Giulio Girardi
La teologia della liberazione
nell'epoca di Ratzinger. Una riflessionei
Da Adista n.
72/2005
Tutto lascia prevedere che, rispetto
alla Teologia della Liberazione, il pontificato di Ratzinger non
segnerà alcuna svolta rispetto a quello del predecessore. Cambia, è
vero, come nota il teologo e filosofo della Liberazione Giulio
Girardi, il "nemico principale": il marxismo per il papa polacco e
il relativismo per il papa tedesco. Ma entrambi questi "nemici"
portano con sé un'eguale condanna della teologia latinoamericana: se
infatti il marxismo è stato sempre considerato dai vertici vaticani
il fondamento della TdL, il relativismo, in particolare quello
religioso, chiama in causa ancora una volta la Teologia della
Liberazione, la cui ultima frontiera di ricerca è rappresentata
proprio dall'osteggiato - dal Vaticano - pluralismo religioso. Si
tratta, spiega Girardi nell'intervento che qui di seguito
riportiamo, di un nuovo capitolo della TdL, che "impone un profondo
ripensamento di alcune delle principali categorie teologiche, come
quelle di religione, rivelazione, fede, popolo di Dio". E che
impone, in primo luogo, un ripensamento stesso del concetto di Dio.
Una
previsione, ampiamente fondata, sul pontificato di Ratzinger è che
esso, sul tema della teologia della liberazione, come su tutti i
temi dottrinali, si manterrà in continuità con il pontificato di
Wojtyla. Il fondamento più sicuro di questa previsione è il fatto
che per oltre 20 anni il cardinale Ratzinger, come prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede, è stato il principale
ispiratore e punto di riferimento di Giovanni Paolo II . D'altro
lato, in questi primi mesi di pontificato, Benedetto XVI si è
frequentemente riferito al suo predecessore, quasi a voler rendere
esplicita la continuità tra i due pontificati.
Affermare
questa continuità nel rapporto con la teologia della liberazione
significa confermare l'attualità dei documenti, redatti dallo stesso
cardinale Ratzinger, di condanna di questa teologia, insieme con il
suo presunto fondamento, il marxismo. Significa in particolare
riaffermare il giudizio di Giovanni Paolo II, nel suo secondo
viaggio in Nicaragua, secondo cui la teologia della liberazione era
morta, dato che era morto il suo fondamento, il marxismo. Si doveva
dunque celebrare nello stesso tempo il funerale del marxismo e
quello di sua figlia, la teologia della liberazione.
Affermare la
continuità tra i due pontificati significa anche prevedere la
persistente ostilità del Vaticano nei confronti della teologia della
liberazione; e anche la sua incomprensione nei confronti di una
esperienza e di una dottrina che sono espressione di un'altra
cultura, la cultura degli oppressi.
Forse però
bisogna anche riconoscere una certa discontinuità tra i due
pontificati, dovuta al diverso contesto culturale in cui essi si
muovono. Per il papa polacco, il nemico principale era il marxismo,
cui la teologia della liberazione sarebbe, secondo la sua analisi,
strettamente collegata. Per il papa tedesco, è forse ancora
prematuro individuare il nemico principale; ma molti riferimenti
fanno pensare al relativismo, più esattamente al relativismo morale
e al relativismo religioso, che significa nel suo linguaggio
"pluralismo religioso".
Il pluralismo
religioso rappresenta oggi una tappa avanzata della teologia della
liberazione, ed è uno dei nodi sui quali, con molta probabilità, si
concentrerà nel prossimo futuro il dissenso tra la ricerca di base e
il magistero pontificio.
Questa
affermazione sembra entrare in conflitto con una delle principali
preoccupazioni manifestate da Benedetto XVI, in continuità anche qui
con le preoccupazioni di Giovanni Paolo II, quella di aprire la
Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane all'ecumenismo e
di promuovere così l'unità tra i cristiani.
