilizia, si combatteva la disoccupazione.
Cinquant’anni dopo non c’è l’Ina-Casa, si vogliono sostituire i permessi di costruzione con le autodichiarazioni dei progettisti (non c’è un po’ di conflitto di interesse?) e, salvo qualche villetta fai-da-te, ciò che sembra delinearsi è un’autoburocrazia condominiale delegata a dirigere le trasformazioni urbanistiche e il futuro del paesaggio italiano. Già preoccupa l’esagerato consumo di suolo, cioè l’aumento di costruzioni nuove. Sarebbe intelligente, come si sta tentando in qualche città dove sono stati demoliti edifici e ricostruiti altri esattamente allo stesso posto, tentare un piano di riuso del suolo e dell’edilizia. Le scelte sbagliate si pagano per decenni, a cominciare dai colpi di ruspe dati dove non si doveva.
In realtà anche nel piano casa di Berlusconi è prevista la ricostruzione. Ma a modo suo. Già una cospicua parte del patrimonio edilizio di proprietà di enti e società pubbliche è stato messo in vendita dallo Stato per fare cassa. Inizialmente gli immobili dovevano essere destinati all’affitto, poi sono stati messi in vendita. L’eventuale acquirente-costrutture di un immobile cartolarizzato, potrà, se l’edificio è «vecchio» di almeno vent’anni, demolirlo e ricostruirlo «gonfiato» nel volume fino al 35%. Per capirsi, in una palazzina di 5 piani con 4-5 appartamenti a piano (4000 mc) ci potremo ritrovare 6 o 7 appartamenti con due o tre piani in più. Nessun controllo. Basterà che il costruttore chieda al proprio tecnico di certificare quello che vuol fare.
Qualcuno ha commentato: un lodo Alfano di cemento. In effetti il rischio c’è, perché chi può impedire di andare anche un po’ oltre quell’aumento del 20% di superficie che il piano prevede? Un piccolo abuso sarà sanabile con una semplice multa (siamo o non siamo il paese dei condoni?). Insomma, anziché fare proposte intelligenti per favorire il riuso degli edifici si vogliono costruire solo stanze, stanze su stanze, fra l’altro dicendo che è il popolo a volerle. In termini urbanistici, questo significa anche la fine degli standard, cioè di quegli indici che misurano la superficie di verde, di strade, di servizi, che devono essere destinati a tutti gli abitanti del quartiere, in rapporto al costruito.
Berlusconi afferma che i due terzi degli italiani sono d’accordo con lui e forse è vero perché la casa individuale è rimasta l’emblema della libertà del cittadino. Sogno e bisogno. A questa innegabile verità bisognerebbe saper contrapporre il fondamento della civiltà urbanistica: cioè la separazione tra proprietà del suolo e sua destinazione d’uso. Il principio secondo il quale la proprietà di un terreno non autorizza il suo proprietario a usarlo come vuole, ma gli consente di partecipare, con la collettività, alla programmazione e all’uso del territorio di cui il suo pezzo fa parte. Senza questo punto decisivo e senza le regole che ne conseguono, non c’è urbanistica e non c’è architettura, perché non c’è cultura.