Seminario - venerdì 8 novembre
2002
La nonviolenza come rivoluzione?:
alle radici della violenza e della guerra nelle sistemazioni religiose e
culturali, in particolare in quelle che connotano l’identità europea.
1) Relazione
A cura
di Enzo Mazzi (Comunità dell’Isolotto)
Premessa:
Il fondamentalismo intollerante e violento è una degenerazione o è
invece costitutivo delle istituzioni religiose?
Il presidente Ciampi ha di
recente sostenuto (a Bratislava il 9 luglio scorso – così ci dicono i giornali)
l’idea di inserire nella nuova Costituzione europea un esplicito riferimento
alla comune matrice religiosa cristiana. Posizione ribadita da Giuliano Amato
(vicepresidente della Convenzione europea incaricata di scrivere il testo
comune), il quale, col plauso di Gianfranco Fini, ha detto che “la Carta dovrà
contenere anche i valori identitari della società e tra questi la religione,
potente fattore di difesa dei principi di tolleranza tipici della società
europea. … Le religioni hanno una forza straordinaria, non vedo ostacoli a
inserirle nella Costituzione europea”.
Tralasciamo il problema
specifico della Costituzione europea, che merita altre competenze e altri
spazi. Invitiamo invece a porsi la domanda, che hanno evitato di porsi Ciampi,
Amato e Fini, se è vero, o meglio se è totalmente vero, che le religioni, e più
in particolare la religione cristiana nelle sue diverse connotazioni
confessionali, sono un “potente fattore di difesa dei principi di tolleranza”.
Se lo sono state in passato e se lo sono adesso. Se il fondamentalismo
intollerante e violento è una degenerazione o se è invece costitutivo delle
istituzioni religiose, dei loro impianti ideologici e simbolici, e in questo
caso se è costitutivo di tutte o solo di alcune religioni.
C’è chi sostiene che le
religioni sono radicalmente intolleranti e fonte di intolleranza. Il
fondamentalismo non sarebbe una degenerazione ma un connotato costitutivo di
tutte le religioni.
Condividiamo una tale analisi?
Ci rassegniamo a consegnare alle strumentalizzazioni del potere, che esistono e
sono forti, una immensa risorsa di valori e di esperienze positive e creative
quali sono le religioni?
Il problema esiste e resiste.
Dio-Assoluto o Dio-relazione e quindi re-lativo?
La nostra tesi, o meglio la nostra esperienza, è che le
religioni sono un potente fattore di tolleranza, ma soltanto per una specie di
codice genetico impresso nel profondo dalle esperienze che le hanno generate.
Non lo sono invece per gli assetti ideologici e istituzionali che le religioni
hanno assunto nella loro storia di connubio col potere. Le religioni sono un
potente fattore di tolleranza nella misura in cui i “credenti” hanno il
coraggio e la forza di ritrovare e rivitalizzare e portare a pienezza epoca per
epoca quel codice genetico. Non lo sono nella misura in cui i “credenti” si
assoggettano, si rassegnano, si adattano agli assetti ideologici e
istituzionali della codificazione violenta. Non sono fattore di tolleranza se i
“credenti”, che magari si impegnano per condannare e contrastare
l’intolleranza, la violenza e la guerra nella società laica, economica e
politica, non esprimono uguale impegno nel ricercare e contrastare le radici di
intolleranza, di violenza e dei guerra che si annidano negli ordinamenti
ideologici, dogmatici e simbolici della loro stessa fede.
Prendiamo spunto dal film di Pam Nalin Samsara. In prima istanza è il
protagonista, un giovane lama, che critica l’assolutismo radicalmente violento
e intollerante della rinuncia come unica via al nirvana. La sua non è una
critica di sole parole. Esce dal monastero, si innamora, si sposa e ha un
figlio. Poi però dopo varie esperienze sente di nuovo l’attrazione del
monastero e come Budda abbandona moglie e figlio per tornare alla vita della
rinuncia radicale. Infine è la moglie di lui che accusa il buddismo di essere
una esperienza di maschi per maschi. Intollerante verso la donna. Incapace di
capire e valorizzare il contributo femminile alla illuminazione. Che
illuminazione è quella del Budda, il maschio che abbandona la moglie e il
figlio? E’ una illuminazione a metà, è una illuminazione escludente e
intollerante. “Buon viaggio” dice la moglie al marito che l’ha abbandonata e
che dopo un drammatico colloquio sarebbe anche disposto a tornare a lei e al
figlio. E così lo lascia ai suoi tormenti di maschio, eterno bambino,
“credente” ma di una esperienza spirituale e in qualche modo religiosa che
promette miracolose illuminazioni ma rende incapaci di relazioni piene.
L’illuminazione è relazione sconfinata.
In termini diversi, la critica contenuta in Samsara si può applicare sostanzialmente
anche alle altre religioni. Più a fondo conosciamo la religione cristiana e
cattolica e su questa ci diffonderemo. Come l’illuminazione buddista, anche la
salvezza cristiana dovrebbe tendere a trovare il suo fondamento primo nelle
relazioni attualizzando epoca per epoca l’esperienza da cui sono scaturiti i
Vangeli. Il Vangelo è essenzialmente primato assoluto delle relazioni: ama Dio
e ama il prossimo. Il resto, tutto il resto viene dopo. E dovrebbero venire
dopo, nel cristianesimo, la verità, il sacramento, la rivelazione, il potere di
sciogliere e di legare, il dogma , la legge. E dovrebbe venire dopo anche
l’ovile, cioè la Chiesa come appartenenza. Prima è la relazione in quanto
relazione aperta, costantemente alla ricerca di un “oltre”, protesa al
superamento di tutti i confini e di tutte le appartenenze. Si direbbe che prima
è l’amore critico e creativo. Dio stesso, il Dio del Vangelo, è relazione. Dio
non è l’Essere perfettissimo, l’Assoluto, l’Onnipotente, l’Unico. Questa
concezione di Dio come onnipotenza, unicità, assolutezza è la proiezione umana
del senso del dominio e del potere. Ci torneremo dopo. Il Dio dei Vangeli non è
onnipotenza ma paternità, è Padre. Sorvoliamo sul fatto che anche Dio-Padre può
essere visto come proiezione del potere patriarcale. Anche in Dio-Padre c’è una
radice di violenza. Qui c’interessa però il primato della relazione introdotto
nel concepire Dio dai partecipi alla esperienza da cui nascono i Vangeli. Dio è
padre è figlio è spirito. Non è monoteista. Il monoteismo non viene dai Vangeli
ma dal connubio successivo dei poteri ecclesiastici col potere imperiale. E’ il
potere imperiale romano che per essere onnipotente deve essere unico ed ha
bisogno di specchiarsi in una divinità monoteista. E nel momento in cui il
cristianesimo accetta di piegarsi a coprire e sostenere l’unicità e
l’onnipotenza del dominio romano sul mondo allora conosciuto, in quel momento
modifica il suo Dna, diviene monoteista e viene costituzionalmente inserito nel
sistema di guerra. Dio unico e onnipotente, non è più che di nome il Dio del
Vangelo, in realtà è il dio della guerra.