Ma per
cogliere il significato del dibattito in cui prevedibilmente sarà
impegnata la teologia della liberazione nel-l'epoca di Ratzinger,
bisogna distinguere l'ecumenismo che il magistero cattolico promuove
dall'ecumenismo che il magistero cattolico condanna, che implica il
pluralismo religioso. La presa di posizione più esplicita
sull'argomen-to è la dichiarazione Dominus Iesus, emanata dalla
Congregazione per la Dottrina della Fede, e sotto la responsabilità
principale del suo prefetto, il cardinale Ratzinger, in questo
documento il pluralismo religioso viene condannato, e qualificato
appunto di "relativismo". Si attribuisce pertanto ai fautori del
pluralismo religioso, peraltro erroneamente, la convinzione che la
verità assoluta non esiste. Chi non riconosce un'unica religione
pienamente valida, e precisamente la cattolica, non ammetterebbe
l'esistenza della verità assoluta.
Ma per capire
in che senso il magistero cattolico, quello in particolare di
Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, promuova l'ecumenismo, mi pare
si debba riferirsi ai due interlocutori del dibattito ecclesiale, la
gerarchia e il "popolo di Dio; nuova categoria, questa, introdotta,
come è noto, dal Concilio Vaticano II. Su questa base bisogna
distinguere, mi pare, in funzione dei vari soggetti, fra ecumenismo
istituzionale ed ecumenismo popolare. Questa distinzione permette di
tenere conto della complessità dei movimenti ecumenici e della
problematica che li riguarda. Vorrei tentare di chiarirla. Per
"ecumenismo istituzionale" intenderei il rapporto di rispetto, stima
e collaborazione tra le diverse istituzioni religiose, promosso
dalle rispettive gerarchie. Per "ecumenismo popolare" intenderei
invece un rapporto promosso dal "popolo di Dio", indipendentemente
dalla gerarchia e spesso in contrasto con essa. Il contrasto si
riferisce specialmente alla natura della relazione che, in questo
ecumenismo, è di uguaglianza e reciprocità tra tutte le religioni,
compresa la cattolica.
Un esempio tra
i tanti che illustra il concetto di "ecumenismo popolare" è il
movimento macroecumenico, nato nel V Centenario dell'invasione
dell'America, erroneamente chiamata "scoperta ", secondo
l'interpretazione che ne hanno dato gli invasori.. Questo movimento
è nato a Quito (Ecuador), nel 1992. Si è qualificato come "Assemblea
del popolo di Dio", per distinguersi dall'Assemblea episcopale che
si sarebbe celebrata alcune settimane dopo a Santo Domingo. Per
distinguersi, ma anche per contrapporsi. Infatti, l'assemblea
episcopale assumeva il punto di vista degli invasori e considerava
l'evento del 1492 una svolta estremamente positiva sia nella storia
dell'Europa , che accresceva così il suo potere e la sua ricchezza,
sia nella storia della Chiesa, che vedeva dischiudersi nuovi
orizzonti all'evangelizzazione, sia ancora nella storia dei popoli
indigeni, che, sempre dal punto di vista degli invasori, venivano
"civilizzati".
Ma per gli
stessi indigeni coscientizzati, il 1992 era il centenario del loro
genocidio. Con pieno diritto essi proclamavano: "Non abbiamo nulla
da celebrare". D'altro lato, l'Assemblea del popolo di Dio, ispirata
dalla teologia della liberazione e fedele alla scelta dei poveri,
faceva suo il punto di vista delle vittime. Pertanto la storia
de-ll'Europa moderna, "faro di civiltà a tutte le genti", comincia
con uno dei più gravi crimini contro l'umanità. Questa tragica
constatazione cambia il senso della questione del debito estero dei
paesi del Terzo Mondo, che diventa il debito dell'Europa nei
confronti del Terzo Mondo.
Queste
evocazioni storiche permettono di comprendere il significato dei
temi teologici che vogliamo affrontare. In dialogo con papa
Ratzinger, supposto che voglia ascoltarci. Perché il 1992 non è solo
un crocevia storico ma anche un crocevia teologico. La
contrapposizione tra la teologia ufficiale e la teologia della
liberazione nei confonti del pluralismo religioso si precisa nel
rapporto fra la Chiesa cattolica e le religioni indigene. La
teologia cattolica ufficiale di Giovanni Paolo II e di Benedetto
XVI, per la quale il cattolicesimo è l'unica religione salvifica,
considera legittima l'evangelizzazione conquistatrice; essa si
attribuisce il potere e il dovere di imporre agli indigeni che si
convertano alla religione cristiana e abbandonino le loro religioni
millenarie, considerate diaboliche, e che la Chiesa cattolica
reprimeva violentemente.
