Interventi
introduttivi
Gruppi Donne Cdb Thea
gruppo di ricerca teologica al femminile Intervento
introduttivo di Doranna Lupi e Carla Galetto per i Gruppi donne delle Cdb
In
‘questo’ mondo impregnato di sacralità: estranee, straniere, ospiti,
nomadi, orfane…? Reinterrogare le esperienze a partire da sé
I
– Doranna Lupi Questa
nostra introduzione parte dalla richiesta di fare una brevissima
presentazione dei cammini percorsi da molte donne delle cdb. Ci
siamo incontrate come gruppo e abbiamo cercato di circoscrivere alcuni
punti irrinunciabili per noi e, com’è nostra prassi, saremo in due ad
esporvi questi pensieri che, pur tenendo conto del gruppo di cui facciamo
parte, abbiamo costruito a partire ciascuna da se. Visto
che il gruppo di Pinerolo è uno dei più vecchi, forse il più vecchio,
ci hanno invitate a parlare partendo dalla nostra storia. Anche
se è quasi impossibile tralasciare il legame, lo stretto intreccio
esistente tra il nostro percorso e quello dei gruppi di donne appartenenti
alle altre comunità, se ciò che ci viene riconosciuto è l’inizio di
un percorso comune, anche noi dobbiamo pagare il nostro debito di
riconoscenza nei confronti delle donne che, sporgendosi verso di noi, con la loro
presenza, con la loro esperienza con i loro scritti, ci hanno prese per
mano e accompagnate per un pezzo di strada. Un
inizio quindi già fortemente connotato da un “NOI”, come si dice nel
titolo del nostro convegno :”Un divino tra NOI leggero” Un
noi fluido, in movimento di donne che si interrogano……….. Un
noi simbolico di una comunità di donne che nasce e cresce alimentata dal
partir da sé in relazione con le altre, per rifondare il divino sulla
propria libertà, cercando di ricostituire l’unitarietà di
corpo-mente-emozioni e di riappropriarsi della propria parola sul mondo Ripensando
agli inizi, attraverso l’immagine della spirale colorata della creazione
e del divenire (così come l’abbiamo disegnata
a Cavoretto ), ritrovo gli incontri con le donne delle comunità di
base europee, le amiche olandesi e le amiche di Parigi, i loro viaggi e i
nostri , la loro determinazione e autorevolezza, le loro affettuose
esortazioni . Con loro abbiamo assaporato ciò che Giovanna (in un suo
articolo su “il paese delle donne”, riferito al nostro ultimo
convegno) definiva “Il piacere dello sconfinamento”
attraverso nuovi gesti simbolici e la loro forza evocativa. In
queste relazioni siamo nate e rinate. Con queste donne e grazie a queste
donne , nella spirale della creazione e del divenire , abbiamo
compiuto(come lo definirebbe Mary Daly) un SALTO QUANTICO
aprendo una crepa attraverso cui era possibile far passare il
cambiamento, intraprendere un percorso nuovo, partendo soprattutto da un
DESIDERIO RINNOVATO. Era
il 1988, il tempo del nostro convengo “Le scomode figlie di Eva”. Qui
la scomodità delle donne era intesa nel senso della loro capacità di
rimettere in discussione comportamenti e valori culturali, pratiche e
saperi nella società e nelle chiese. Tempo
in cui si muovevano i primi passi verso una nuova consapevolezza
femminile. Consapevolezza di una genealogia rimossa e di una istanza di
cambiamento fortemente destabilizzante, anche all’interno di realtà
come quelle delle comunità di base , già aperte all’innovazione. Ma ,
a ben vedere, potevamo definirci scomode anche
perché poco comode, perché NON A NOSTRO AGIO e non solo per la nostra posizione di invisibilità e di
marginalità nelle chiese o
nelle istituzioni bensì scomode nei nostri stessi panni. Scomode perché
a disagio. Scomode perché ancora impregnate di quel timor di Dio ancora
troppo simile al timor del maschio. Scomode, prima ancora che per gli
altri , per noi stesse e in noi stesse. Il
nostro percorso si è caratterizzato proprio in questo passaggio cruciale
da una fase di riconoscimento del disagio e della scomodità ad un
progressivo benessere e agio acquisiti
grazie allo scambio e al sostegno trovato nelle nostre relazioni. Quell’agio
che consente di sostenere, con le altre, la follia della diversità e di
affrontare la decostruzione di una impalcatura culturale millenaria
opprimente. Quell’agio che favorisce la lenta guarigione da
un’immaginario che ci abita, condizionandoci, per lasciare spazio
e aprirsi alla necessità di nuove
immagini, alla necessità di un teologare che, come diceva Elisabeth
Green, richiede i linguaggi
del racconto, della parabola, della pittura,della danza, della poesia da