La
violenza insita nel monoteismo
Per affrontare questo aspetto è d’obbligo riferirsi a uno
studio fondamentale di
Erik Peterson: Il monoteismo come problema politico,
Queriniana, Brescia, 1983. Il libro
esce in Germania nel 1935 da un dotto teologo tedesco che prima era stato
protestante e poi si era convertito al cattolicesimo in polemica con
l’accondiscendenza ai poteri politici delle dirigenze ecclesiastiche
protestanti. Peterson è un oppositore del nazismo e scrive il libro proprio in
funzione antiregime. Egli mostra e dimostra che il cristianesimo all’origine
non è monoteista. Il dio del Vangelo è essenzialmente relazione e in qualche
modo pluralismo: è un Dio trinitario, è un Dio amore in quanto relazione fra
persone diverse. E’ da Costantino che il cristianesimo diventa fede monoteista,
cioè adorazione di un Dio unico, Padre onnipotente, creatore e signore del
cielo e della terra, in funzione di giustificazione e sostegno all’assetto
imperiale universale del potere romano. E all’inizio lo fa per contrastare
l’accusa che veniva fatta ai cristiani di essere nemici dell’impero e negatori
della divinità dell’imperatore. Sono i Padri della Chiesa che dicono in
sostanza: guardate che i veri difensori della sacralità dell’impero siamo
proprio noi. La nostra religione è superiore alle altre proprio perché noi
crediamo in un solo Dio in cielo dal quale deriva la verticalità del potere
anche sulla terra. E’ il politeismo la causa delle guerre fra popoli e delle
ribellioni. Perché ognuno ha il proprio Dio e tutti questi dèi sono in lotta
perenne fra loro. Solo la fede in un dio unico può portare a un unico dominio,
quello dell’imperatore romano, e alla pace stabile se non eterna fra le nazioni
e i popoli.
Tale problema esisteva ancor
prima di Costantino. Sembra che gli imperatori romani precedenti avessero già
tentato di incoraggiare e diffondere il culto a un dio generico, universale, un
dio supremo e celeste in cui tutti gli altri culti e religioni e anche i
cristiani stessi potessero riconoscere qualche tratto del proprio dio: e questo
dio universale era stato individuato nel “dio sole”. Sembra che Costantino
nella battaglia del ponte Milvio contro Massenzio non avesse sui labari
l’insegna di Cristo ma proprio quella del dio sole. Solo in un secondo momento,
diventato unico imperatore, avrebbe assunto la religione cristiana come
strumento di sacralizzazione della sua autorità unica e cemento dell’unità
dell’impero.
E lo fa col consenso del potere
ecclesiastico ormai saldamente in mano ai vescovi. I quali si appoggiano nel
governo della Chiesa a intellettuali influenti e convincenti che vengono
chiamati “Padri della Chiesa” in quanto davvero hanno generato la ideologia
cristiana detta tradizione ecclesiastica, cioè il dogma, la morale, l’etica
dell’ordinamento liturgico e canonico, la visione complessiva della realtà.
Orbene, i Padri della Chiesa da Costantino in poi, seguono tutti la stessa
linea ideologica: uno l’impero, uno il potere, uno Dio, uno il Salvatore
universale Cristo Gesù.
- A cominciare da Eusebio, il
primo storico ecclesiastico vissuto in Palestina dal 265 al 340 circa e
divenuto vescovo di Cesarea di Palestina nel 313. Grande amico di Costantino,
suo biografo e da lui ricoperto di onori e ricchezze.
Esiste un profondo legame in
Eusebio– scrive Peterson – fra la fine degli stati nazionali e la fine del
politeismo, fra la monarchia di Augusto e la venuta di Cristo, fra la pax
romana e la pace portata dal “principe della pace”.
“Chi potrebbe non meravigliarsi – sono parole di Eusebio – se pensa tra sé e riflette che non può
essere opera di uomini, che soltanto a partire dai tempi di Gesù e non prima,
la maggior parte delle nazioni dell’ecumene siano giunte sotto l’unico dominio
dei romani e che contemporaneamente all’inaspettata venuta di Cristo fra gli
uomini, lo stato romano abbia cominciato a fiorire? Augusto diventò unico
sovrano sulla maggior parte delle nazioni … che ciò non coincidesse casualmente
con l’insegnamento del nostro salvatore, chi non lo vorrebbe ammettere, se si
pensa che per i suoi discepoli non sarebbe stato facile muoversi in tutte le
direzioni se le nazioni fossero state isolate fra loro … avendo ciascun popolo
la sua sovranità? Dio che è sopra di tutti aveva davvero preparato loro la via
e, attraverso il timore nei confronti dell’impero, aveva fatto cessare le esplosioni
di ribellione da parte dei superstiziosi del politeismo … ma quando apparve il
Signore e Salvatore e contemporaneamente al suo avvento, Augusto, primo tra i
romani, diventò sovrano fra le nazioni, si dileguò il frazionamento pluralista
della sovranità nelle singole nazioni e la pace avvolse tutta la terra … sotto
il nuovo nome di Cristo, innumerevoli popoli e nazioni hanno abbandonato i loro
dèi tradizionali e il loro vecchio superstizioso errore politeistico richiamati
a colui il quale è Dio unico … per questo viene ora donata ad essi la pace più
profonda poiché non esiste più una sovranità pluralistica e una regalità
locale, al contrario ognuno si riposa dal suo lavoro agricolo all’ombra di una
vite o di un fico poiché niente più lo spaventa”
Per cui, secondo Eusebio -
commenta Peterson –, il monoteismo è iniziato in linea di principio con la
monarchia di Augusto e con la fine delle nazionalità. E’ Augusto che inaugura
il monoteismo. Ciò che però ha avuto inizio con Augusto diventa realtà piena
con Costantino. All’unico re sulla terra corrisponde l’unico re in cielo e
l’unica religione sovrana quella di Cristo.
Le idee di Eusebio hanno avuto
un’enorme influenza storica. Le ritroviamo ovunque nella letteratura dei padri
della Chiesa.
Prudenzio poeta cristiano
spagnolo, latino, del terzo secolo scrive:
“Vuoi che ti dica, romano, qual è la causa del così grande successo
dei tuoi sforzi, il sostegno che ha permesso alla tua gloria di accrescersi al
punto da imporre al mondo il freno del tuo dominio? I popoli avevano lingue
differenti, i regni civiltà discordanti, Dio volle riunirli sottomettendo a un
solo impero tutto ciò che era civilizzato … affinché l’amore della religione
tenesse uniti i cuori degli uomini; infatti non c’è unione degna di Cristo se
uno spirito unico non associa intimamente le nazioni – infatti che posto
potrebbe esserci per Dio in un mondo violento e nel cuore degli uomini in
disaccordo e che difendono in diversi modi i loro diritti, come fu una volta?”.
S. Ambrogio, vescovo di Milano,
del VI sec.: “Tutti gli uomini hanno
imparato, vivendo sotto un unico impero universale, a proclamare col linguaggio
della fede l’impero dell’Onnipotente”.
