Storie
Dal “Diario 1942 – 43 di Etty Hillesum", uccisa nel campo di
concentramento di Auschwitz il 30 novembre 1943 a 29 anni.
“Se penso alle facce della scorta armata in uniforme verde, Dio,
quelle facce! Le ho osservate una per una, dalla mia postazione
nascosta dietro una finestra, non mi sono mai spaventata tanto come
per quelle facce. Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il
tema fondamentale della mia vita: “E Dio creò l’uomo a sua
immagine”. Questa parola ha vissuto con me una mattina difficile”.
Ascolto sempre le storie che i miei alunni, richiedenti asilo
politico in Italia, mi raccontano e imparo. Chi ha vissuto
l’infanzia a Kandahar racconta che il suo volontariato con gli
amici a 10 - 11 anni era raccogliere braccia, gambe teste, mani dei
trucidati dai Talebani, metterli in un lenzuolo e portarli alla
Moschea per la loro sepoltura con una preghiera. (A. A.
Afganistan)
“Il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi
vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità, fintanto
che si sia in grado d’irraggiare anche sugli altri. E più pace c’è
nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato”.
Quando sono tornato a casa dal lavoro, avevo 13 anni, ho visto tanta
gente intorno a casa mia. Non volevano lasciarmi entrare. Mi sono
fatto largo a spintoni ed ho visto sul pavimento della cucina mio
padre, mia madre e mio fratello maggiore trucidati.
(A.
A. Afganistan)
“Non si combina niente con l’odio, la realtà è ben diversa da come
ce la costruiamo noi. Abbiamo ancora così tanto da fare con noi
stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i
nostri cosiddetti nemici. L’unica possibilità che abbiamo, non vedo
altre alternative, è quella che ognuno di noi deve raccogliersi e
distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere
gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al
mondo lo rende ancor più inospitale”.
Gli interrogatori avvenivano sotto tortura. Mi portavano in una
stanza, mi sbattevano con la faccia contro al muro. In quel muro
c’erano due buchi dove infilavo le mani e dall’altra parte del muro
mi legavano le due mani insieme e con una macchina tipo chassel,
tiravano, tiravano finché il mio petto era spiaccicato contro al
muro e tiravano ancora. Mi sentivo spaccare tutte le ossa contro
quel muro. Non posso contare le volte che me l’hanno fatto!
(D. K. Congo)
“Una cosa però diventa sempre più evidente per me e cioè che Tu, o
Dio, non puoi aiutare noi , ma che siamo noi a dover aiutare Te, e
in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo
salvare in questi tempi e anche l’unica che veramente conti, è un
piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio”.
In carcere riempivano una vasca d’acqua fino all’orlo, ci pisciavano
e cagavano nella vasca, poi mi ci buttavano dentro e chiudevano il
coperchio. Cercavo di dimenarmi per non affogare e spingevo quel
coperchio con tutte le mie forze. Quando da fuori sentivano che non
mi muovevo più, aprivano il coperchio rovesciavano la vasca e mi
trovavo steso per terra, privo di sensi. Mi facevano rinvenire e mi
ributtavano in cella e l’indomani si ricominciava.
(D. K. Congo)
“Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e
riconoscente, che non voglio neppure provare a esprimerlo in una
parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio.
Probabilmente la definizione migliore sarebbe: “riposare in se
stessi”, e forse sarebbe anche la definizione più completa di come
io sento la vita: io riposo in me stessa. E questo “me stessa”, la
parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo “Dio”.
Misa Chiavari
CdB di San Paolo - Roma
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NOTA:
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necessariamente della comunità di appartenenza di chi scrive, tanto
meno del movimento delle CdB, ma punti di vista personali
su argomenti di attualità che ciascuna/o
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