cui nasceranno nuovi simboli. In
questo percorso abbiamo sperimentato quanto sia dirompente la
socializzazione del desiderio, quanto sia luogo privilegiato
di espressione del divino, della Rhua il vento che soffia, lo
spirito che trasforma. Questo
è l’humus di cui si parla nell’introduzione al nostro convegno. Ciò
che a diversi livelli, in diversi contesti, al di là delle differenze…
le donne possono e vogliono condividere : un divino tra noi
leggero come vento
che soffia...brezza che ci rinfresca..., riferimento che ci
piace e non ci angustia, una realtà che ci intriga, ma non ci
condiziona rigidamente..., un desiderio che ci dona libertà di pensiero
e di viaggio. Questo l’humus delle nostre relazioni con le donne olandesi e
parigine degli inizi, l’humus
del nostro gruppo donne locale e dei nostri collegamenti nazionali. Ma
anche l’humus ritrovato al Sinodo di Barcellona e poi, in seguito,
condiviso nella preparazione di questo convegno a Trento E’
questo ciò che ci preme condividere con voi al di là di appartenenze e
diversità. Se
lasci lo spazio percepisci l’ampiezza diceva Maria Del Vento,
una donna della nostra comunità oggi qui presente, ricordando alcuni
momenti del nostro percorso, durante la discussione che ha preceduto la
stesura del nostro intervento. Con
tutto il rispetto per i tempi di guarigione di ognuna da esperienze
spirituali in cui ci siamo sentite tradite e psicologicamente abusate dal
potere religioso e dalle tradizionali classificazioni di bene e male di
una cultura sessista, è nostro desiderio ritrovare insieme, sostenute
dalle nostre relazioni, l’ampiezza. Quello
spazio vasto , comodo , esteso, “sufficiente per accogliere e
riconoscere con consapevolezza, l’improvviso apparire della luce del
Significato delle nostre vite”(Giovanna Carlo centro italiano psicologia
analitica, interv. XII incontro naz. Donne cdb italiane) II
– Carla Galetto
Continuando
l’intervento di Doranna, io cercherò di mettere in luce alcuni
interrogativi a cui ho cercato di rispondere. Perché
abbiamo iniziato questo percorso come gruppo donne e lo abbiamo continuato
in questi anni? §
E’ maturata dentro di noi, grazie anche alla relazione con altre
donne che avevano già fatto dei passi in questo senso e grazie anche ad
alcuni scritti “rivelatori”, la consapevolezza che qualcosa non
funzionava, che altri decidevano anche per noi. E’ nato così,
lentamente per alcune, prepotentemente per altre, il desiderio di
“esserci”, non più per adeguarci a modi maschili di pensare e stare
in relazione con Dio, ma a partire da sé. §
In un cammino in relazione e non solo in solitudine. E’ vero che
a volte si prova (io l’ho provato) un senso di solitudine e di
isolamento se lo sconfinamento è percepito e vissuto come necessità, ma
questo percorso ha un senso più profondo proprio perché vissuto in
relazione con altre donne che, come me, osano uscire da un luogo
conosciuto, fasciante… cercando di mettere il naso fuori dal guscio. Questo
“noi” segnala un cammino condiviso, sia con donne della propria
comunità che con donne di altre realtà. Questa relazione, superando il
senso di solitudine e di fatica che potrebbe diventare occasione di
abbandono e di rinuncia, produce, di fatto, la possibilità di vivere e
sperimentare insieme la gioia e il piacere di questo percorso e il gran
senso di libertà che lo accompagna. A
volte ho la sensazione di essere su una barca, in balìa delle correnti,
mentre guardo il mare aperto e sconfinato, con i remi in azione e con il
cuore colmo di desiderio di andar oltre, di non lasciarmi trascinare dalla
corrente, ma di decidere quale debba essere il senso e la direzione della
mia vita… §
Desiderio di libertà: spalancare porte e finestre su nuovi
orizzonti. Nei miei pensieri, nella mia esperienza di fede, nel cammino
comunitario spesso sento l’esigenza di allargare il campo di ricerca, di
aprirmi a sensibilità ed esperienze nuove. Ho ricevuto questi stimoli in
modo particolare dalle letture e dall’incontro con teologhe femministe,
soprattutto quelle più radicali. Ma desidererei aprirmi di più anche ad
altre esperienze diverse dalla mia, dalla nostra spiritualità e fede,
dialogare anche con altri percorsi che raccontano e parlano del divino,
del sacro, di Dio usando altre immagini e altre metafore. Mi riferisco
alla ricerca su volti e nomi per dire dio anche al femminile, alla