S. Girolamo, filosofo e biblista
latino, del VI sec,: “Dopo che si giunse alla
sovranità di Cristo, Roma ottenne di essere governata da un unico potere, e la
terra divenne accessibile al cammino degli apostoli, e furono loro aperte le
porte delle città ed il comando di uno solo fu consolidato dalla predicazione
di un solo Dio”.
E via di questo passo…..
Peterson conclude criticando il
monoteismo come degenerazione pericolosa anche per il suo tempo, il tempo della
dittatura nazista. Rovesciando il ragionamento di Eusebio, secondo cui come si
è visto sarebbe soltanto dal monoteismo in cielo e dal governo di uno solo
sulla terra che verrebbe la vera pace, Peterson sostiene invece che proprio nel
monoteismo si annida la radice della dittatura, della violenza e della guerra.
Insomma la pax romana esaltata dai padri della Chiesa non è vera pace, anzi è
guerra infida, ancor più pericolosa e distruttiva della guerra dichiarata. E’
sistema di guerra che si ammanta di pace e così riesce ad abbassare le difese
etiche e psicologiche e a farsi accettare come bene supremo. E’ una guerra
vinta nelle coscienze prima ancora di essere combattuta.
Egli rivendica piuttosto il
ruolo teologico e politico del dogma cristiano della Trinità di Dio in
opposizione al dogma del Dio unico o monoteismo.
Va riconosciuto a Peterson il
valore della sua analisi storica sulle origini del monoteismo e apprezzato il
suo sforzo nell’individuare nel monoteismo stesso radici della cultura del
dominio violento. Ma risulta debole quando trova la soluzione nella Trinità
intesa in senso dogmatico, personalizzato e totalmente trascendente.
Questo modo di intendere la
Trinità è riduttivo. Un Dio relazione trinitaria, ma relazione chiusa in se
stessa in quanto astratta dal mondo, relazione autosufficiente, relazione che
crea e governa dall’alto tutte le relazioni umane, in che si differenzia dal
Dio unico?
Forse occorre andare oltre il
dogma e oltre la trascendenza separata dal mondo e dalla vita.
Già il
Dio della Bibbia, Javhè, non nasce monoteista, lo diventa come proiezione del
potere monarchico. Il re David aveva preceduto Costantino.
Studiosi, storici e teologi, ci dicono che il
problema della esclusività del culto di Dio per il popolo d’Israele, sancito
dal primo comandamento (Non avere altro
Dio fuori di me, o tradotto in modo più appropriato: Non avere altro Dio al mio cospetto – Esodo, cap.5, 7), non ha
nulla a che fare col monoteismo, il quale sarebbe invece un approdo molto
posteriore alla codificazione del decalogo.
Sembra che il decalogo biblico, le famose tavole
della legge, si radichi in antiche esperienze di vita nomade e che prima della
immigrazione in Palestina non esistesse un "popolo d'Israele” schiavo in
Egitto, ma solo tribù e gruppi tribali senza legame fra loro. Erano le tribù
del nomadismo povero senza diritti, diverse dai beduini i quali erano proprietari
di cammelli e potevano avanzare diritti su un certo territorio. Vivevano
pacificamente nella steppa ai margini meridionali della terra palestinese
coltivata, dove l’estate dopo il raccolto trovavano pascolo per il proprio
bestiame minuto. E’ forse da questa esperienza di sradicamento che nasce in
tali tribù il culto verso una divinità anch’essa sradicata, non legata ad
alcuna località, ma accessibile solo attraverso un patto di reciproca elezione
fra tribù e Dio, patto simboleggiato dalla tenda. E sarà questa religione della
tenda che le tribù del nomadismo povero si porteranno con sé quando in
determinate circostanze storiche riusciranno a insediarsi nella terra coltivata
non più solo per una stagione ma per tempi via via più lunghi. Il primo
comandamento è una disposizione legata al culto non dogmatica né ideologica:
quando prestate culto a me spogliatevi degli altri dèi. Essa trae significato
da uno sfondo che lo storico delle religioni definisce politeistico, infatti è
proprio perché gli ebrei convivevano pacificamente con più divinità che nel
momento del culto collettivo a Jahvè sentono il dovere e il bisogno di
dedicarsi a lui solo (Gerhard Von Rad, Teologia
dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia, 1975, vol I pag. 244).
Ma la storia d’Israele non
finisce con la immigrazione dal nomadismo alla terra coltivata della Palestina.
Il processo successivo è la conquista della terra e poi la nascita dello stato
monarchico.
Con la unificazione politica
operata dalla monarchia, anche Jahvè viene centralizzato e diventa il dio
unico.
E Jahvè cammina e precisa la propria identità col
precisarsi della identità del suo popolo. E’ così che con la conquista, con la
unificazione di tutte le tribù, con la nascita dello stato, col consolidasi
della monarchia, con l’affermarsi del dominio di Israele sugli altri popoli
della Palestina, anche Jahvè acquista potere e s’impone. E quando David
trasporta a Gerusalemme l’arca e quando Salomone costruisce il tempio, il Dio
nato errante e sradicato diviene oggetto di un culto di stato in un luogo
istituzionale.
E’ a cominciare da questo periodo storico di unificazione
e di relativa potenza che inizia il processo di riflessione su Dio che condurrà
all’esclusivismo di Jahvè non più solo nei momenti del culto ma come principio ideologico.
E’ qui insomma che nasce il monoteismo. Si sviluppa nei circoli di corte, in un
clima culturale che oggi definiremmo di secolarizzazione, quando gli ambiti
della vita e quelli del culto si differenziano e si separano.
Il monoteismo è un prodotto della mente che si emancipa
dalla natura. La nascita di Dio come entità assoluta ed escludente, la cui
identità è definita dagli intellettuali di corte ed è imposta a tutti come
elemento politicamente unificante, coincide con la morte di Dio del deserto,
anima del mondo, fermento della vita, della morte, delle relazioni, amore che
unifica e libera dal di dentro, forza da cui emanano direttamente e di volta in
volta i carismi capaci di condurre il popolo anche nelle azioni belliche. Ora
anche la guerra non è più un evento di popolo, legato alla lotta per la
sopravvivenza, ma un affare di stato e un sistema di potere. Il legame fra il
trono di Jahvè e il trono di David diviene indissolubile.
E così nel Dna del Dio della Bibbia si è inserito il gene
del sistema di guerra.
Contro quel gene si sono opposti molti profeti, alla
radice di quel gene ha posto la scure l’esperienza di Gesù di Nazareth.
Dal
Dio-relazione-amore dei Vangeli a Dio “cifra assoluta della aggressività
umana”.
Nel cristianesimo avviene lo stesso processo di
trasformazione di Dio che si è verificato nella tradizione ebraica. Possiamo
dire con Peterson, citato, che il Dio dei Vangeli è relazione trinitaria.
