I fatti danno
valore alle parole e le fanno diventare pietre. Il successo per i
numeri e per i contenuti del convegno che si svolto a Firenze il 16
maggio rende particolarmente significative le parole scritte in
preparazione e quelle pronunciate durante l’intensa giornata di
lavoro. Non era scontato alla vigilia, che un incontro autoconvocato
da cattolici che vivono “in disagio” l’attuale stagione della Chiesa
molto attenti a non confondersi con quanti sono “in dissenso”, ma
altrettanto disponibili a confrontarsi con loro, potesse raggiungere
lo scopo di realizzare «uno scambio aperto del vissuto della fede,
nell’esperienza della forza del Vangelo» senza che nessuno si
sentisse «ospite o straniero».
Non si trattava
del solito convegno sulla pace, la fame nel mondo, l’immigrazione,
la giustizia sociale: il tema proposto era la Chiesa e lo scisma
sommerso che l’attraversa. Non era neppure inteso a rivendicare
spazio per i laici, piuttosto si proponeva di riaffermare la loro
responsabilità nell’annunciare, come recitava il documento di
convocazione, «il Vangelo che abbiamo ricevuto».
La scelta del
canto del Veni creator come momento conclusivo della breve
liturgia introduttiva può essere interpretato proprio come segno
delle legittime apprensioni dei promotori sulla possibilità di
garantire un sereno confronto data la diversità delle esperienze e
degli orientamenti dei partecipanti, già emersa nell’ampia e
articolata serie di contributi inviati alla vigilia da singoli e
gruppi. Della loro ricchezza, ma al tempo stesso della loro varietà
ha dato la misura la relazione introduttiva che ne ha tentato, con
successo, non un’impossibile sintesi, ma una tematizzazione
funzionale allo svolgimento del confronto, che si è, infatti, svolto
senza sterili battute polemiche, precisazioni o distinguo. Ciascuno
ha potuto pronunciarsi distintamente sui diversi temi, secondo le
chiavi di lettura proposte, in modo da offrire ai partecipanti la
possibilità di autonome valutazioni sulle prassi emergenti dalle
esperienze, sugli orientamenti frutto di studi e letture più o meno
condivise e, infine, anche sulle proposte concrete, sul modo di
continuare il cammino e su eventuali iniziative da prendere
nell’immediato. Coerentemente con il modello di convegno scelto,
queste non sono state offerte al voto, così come non è stato
stilato un documento conclusivo al termine delle oltre tre ore di
dibattito. La sua ricchezza è stata assunta, invece, come patrimonio
d’idee e d’indicazioni per il lavoro futuro per il quale si sono
auspicati un collegamento, una rete di relazioni e la convocazione
ogni anno di uno o più convegni, magari decentrati al nord e al sud,
per favorire lo sviluppo del confronto e la contaminazione delle
esperienze. Non premessa per un nuovo “movimento ecclesiale” ma
sperimentazione di modi nuovi di essere Chiesa senza ostracismi, ma
senza la pretesa di offrire modelli o soluzioni da generalizzare,
nella consapevolezza del limite che tutto ciò che è umano porta in
sé. Un collegamento rispettoso delle diversità: non tollerate, ma
assunte come valore senza l’ossessione di separare chi è dentro e
chi è fuori.
Questo nella
prospettiva temporale risulta essere un falso problema come emerge
dall’esperienza delle Comunità cristiane di base. Nel lontano 1984
un vescovo ha “scomunicato” due comunità presenti nella sua diocesi,
poche settimane dopo un altro vescovo, dopo aver portato il suo
saluto ad un loro seminario nazionale, ha voluto esprimersi sul tema
in esso proposto: Eucaristia, ricerca e prassi nelle Comunità di
base. L’anno successivo la Comunità dell’Isolotto, che era
stata bandita dal suo vescovo, Florit, perché “solo gruppo
politico”, si è sentita dire dal suo vescovo, Piovanelli, in
visita alla sua sede «vi ringrazio perché ci siete». Non basta
affermare che era cambiata la persona chiamata ad essere il suo
vescovo forse bisogna ricordare la funzione delle pietre “scartate”
di ieri e di oggi.
E’ indubbio che
il Vangelo ha bisogno della Chiesa per essere “annunciato” e la
profezia ha bisogno dell’istituzione per assolvere alla sua
funzione. Questa può, però, ridursi ad «uno scheletro istituzionale,
necessario e utile come sostegno, ma non sufficiente ad una vita
piena, e pericoloso se tende a promuovere l’ossificazione di tutti i
tessuti»; è altrettanto essenziale, perciò, che non «si esaurisca il
processo di ecclesiogenesi dal basso».
A Firenze, di là
da ogni pur legittima soddisfazione e fuori di ogni trionfalismo, si
è acceso un segno, la speranza che di questo processo siano in
molti, «accomunati dalla passione per la Chiesa», ad assumersi la
responsabilità senza attendere deleghe o investiture.
Un segno di
speranza che va ad aggiungersi ad altri già diffusi come il
rilancio, anche nella base parrocchiale, dello studio dei testi
conciliari e l’aumento dello spazio di comunicazione e di confronto
intraecclesiali offerto dal nuovo “fascicolo arancione” dell’Agenzia
Adista.
Sono tutti segni
di un impegno che non intende esaurirsi in un ghetto
ecclesiocentrico, ma farsi altresì carico, pur nella distinzione di
ruoli e di strumenti, sia della grave crisi della democrazia, che
grava sul nostro Paese, anche a causa dell’interventismo della
gerarchia ecclesiastica in netta contraddizione con il dettato
conciliare, sia della ripresa di iniziative dal basso che liberino
l’ecumenismo dalle secche della diplomazia istituzionale.
Marcello Vigli
Gruppo di controinformazione ecclesiale - Roma