riscoperta di antiche pratiche cultuali spirituali nel mondo denominato
pagano, con il culto della Grande Madre. Ma mi interpellano anche le
parole di Luisa Accati, citate da Elisabeth Green durante il nostro ultimo
incontro nazionale: “Il
problema per le donne non è costruire una dea o un dio femminile o una
madre simbolica anche lei onnipotente uguale e parallela a Dio, ma
restituire limiti e dignità morali, valore e pensiero alla corporeità: a
partire dalla capacità del corpo materno di distinguere il concepimento
basato sulla violenza dal concepimento basato sul’amore… Lungi
dall’essere un difetto, non aver mai avuto un dio ginecomorfo è il
punto di forza, la lezione storica delle donne: la capacità di rispettare
la propria istanza morale senza bisogno di proiezioni onnipotenti di sé”
(“Il mostro e la bella”, pag. 234). §
Sento l’urgenza di liberare Dio, la nostra fede e la nostra
spiritualità, dalle gabbie patriarcali in cui sono stati racchiusi,
accogliendo approfondendo, senza pregiudizi, ogni sollecitazione che ci
proviene da percorsi di ricerca di donne. Con
quali difficoltà dobbiamo fare i conti? §
Ho avvertito più di una volta l’impressione di essere dentro e
fuori della comunità; le nostre comunità di base spesso sperimentano e
praticano sconfinamenti anche profondamente trasgressivi (ad esempio sul
piano della ricerca teologica, dogmatica ed ecclesiologica) che diventano
legittimi e condivisi… Ma
il nostro sconfinamento è più destabilizzante, forse perché va a
toccare qualcosa di più profondo, l’immaginario e il simbolico, forse
perché denuncia con forza che i testi cosiddetti sacri sono tutti
maschili e che l’emarginazione della donna è palpabile, forse perché
osa proporre pratiche comunitarie e celebrazioni che si discostano troppo
dall’ortodossia… §
Poi ci sono anche difficoltà con altre donne: alcune sono
indifferenti o ritengono marginale questo cammino, altre fanno sì un
pezzetto di strada con noi, ma poi non se la sentono di allargare troppo
gli orizzonti della ricerca, soprattutto quando sconfinano dalle consuete
pratiche comunitarie “miste” e abbandonano la partecipazione al
gruppo, altre temono il conflitto… Penso che sia faticoso per tutte
uscire dall’ordine simbolico patriarcale, anche e forse soprattutto nel
campo della fede ed è necessario un lungo lavoro su di sé per uscire da
questo ordine. E forse le occasioni, i tempi e i modi non sono uguali per
tutte. Chi
legittima questo percorso? Due
sono prioritariamente, per me, i soggetti che mi danno forza e mi
incoraggiano in questo cammino: 1)
Al primo posto, c’è questo “noi” che ci mettiamo insieme,
tra donne, per partire da noi, dal nostro desiderio profondo, dal nostro
stare ai margini, luogo abitato da D**, il/la D** sconfinato/a, come ci
diceva Elisabeth Green nell’ultimo nostro incontro, per mettere al primo
posto i pensieri, i desideri e gli sguardi delle altre donne che
condividono con me questa realtà. 2)
Sono convinta che Dio è amore e non può volere altro che il
nostro bene, il nostro agio, vuole che ci sentiamo libere, non costrette,
non escluse e subordinate. Questo mio immaginario di Dio (che non è più UN immaginario, ma un molteplice di immaginari) esprime qualcosa che mi invita alla ricerca di felicità, e quindi mi autorizza a fare questo cammino e io, a questo punto, non sento più il bisogno del riconoscimento né delle chiese, né degli animatori delle comunità, né degli studiosi. Cerco questo riconoscimento, in primo luogo, nelle parole e negli sguardi delle donne, e poi, solo dopo, posso anche stare in relazione con tutto questo variegato mondo: chiesa, chiese, realtà religiosa… ma non più con il senso del dovere o dei sensi di colpa, ma col senso del desiderio. Quando
questo percorso di libertà diventa un evento prioritario e
irrinunciabile, nasce con forza la fedeltà a questo percorso e io mi sto
accorgendo che, almeno per me, c’è un punto di non ritorno. Sono
cambiata e non posso, ma soprattutto non voglio, tornare indietro. Intervento
di Paola Morini per Thea gruppo
di ricerca teologica al femminile
Quando,
a partire dal titolo del convegno, abbiamo provato ad interrogarci sulla
nostra storia, ci siamo subito imbattute in una parola che ci piace molto:
"leggero". Da quest’aggettivo ci siamo sentite rappresentate
nel nostro modo di trovarci, di confrontarci al di là d’ogni regola,
giudizio o schema istituzionale; un modo che dall’esterno a volte