Precisando però, cosa che non fa il ricercatore tedesco antinazista, che tale
relazione trinitaria è anima della rete infinita delle relazioni umane e
cosmiche, e non dominio trascendente-separato. Senza questa precisazione
sostanziale, anche la relazione trinitaria diventa imperiale e fonte
d’imperialismo. Quindi Dio é relazione a sua volta compresa, realizzata
creativamente da tutte le relazioni umane e cosmiche. Non basta dire Dio
Trinità. Forse bisogna dire Dio-relazione incompiuta, Dio-relativo, imperfetto
e bisognoso, Dio-speranza, Dio-futuro.
Ci sono pagine di Ernesto Balducci che esprimono con
rigore e radicalità una tale trapasso storico compiuto nel cristianesimo.
In un Convegno delle comunità di base, a Firenze, nel
salone dei 500, nel 1987, egli affermò:
"Io sono convinto che non ci può essere cultura della pace se non
con la eliminazione del sacro: la fine del sacro è la fine della cultura di
guerra...quando è avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane negli spazi
del potere, c'è stata la sacralizzazione della Chiesa ... il Cristianesimo si è
inserito nei quadri della cultura sacrale ed ha assolto la funzione di
religione della società; e la religione di una società ha il compito di portare
i sigilli alla violenza della società. …Il cristianesimo è lacerato al suo
interno in maniera irrimediabile da questa doppia polarità. Da una parte il
cristianesimo pretende di essere la religione della società, chiede spazi,
concordati, riconoscimenti. Allora esso è inevitabilmente funzionale alla
logica della violenza, senza rimedio. Ma il cristianesimo in quanto fede
profetico-messianica è un annuncio e una esperienza di liberazione dell’uomo da
ogni forma di alienazione, da ogni forma di sudditanza alla forza, e quindi è
di per sé una profezia e una esperienza di pace. Le comunità di base sono
comunità di pace nel senso forte e ricco della parola. Esse mirano ad
esorcizzare la violenza che attraverso la stessa pedagogia della fede abbiamo
introiettato, la violenza che si annida anche nei nostri riti, per inventare
una forma di mediazione del messaggio evangelico del tutto libera dalle categorie
sacrali. ". (Enzo Mazzi, Ernesto
Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma, 2002 – sezione a
cura di Sergio Gomiti).
Poi Balducci spiega che il
“sacro” è una realtà complessa. Non va identificato, egli dice, con uno spazio
determinato. Il sacro non va reificato. Il sacro è la percezione del relativo,
il bisogno di trascendere il relativo in cui siamo immersi. Il sacro quindi è
la funzione critica della società. Esso richiede una gestione profetica, una
consapevolezza che parta dal basso, dal terreno della vita. Un sacro così
inteso e vissuto è il sogno del figlio di un minatore dell’Amiata, che
approdato a Firenze e condotto in un primo tempo a intrecciare rapporti con i
salotti della élite intellettuale e con le stanze del potere, aveva poi sperimentato
il suo “esodo” (Diario dell’esodo è
il titolo di uno dei suoi libri più significativi) come ritorno alle radici
della sua origine popolare. Ciò che va eliminato - spiega ancora Balducci - è
il sacro reificato, sequestrato dal potere, separato dalla vita, collocato in
spazi e luoghi e gesti e riti determinati, gestito da persone sacralizzate. E’
il sacro che dalla rivoluzione del neolitico in poi ha assolto la funzione di
integrare la forza dentro le regole della ragione. Non di eliminare la forza ma
di sacralizzarne e regolarne l’uso come cultura: cultura di guerra, momento
dirimente dei conflitti sia interni che esterni alla città. Va eliminata la
sacralità come funzione del potere, del dominio e della espropriazione
dell’uomo. E’ proprio questa eliminazione del sacro reificato l’esperienza che
fecero le comunità del primo annuncio del Vangelo.
Sono affermazioni forti. E
soprattutto sono centrali nella elaborazione dello scolopio, figlio di un
minatore dell’Amiata, rimasto fedele alla cultura popolare delle proprie
origini. Purtroppo sono per lo più ignorate dai biografi di lui o annegate nel
mare di temi meno compromettenti per la sua futura santificazione.
In una conferenza del 1988 e in una successiva conferenza
sulla Rivoluzione della nonviolenza
fu ancora più esplicito:
"Le religioni, nate come sono in questa cultura di guerra, sono
sempre religioni di guerra, nonostante che esse magari esortino alla pace,
invochino la pace. Esse legittimano il costume di guerra, le categorie mentali
della guerra....Per vivere, esse devono morire".
“Il rapporto decisivo, sia per
valore simbolico sia per una sua fondamentalità metafisica, è quello uomo-Dio,
che è servito da schermo e da sigillo ideologico della cultura della violenza.
Si tratta dell’asse antropologico in cui le mie esperienze conflittuali sono
più frequenti, quotidiane e quindi mi perdonerete se vi insisto.
Le cose che devo dire sono certamente le più scandalose perché non
appena tocchiamo i centri nevralgici della nostra violenta sistemazione culturale
la reazione si fa più forte. Abbiamo esaltato all'infinito, sacralizzandoli, i
nostri istinti di aggressività nell'idea di Dio. Dio è la cifra assoluta della
aggressività umana. L'uomo ha scritto che Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e
somiglianza. La verità è l'opposto: l'uomo ha fatto Dio a propria immagine e
somiglianza. Il Dio a cui siamo stati assuefatti è un Dio aggressivo,
discriminante, implacabile, giusto nel modo con cui noi pensiamo che si debba
essere giusti, capace di mantenere in totale estraneità da sé i cattivi per
tutti i secoli dei secoli. All'interno di un Dio così pensato abbiamo collocato
il Vangelo di Gesù Cristo”. Teologicamente è avvenuto questo (i testi di
teologia studiati per secoli dai preti sono lì a dimostrarlo): prima si è
dimostrato, in forza di ragione, come se la ragione fosse un metro allo stato
puro, conservato in edenica purezza, che Dio c'è e che cosa è Dio. Poi abbiamo
detto che questo Dio ideologicamente definito si è incarnato in Gesù Cristo il
quale ha fondato una Chiesa la quale ha tutti i poteri. ... Il cerchio si
chiude! L’aggressività passata attraverso Dio, sacralizzata ai vertici, scende
su di noi. La teocrazia fu la sistemazione teorica massima di questa
aggressività con la teologia sacrificale, secondo la quale Dio non perdona
l'uomo finché l'uomo non ha fatto una espiazione pari al peccato, cioè
infinita; non essendo questa espiazione possibile all'uomo, che è finito, era
necessario che ci fosse un uomo-Dio per cui l'espiazione fosse dell'uomo - e perciò
del soggetto peccatore - ma anche di Dio - e perciò infinita. Ed ecco Gesù
Cristo uomo-Dio! Questo è il cerchio della teologia aggressiva.