Dalla teologia
della liberazione nasce invece il macroecumenismo. Esso riconosce la
validità delle religioni indigene, condanna come antievangelica
l'evangelizzazione coercitiva, afferma il pluralismo religioso. Essa
introduce nella storia dell'ecumenismo una duplice novità. In primo
luogo, quella di estendere l'ecumenismo aldilà delle confessioni
cristiane. In secondo luogo, quella di affermare un rapporto di
uguaglianza e reciprocità tra le varie religioni.
Così, mentre
la teologia della liberazione si propone di aprire il cristianesimo
alle altre religioni, la teologia ufficiale ritiene di dover
valorizzare il cristianesimo affermando la sua superiorità su di
esse.
Questo nuovo
capitolo della teologia della liberazione impone un profondo
ripensamento di alcune delle principali categorie teologiche, come
quella di religione, rivelazione, fede, popolo di Dio; impone in
primo luogo un ripensamento del concetto di Dio.
Desidero
appunto concludere questo itinerario tornando sul suo principio
ispiratore, il vincolo che lega la scelta di campo per i popoli
oppressi e la riscoperta dell'Amore Infinito di Dio, principio
ispiratore della teologia della liberazione.
Riconoscere i
popoli oppressi come soggetti storici, culturali, religiosi ci
conduce a riscoprire l'amore appassionato di Dio per tutti e per
ciascuno degli uomini, per tutte e ciascuna delle donne, per tutti e
ciascuno degli esseri della natura; conduce a riscoprire la sua
presenza liberatrice in tutti i tempi e in tutti i luoghi della
storia.
Ma perché
parliamo di riscoprire? Perché le teologie cristiane avevano
coartato Dio, il suo amore e la sua grandezza, entro i limiti
angusti delle nostre chiese, delle nostre culture occidentali, delle
nostre tradizioni, del nostro libro sacro, della nostra epoca
storica. Fuori del mondo occidentale, pensavamo, non c'è salvezza,
perché non c'è Dio. Il Dio chiamato cristiano era un padre che
dedicava la sua attenzione a una minoranza dei suoi figli e si
disinteressava della grande maggioranza di essi.
In questo dio,
come cristiani, non possiamo più credere. Il Dio nel quale crediamo
oggi è più grande del cristianesimo. La sua verità è più ricca della
Bibbia. Per rivelarsi al mondo, egli non ha un solo cammino, ma
infiniti, nessuno dei quali è esclusivo, nessuno dei quali esaurisce
l'infinita ricchezza del suo amore. Il Vangelo di Gesù tornerà ad
essere per tutti e tutte una buona notizia solo se non pretenderà di
essere l'unico messaggero dell'Amore, riconoscendo che Dio è più
grande. "Dio è più grande" potrebbe essere uno dei nostri motti
macroecumenici.
Da questa
nuova prospettiva sorge in noi il desiderio di esplorare le altre
strade della manifestazione di Dio nel mondo, di contemplare i volti
di Dio che non conosciamo, di scoprire altre forme della Sua
presenza amorosa e liberatrice nella storia.
Ci incoraggia
in questa nuova ricerca di Dio la parola di Gesù alla samaritana:
"Credimi, donna, giunge l'ora, e ci troviamo già in essa, in cui voi
adorerete il Padre senza dover venire né al al monte Guerizim né
andare a Gerusalemme". Attualizzando questa parola, diremmo: "voi
adorerete il Padre senza andare in chiesa, né alla sinagoga né alla
moschea.… Viene l'ora, ed è quella che viviamo, in cui i veri
adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità… Dio è Spirito, e
quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità" (Giov. 4,
21-24).
Così la
preoccupazione per l'egemonia del cristianesimo cederà il passo alla
preoccupazione per l'egemonia di Dio: del Dio Amore Liberatore di
tutti i nomi.