potrebbe apparire caotico ma che a noi sembra solo molto vivo e libero. Tanto
più poi ci è piaciuto l’accostamento "leggero-divino" perché
è esattamente l’esperienza di un <divino leggero e accogliente>
che ci ha tenute insieme. Per sette anni in due domeniche al mese siamo
riuscite ad andare al di là del "comandamento" di santificare
le feste ed abbiamo sperimentato la presenza della divinità nello spazio
che siamo riuscite a generare per accoglierla; cercando di capire come si
può nominare il divino oggi e che rapporto c’è tra il modo in cui lo
si dice e il modo in cui lo si vive. Abbiamo
percorso questo cammino, per i primi cinque anni, all’interno del
"Centro di educazione permanente alla pace" di Rovereto e
l’essere ospiti in questo luogo ci ha indotte a riflettere ogni volta su
questo tanto controverso termine : "PACE". Ne abbiamo colto la
distanza, l’irraggiungibilità, la manipolazione , la violazione, ma ne
abbiamo anche vissuto la presenza e la forza, soprattutto nella sua
accezione evangelica di capacità di generare un mondo nuovo. (In questi
giorni il sorriso sereno delle due Simona ci è parso quasi l’emblema di
questa possibilità.) Negli ultimi due anni ci ha accolte invece la
"Sala valdese" di Rovereto e ciò ha reso anche fisicamente
evidente il carattere interconfessionale, o meglio aperto, del nostro
cammino: una prassi comune, tra donne con percorsi diversi, che ha
arricchito la coralità della nostra narrazione del divino e la pluralità
del nostro agire. Ma
torniamo al nostro percorso di pace in un mondo in guerra. Più volte ci
siamo chieste in che cosa consistesse la nostra "estraneità"
come donne e come credenti rispetto alla logica dominante della violenza.
Abbiamo cercato di capire da dove fosse possibile trarre la capacità di
trasformare e rinominare un simbolico religioso che, nel corso della
storia, troppo spesso si è prestato alla manipolazione di un potere che
vive se stesso come unico e assoluto. Ci siamo chieste quale fosse la
nostra capacità d’ascolto della divinità e ci siamo imbattute nella
distanza; la distanza che una storia patriarcale ha costruito tra DIO E LA
DONNA, tra L’UMANITÀ E LA NATURA, tra il MONDO E LA PACE. Una distanza
che ha avuto bisogno di istituzioni e di ministri per colmare lo iato, che
ha fatto del sacro un patrimonio da amministrare anziché un bene da
condividere e un limite da rispettare. E ci siamo dette che parlando della
DIVINITÀ AL FEMMINILE, vivendola tra noi, facendole spazio, quella
distanza andava scomparendo e un po’ alla volta sapeva emergere, nella
vicinanza, la sacralità della VITA. E
più vivevamo questa esperienza, più chiara si faceva la sensazione che
per molto tempo la sacralità fosse stata nascosta, mascherata, separata
dal vivere e al suo posto avessero preso la scena le VERITA’, subito
divenute VERITÀ DOMINANTI. Ci siamo dette che forse è stato così che si
è imposto il principio astratto, che l’etica è divenuta corollario
dell’esercizio del potere, che la vita ha lasciato il posto alle idee e
il GIUDIZIO è diventato strumento operativo della costruzione dell’OMOGENEITÀ. Abbiamo
avuto chiaro come da questa costruzione culturale siano venute
oppressioni, guerre, roghi e morti, tutto un percorso storico-politico
all’interno del quale si colloca dolorosamente la nostra vita. Oggi
ci sembra di poter dire che il percorso intrapreso ci ha condotte a
sentire il sacro come presenza, una presenza accolta e rispettata e perciò
inevitabilmente sottratta al giudizio. E nel riconoscere che la sacralità
sta nella vita stessa ci accorgiamo che essa va al di là dell’etica e
della sua volontà di stabilire in modo inequivocabile ciò che è bene e
ciò che è male. Per
noi oggi la responsabilità etica riconosce il limite del soggetto e del
momento, ci rende consapevoli, attraverso l’accettazione di questo
limite, del fatto che al centro di tutto c’è sempre quella vita che è
stata consegnata a ciascuna di noi come una fiamma da non lasciar
spegnere. Abbiamo
anche capito che questa fiamma non può essere consegnata ad altri perché
ha bisogno di noi per ardere coinvolgendoci nella sua luce, nel suo
calore, nella sua capacità d’incendiare. Ed
è per fare un bel falò, ricco delle sfumature di tutti i colori che
siamo qui oggi con voi; forse non illumineremo il mondo, ma sicuramente
potremo vivere il calore della sorellanza.
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