Noi riscopriamo che il Dio di Gesù Cristo non è questo Dio. Noi che
siamo i promotori di una rivoluzione nonviolenta, all'interno della Chiesa,
dobbiamo compiere questa rivoluzione e scoprire il Dio di Gesù Cristo. Il Dio
di Gesù Cristo non è scoperto dalla ragione umana che è sotto sospetto, ma è
manifestato dall'uomo Gesù di Nazareth. …. Dio si manifesta nel mondo come
servo sofferente, non come padrone dominante. … Soltanto i miti conoscono Dio …
Dio si conosce con la mitezza interiore, cioè col superamento della violenza,
l'abbandono di ogni atteggiamento di violenza, anche conoscitiva. … Dobbiamo
allora liberarci dalla cultura della violenza perfino nella nostra vita di
fede. Non è cosa da poco” (Testimonianze 328/1990, pagg 26-27).
Lavori in
corso
Balducci, da buon intellettuale, usava l’indicazione
“dobbiamo”: “dobbiamo liberarsi dalla
cultura della violenza perfino nella nostra vita di fede”. Noi da gente
della strada abbiamo un’altra indicazione: “lavori in corso”. Stiamo parlando
della esperienza delle comunità di base e di altre simili. E’ davanti a noi il
discorso di liberazione di Gesù a Nazareth e i segni profetici delle guarigioni
inviati dallo stesso Gesù a Giovanni Battista. Lavoriamo per liberarsi e
liberare per sanarsi e sanare. E non lavoriamo solo nelle regioni della
consapevolezza. Lavoriamo anche oltre le frontiere delle consapevolezze e
perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri
e soprattutto della gente umile, della gente da sempre repressa, da sempre
inginocchiata a chiedere la salvezza dall’onnipotenza, incapace perfino di
sognare, ai confini del silenzio di donne e uomini dove l’inconscio si apre
all’ignoto. Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno,
cova nascite di mondi nuovi. Ai confini di quei silenzi che dotti e maestri e
sacri pastori ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente
razionalità necrofila, “verità vera”, razionalità senza mistero. Lavoriamo per
far emergere e sanare traumi spirituali e morali che la mente e tutto il corpo
hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della
speranza, spavento senza parola, vuoto dell’anima (tutto questo è in
straordinaria consonanza con le nuove frontiere della psicanalisi - cfr. Patrizia Cupelloni La ferita dello
sguardo, Angeli 2002, in Corriere della sera 22 maggio 2002 p. 37). Lavoriamo
per passare dalla perdita inconsapevole e dall’angoscia talvolta senza nome
alla ricerca di senso e di speranza: questo vuol dire per noi comunità, primato
delle relazioni senza confini, cristianesimo dei segni dei tempi, religione
dell’amore critico e creativo. Anche da qui, da questa rivoluzione delle e
nelle religioni passa l’anima sociale e solidale del processo di
globalizzazione.
Le nostre esperienze e riflessioni hanno individuato nel
Dio-Assoluto-Onnipotente una delle radici principali della violenza e del
sistema di guerra.
Intrecciate con questa e forse sue derivazioni altre
radici s’insinuano in ogni piega degli assetti religiosi sia del cristianesimo
sia delle altre religioni istituite.
Solo a titolo di esempio, presentiamo alcuni aspetti:
- Lo stretto
legame fra sofferenza, morte e peccato-ribellione.
Dio-Bontà e Perfezione assoluta non ha creato il dolore
del mondo e nemmeno la morte, li ha solo previsti nella sua onniscienza. Ha
creato esseri liberi. E’ dalla libertà che nasce la ribellione al progetto di
Dio, cioè il peccato, il male assoluto. E’ dal peccato-ribellione-male assoluto
che vengono la sofferenza e la morte. Il peccato-ribellione-male assoluto è il
nemico radicale della felicità. Per questo non ci sono limiti alla lotta contro
il peccato. La violenza e la guerra sono in radice necessarie. Anzi sono
connaturate alla funzione delle religioni come fulcro della lotta divina e
umana contro il peccato. Contingenze storiche possono consigliare più
misericordia e meno violenza e possono addirittura escludere la violenza e
condannare in certi casi la guerra. Mai però si può escludere la lotta contro
il peccato attraverso il sacrificio.
Mi sembra molto significativa una pagina del cardinale
Carlo Maria Martini, un testimone del travaglio in cui si dibatte la parte più
illuminata e aperta della ortodossia teologica cattolica col timbro
dell’ufficialità. “L’ira di Dio” è il
titolo di una conferenza del 1993 che poi ha dato il titolo a una raccolta dei
suoi scritti (Longanesi, 1995).
Prima di tutto egli riconosce che in passato Dio era
davvero la proiezione dell’aggressività umana. Oggi c’è una ricerca nuova. Il
fulcro di tale ricerca sta nella distinzione fra “ira esterna” di Dio e “ira
intrinseca”. Dio non interviene dall’esterno per punire. Non ne ha bisogno. E’
dall’interno della relazione con lui, dall’interno dell’Alleanza, che viene
automaticamente il castigo quando l’Alleanza viene infranta. “In altre parole –
scrive testualmente Martini – è l’umanità che si prepara con le sue mani un
castigo. Se l’alleanza significa felicità, la perdita dell’alleanza equivale a
infelicità”.
Ma il cardinale va oltre. Non gli basta questo automatismo
intrinseco dell’ira di Dio. Capisce bene che ha tolto a Dio la spada
fiammeggiante ma lo ha armato di una violenza ancor più distruttiva perché
infida: è la violenza introdotta nella coscienza intima dell’uomo, introiettata
dall’uomo. Il padrone il quale riesce a convincere lo schiavo che sarà felice
solo se ubbidisce e sarà invece infelice se disobbedisce, quel padrone non ha
più bisogno della frusta esteriore, La frusta l’ha impressa nell’interiorità
dello schiavo.
Questo è un passaggio necessario, ma non è l’approdo del
cardinale. “Tuttavia, una nozione di
giustizia immanente … - scrive testualmente - non coglie tutto il mistero
dell’ira di Dio. Dovremmo allora tornare a una nozione del Dio vendicativo che
scaglia personalmente i fulmini contro i peccatori? Credo che ci sia una terza
via, quella dell’ira salvifica di Dio, espressa nel Vangelo a proposito di Gesù”.
Devi insistere nella citazione riportando i brani più toccanti, perché è
impossibile riassumere un pensiero così complesso. “Il calice dell’ira di Dio … è bevuto da Gesù … Gesù, a nome
dell’umanità, assume l’ira di Dio, meritata dai nostri peccati, nel suo corpo,
l’ira immanente che è l’ingiustizia del mondo … E’ il mistero della croce … E’
Dio stesso che, nel Figlio, si lascia schiacciare dalle conseguenze del peccato
realizzando il massimo dell’ira e il massimo della misericordia. E’ un mistero
che nasce dalla Trinità … Non potremo mai capire appieno questo mistero, però
lo abbiamo tra le mani nell’eucaristia; è il mistero per cui la divinità stessa
si carica dell’ingiustizia del mondo per riscattarla attraverso autodonazione …
Siamo di fronte a un grande quadro nel quale specchiarsi come persone chiamate
a essere in qualche modo profeti del Nuovo Testamento; non ad accusare la
società, a lamentarci di essa quasi fosse lontana da noi, bensì a coinvolgerci
nelle sue difficoltà e nei suoi drammi, nelle sue sofferenze e nei suoi
problemi. E’ la nostra sofferenza che salva la società, l’umanità; è il pianto
di Gesù che è già salvifico”.
Ciascuno può confrontarsi con un tale pensiero e dare la
propria valutazione. Devo però contestare al cardinale Martini la seguente
affermazione:
“il mistero per cui
la divinità stessa si carica dell’ingiustizia del mondo per riscattarla
attraverso l’autodonazione … è, potremmo dire, la punta più profonda della vera
teologia della liberazione”. Innanzitutto quando dice “vera teologia della
liberazione” sottintende che c’è una “falsa teologia della liberazione”.
Quale? Forse la teologia della liberazione innervata dalla prassi di
liberazione delle comunità di base ed espressa da teologi-testimoni come
Ignazio Ellacuria (massacrato in El Salvador nel 1989)?
In effetti la teologia della liberazione compie un
percorso idealmente rivoluzionario. Rovescia la prospettiva, anche quella di
Martini, che incentra su Dio-Assoluto-Onnipotente tutto il potere.
E’ l’essere umano nel quale l’umanità è più nuda,
“l’ultimo” come si dice, il centro della storia e della vita. In questa
prospettiva non è la sofferenza, non è il sacrificio che salva la società, ma
l’impegno storico e la lotta pacifica (pacifica perché l’ultimo non ha armi, ha
solo la propria nuda umanità).
- Lo
stretto legame fra peccato e sacrificio, stabilito da Dio-Assoluta Giustizia.
Per vincere la morte eterna Dio
ha bisogno di vite infrante su questa terra, ha bisogno di sangue versato.
L’innocente stesso non può non essere sacrificato. Perché mai, se lui è un
essere così docile e buono? La risposta della teologia dominante non solo nel
cristianesimo ma, in forme diverse, in tutte e tre le cosiddette religioni del
libro è questa: Abele, prototipo dell’innocente, non può non essere sacrificato
perché in realtà anche lui non è innocente.
Anche il martire, prima di essere assunto da Dio come
testimone, è al fondo come tutti peccatore e in quanto tale destinato alla
morte eterna e al supplizio senza fine. Di fronte al peccato di origine con cui
Adamo ed Eva hanno inquinato tutta l’umanità per tutti secoli dei secoli non
c’è bontà che tenga. La giustizia infinita di Dio non può transigere di fronte
all’offesa infinita appunto perché è una giustizia infinita e perfetta. Per salvare
il genere umano peccatore e quindi per salvare anche il martire ha bisogno di
sangue versato. Caino e tutti i massacratori della storia sono al fondo
strumenti della giustizia divina, perversi quanto si vuole, liberamente
perversi, ma sempre strumenti, previsti e messi nel conto dalla onniscienza di
Dio.
La cosa poi nel cristianesimo si
complica ulteriormente perché tutto il sangue dei martiri e tutte le sofferenze
e tutte le morti non sarebbero affatto sufficienti. Il peccato di origine ha
prodotto un’offesa “infinita”, perché è ribellione a un Dio infinito, e quindi
ci vuole una riparazione anch’essa di valore infinito. Ecco il martirio di Dio
fatto uomo, Gesù. Solo lui, assumendo un corpo umano ma restando Dio, con la
morte di croce apre la salvezza al mondo intero. La croce è la sofferenza e la
morte di un uomo ma ha un valore infinito perché quell’uomo è Dio. E così Dio
dimostra il suo grande infinito amore. La giustizia infinita è placata ma è
soddisfatto anche l’amore infinito. Così stanno insieme giustizia infinita e
amore infinito.
Ma allora, se Cristo da solo è sufficiente, perché i
martiri? Non se ne poteva fare a meno? Non bastava il sangue e la morte
dell’uomo-Dio? No, perché i credenti in lui, i salvati, i buoni, sono la
continuazione nel tempo del suo corpo e quindi non possono non passare
attraverso la partecipazione alla sofferenza e alla morte di lui. Per
risuscitare con lui alla vita e alla felicità eterna non possono non essere
crocifissi in qualche modo con lui e con
lui sepolti nella morte terrena. La felicità eterna ha bisogno di sofferenza
terrena; la risurrezione ha bisogno di morte. Ogni sofferenza e ogni morte è in
qualche modo un martirio attraverso cui si può accedere, se Dio lo vuole, alla
vita eterna.
La
trasformazione della eucaristia in sacrificio perenne.
L’eucaristia, come viene concepita e vissuta, è la
codificazione del legame inscindibile fra peccato e sacrificio e il
sanzionamento della perennità della violenza nel mondo.
Nel Vangelo non sembra che sia così. Tradotto in termini
espliciti, e quindi riduttivi, il messaggio che emana dalla simbologia
evangelica dell’ultima cena potrebbe essere questo: la via della salvezza non
passa attraverso il sacrificio rituale, che è solo consolatorio, anzi è un
imbroglio mascherato di sacro (il Tempio ridotto a spelonca di ladri). La via
della salvezza sta nella condivisione degli elementi offerti dalla natura e dal
lavoro dell’uomo, essenziali alla vita, simboleggiati dal pane e dal vino. E il
sacrificio? E’ scomparso? No, non è affatto scomparso. E’ anzi inserito, con un
significato però rovesciato, come elemento essenziale nella profondità del
significato della condivisione. La condivisione eucaristica del pane e del vino
non è una qualsiasi spartizione contrattuale: io do una cosa a te e tu dai una
cosa a me. La eucaristia è una condivisione esistenziale che non è mai appagata
dai livelli di giustizia raggiunti storicamente dalle spartizioni contrattuali.
Cerca e vuole livelli sempre più alti di giustizia e quindi tende di continuo a
un “oltre” che sfugge a ogni possesso. Perché il corpo e il sangue, la vita
umana, non si possono esaurire mai in un contratto o in un programma politico.
Il corpo e il sangue sono l’anima della trasformazione continua della storia.
Sono il motore intimo della lotta inesausta per la giustizia.
E’ sottile e profondo questo
significato della eucaristia nel Vangelo.
Condividere il pane e il vino è
salvifico, produce salvezza, perché è condividere corpo e sangue, è condividere
la vita.
E condividere la vita, ecco un
ulteriore passaggio, è accettare che la vita sia limitata e mortale. E quindi
in qualche modo è anche vincere la morte. E’ un vincere pieno di drammaticità
ma anche di positività: è gestire e superare l’angoscia della morte. Tant’è
vero che il Gesù dei Vangeli affronta la conflittualità, con cui i dominatori
del Tempio tentano di contenere e reprimere il carattere destabilizzante di
quella condivisione, affronta lo scontro mettendo in gioco il proprio corpo e
il proprio sangue. E così poi faranno i primi cristiani che affronteranno col
martirio la conflittualità con la cultura e il potere dell’Impero, che vuole
dominio sulla spartizione e non condivisione.
L’eucaristia è l’anima della
ricerca inesausta e anche della lotta pacifica per la giustizia. Non si può
condividere pane e vino, i simboli della eucaristia, senza condividere corpo e
sangue.
E venne la transustanziazione a
devitalizzare l’eucaristia.
Quando è avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane
negli spazi del potere c'è stata la sacralizzazione della Chiesa. E' cominciata
l'avventura della fede dentro le categorie del sacro. Il cristianesimo-potere
ha rovesciato il senso di questa simbologia insita nell’ultima cena. E’ stata
sancita la transustanziazione. Il pane eucaristico non è più condivisione
perché non è più pane ma è il corpo di Cristo. Il pane è annullato per rendere
perenne la necessità del sacrificio. Il pane e il corpo sono stati di nuovo
contrapposti. La vita, la natura e il sacro sono stati di nuovo separati. E
all’ansia di giustizia e alla lotta pacifica per la giustizia è stata tolta una
parte dell’anima. E l’eucaristia è stata devitalizzata. E al posto della
giustizia e del diritto si è insediata la “carità cristiana”.
Le radici della violenza e del sistema di guerra nelle religioni è un
tema che non può essere escluso dai nuovi traguardi per una globalizzazione
sociale.
Il problema intriga da vicino
anche l’attuale movimento “New global”.. La fase che si sta aprendo con
Seattle, con gli incontri di Genova 2002, col Forum sociale europeo di Firenze
richiede una particolare attenzione al rapporto col fenomeno religioso. La
globalizzazione non è solo economica e politica. La dimensione religiosa e
culturale della globalizzazione è altrettanto importante. Anche i centri del dominio
globale di oggi hanno bisogno, come Costantino, di specchiarsi in un dio unico
e onnipotente. Il monoteismo è moderno. Anzi è post-moderno perché s’intreccia
con la religione del mercato e del danaro: un solo dio in terra, cioè il
danaro, valore assoluto, un solo dio in cielo, cioè l’Assoluto.
“Dopo l’11 settembre occorre
prendere le distanze dal fondamentalismo economico, politico e religioso” ha
detto Naomi Klein nella videointervista all’affollato incontro padovano del
Sherwod Festival 2002. Ma si doveva aspettare il crollo delle torri gemelle per
rendersene conto? Ancora una volta a rimorchio?
Un mondo diverso ha bisogno di religioni diverse.
Religioni diverse non solo nella forma o nelle parole, ma nella sostanza.
Diverse perché capaci di diversa fedeltà al loro codice genetico generativo.
Per essere onesti però dobbiamo
riconoscere che non sono affatto chiari né l’obbiettivo né il percorso. Che
significa l’impegno di Balducci, “aiutare le religioni a morire”? Che significa
il motto buddista “essere pace e non soltanto operare per la pace”? D’altra
parte, di fronte a queste domande sta un altro interrogativo che è un po’ anche
una risposta: chi l’ha detto che per incamminarsi verso un mondo diverso
bisogna avere chiari obbiettivi e percorsi? Sono forse chiari gli obbiettivi e
i percorsi di una economia solidale? Insomma se si aspetta di aver chiari
obbiettivi e percorsi si resta fermi, come il millepiedi che pretendeva aver
chiaro il meccanismo e la successione del movimento di tutte le sue zampine.
Immaginare e tendere a costruire un mondo diverso significa scommettere e
rischiare. Anche a livello degli orizzonti simbolici-religiosi.
C’è qui un ulteriore passaggio
fondamentale. Aiutare le religioni a morire, con tutta la incertezza e il
rischio che comporta, e con tutta la saggezza che richiede, non può essere
ancora una volta un impegno religioso e per soli religiosi. Ha ragione il
sociologo Franco Ferrarotti nel sostenere che la fame di sacro e il bisogno di
religione vanno sottratti all'abbraccio mortifero della religione-di-chiesa,
burocratica e gerarchicamente autoritaria, ma aggiunge che ciò va fatto con una
lotta su più fronti, "dentro ma anche fuori della chiesa".
Insomma i laici non possono più
continuare a chiamarsi fuori dai problemi religiosi, ecclesiali e perfino
teologici.
Le frontiere della laicità non
si possono più disegnare in base al muffito metro del credere/non credere. C'è
bisogno di consapevolezze nuove e di percorsi inediti.
Ci si scalda quando gli interventi
ecclesiastici ci toccano negli interessi diretti e immediati: contraccettivi,
aborto, omosessualità, ingerenza politica, scuola cattolica, violenza
psicologica sui bambini a base di colpevolizzazioni. Ci si esalta e giustamente
quando i prelati o i preti condannano la guerra o denunciano la ingiustizia o
vivono da eroi fra i poveri. Il resto è considerato questione interna alla
religione. Questo giocar di rimessa con le religioni è una caratteristica
congenita del laicismo. Cent'anni fa, quando era "certo" che la
religione, considerata residuo dell'età infantile dell'umanità, sarebbe stata
superata dal progresso, poteva apparire razionale lasciar sopravvivere la
teocrazia come gioco da riserva indiana. Oggi tale atteggiamento è chiaramente
distruttivo. Perché il liberismo sta cavalcando la ripresa delle religioni a
livello mondiale con una capacità di penet«razione i cui effetti si vedranno a
lunga scadenza. Il sistema di dominio globale se ne fa un baffo delle condanne
ecclesiastiche. Le mette nel conto come pedaggio. A lui serve che l’abbraccio
materno delle religioni, contribuendo a rassicurare e consolare, stabilizzi il
potere.
Scrive Rita Levi Montalcini:
“Come affermato da A. Koestler (1969): «una delle caratteristiche
principali della condizione umana è questa suprema esigenza e bisogno di
identificarsi con un gruppo sociale e/o con un sistema di credenze che è
indifferente alla ragione, indifferente all’interesse dell’individuo e anche
all’istinto di conservazione … Siamo così portati alla conclusione, che
contrasta con quella dominante, che il problema della nostra specie non deriva
da un eccesso di aggressività per autodifesa ma da un eccesso di devozione
trascendentale» …I sistemi etico-sociali ai quali l’individuo è stato esposto
sin dall’infanzia …dettano la condotta del giovane e dell’adulto … I messaggi
recepiti negli anni nei quali il cervello è immaturo, dall’infanzia
all’adolescenza, periodo nel quale esso gode della massima plasticità
neuronale, assume un valore fondamentale nel comportamento dell’individuo
adulto” (La Repubblica, 7 maggio 2002)
Le stesse cose che dice la scienziata del
cervello le aveva dette lo studioso della psiche, Eric Fromm, nel suo studio
sulla Anatomia della distruttività umana
(1973). Insomma ci portiamo dentro a nostra insaputa, e si porta dentro la
intera società, la violenza insita nei grandi sistemi etico-sociali e quindi
nelle religioni.
E’ su questo “eccesso di
devozione trascendentale” che il sistema di dominio mondiale fonda la propria
stabilità, oltre che sugli strumenti di condizionamento economico e sul sistema
di guerra.
Ed è su questa radice profonda
della violenza che bisogna lavorare.
E’ veramente possibile liberare le religioni dal gene della violenza e
della guerra?
La ripresa delle religioni è
moderna perché moderna è l'esigenza da cui scaturisce.
La specie umana sta scoprendo la
propria mortalità, come più volte è avvenuto nella storia in altri contesti, ma
oggi in maniera altamente drammatica, e si scontra con le sfide che ne
derivano: la sfida del senso, dell'identità, della solidarietà. Tutti siamo
dentro tali sfide. Ignorarle pensando che siano questioni da risolvere con
scelte individuali è un regalo che si fa allo stesso sistema di dominio
globale. Ignorarle significa lasciare campo libero al bisogno forte di
esorcizzare la finitezza della specie stringendosi nell'abbraccio materno degli
assoluti e dei leaders religiosi o laici che sembrano incarnarli. Il quale
abbraccio però tanto è amorevole e allettante quanto ambiguo e capace di
generare mostri di distruttività e violenza anche quando a parole li esorcizza.
E comunque è un abbraccio che fa parte della morsa con cui il globalismo
liberista sta stringendo il mondo.
Si pone qui la domanda cruciale:
è realmente possibile liberare le religioni dalla violenza iscritta, come dice
Balducci, nel loro codice genetico?
Sono possibili un cristianesimo,
un islamismo, un ebraismo non-religiosi e non-monoteisti, è possibile un
buddismo non distrattivo e non consolatorio?
E’ realmente praticabile la
convergenza auspicata da Ferrarotti fra il “dentro” e il “fuori” o meglio un
superamento di tale confine ormai anacronistico?
Val la pena di tentare?
Per due millenni i cristianesimi sono stati movimenti di
dominazione maschile e sottomissione delle donne.
Movimenti che hanno cospirato con il capitalismo per
costruire un sistema globale economico, politico, spirituale totalmente centrato
sul desiderio di dominio maschile.
Come accade attualmente nel mondo delle multinazionali,
che controllano e incanalano l’esistenza della gente offrendo non tanto un
prodotto, per soddisfare dei bisogni, quanto uno stile di vita attraverso la
filosofia che il marchio che rappresentano propone, i cristianesimi attraverso
la “vendita” del marchio Cristo, hanno controllato e ancora impongono “uno
stile di vita” nel quale, offrono in particolare alle donne, ma non solo,
sottomissione, sacrificio, silenzio.
“Noi donne siamo invisibili come chiesa- suggerisce la
teologa cattolica Elisabeth S. Fiorenza- non per caso o a motivo di una nostra
disfatta, bensì per quelle leggi patriarcali che, a causa del nostro sesso, ci escludono
dal ruolo ecclesiastico…Sono le strutture patriarcali della chiesa che hanno
causato il silenzio e l’invisibilità delle donne; e vengono mantenute tali da
una teologia androcentrica, cioè definita da uomini…” . (1)
“L’immagine biblica e popolare di un Dio simile a un
grande patriarca celeste –dice Mary Daly- che ricompensa o punisce secondo la
propria misteriosa e apparentemente arbitraria volontà ha dominato la fantasia
di milioni di persone per migliaia di anni. Il simbolo del Dio Padre, proliferato
nell’immaginazione umana e reso credibile dal patriarcato, a sua volta ha reso
un servizio a questo tipo di società facendo sembrare giusti i suoi meccanismi
per l’oppressione della donna. Se Dio nel suo (di lui) cielo è un padre che
governa il suo (di lui) popolo, allora è nella natura delle cose e conforme al
progetto divino che la società sia governata dai maschi” (2)…”se Dio è maschio,
allora il maschio é Dio. Il patriarca divino continua a castrare le donne
finché gli si consente di sopravvivere nell’immaginazione umana”. (3)
Così M.Daly nel 1973 denunciava le chiese, il loro
operato, la loro perenne adesione a quel patriarcato che denominava le
strutture sociali sessiste. Quel patriarcato che è tuttora una forma di
organizzazione sociale, economica, politica in cui il potere è nelle mani di
pochi uomini legittimati da quel Dio Padre che diventa il garante di un ordine
socio-simbolico caratterizzato da rapporti di disuguaglianza egemonica, di
paternalismo, di imperialismo e di colonialismo.
I cristianesimi parlano di chiese, ancora adesso, che
spesso vivono una condizione di alienazione dal tempo in cui viviamo.
Chiese che non prendono posizione di fronte alla
discriminazione di genere (in molte religioni le donne non hanno la possibilità
di accostarsi attraverso la predicazione ai testi sacri), alle contraddizioni
del neoliberismo, allo stato di guerra permanente in cui molti popoli vivono.
Chiese che vivono, come la chiama Hanna Arendt, nella
“lacuna del presente”, protese, cioè, verso un passato significativo, quello
dell’incarnazione di Dio attraverso Gesù Cristo, passato che non riescono
spesso risignificare di nuovo oggi; o verso una dimensione escatologica futura
del Regno che verrà, così lontana e imprendibile da essere inutile.
Quella lacuna del presente che per Hanna Arendt potrebbe
essere capace di affermare un proprio cammino “in grado di correggere
radicalmente la logica rovinosa dello scontro tra passato e futuro” offrendo
all’umanità quel presente che è la radice del nostro essere e quindi quella
possibilità di saper parlare al proprio tempo. (4)
Dio è stato spesso addomesticato e condizionato dalle
diverse confessioni cristiane affinché potesse supportare quelle strutture di
oppressione create dall’avidità umana (dallo stermino degli ebrei all’apathaid,
dalla proibizione dell’aborto anche in caso di stupro di massa –ricordiamoci
della dichiarazione della chiesa cattolica di fronte alle donne bosniache-
all’uso di banconote in cui possiamo leggere “in god we trust” necessarie per
alimentare i commerci di armi e quindi i conflitti nel mondo).
Nel loro tentativo di autoaffermazione, le chiese in
quanto istituzioni, hanno dato luogo a fenomeni eticamente inaccettabili in
rapporto ai loro stessi fondamenti originari.
”Questo si è verificato con le Crociate e con la
repressione violenta delle sette ereticali tramite l’inquisizione, con
l’antisemitismo teologico nel Medioevo, in età moderna con le guerre di
religione e le conversioni forzate dell’epoca del colonialismo, e nell’età
delle rivoluzioni liberali nazionali europee con il sostegno sistematico alla
reazione politica, attuata all’insegna del binomio del Trono e dell’Altare. In
tutti questi casi il valore universale della charitas, predicato dal Vangelo,
si è pervertito –sostiene Carlo Tullio Altan- nella messa in pratica dell’intolleranza”. (5)
Le donne hanno un rapporto difficile con la storia in
genere, perché la storia e in particolare quella della teologia e delle chiese
le ha relegate nella sfera dell’irrilevante.
Basta pensare alle storie di estrema crudeltà, che
troviamo anche nella letteratura veterotestamentaria, di donne offerte in
sacrificio pur di vincere una battaglia, è questo il caso del guerriero Jefte e
di sua figlia, o delle figlie di Lot offerte per essere stuprate affinché
potessero essere salvati gli ospiti della casa.
Il Dio dell’ AT giustiziere, re, padre e padrone è stato
visto con sospetto non solo dall’ermeneutica femminista , persino Marcione, che
visse verso la seconda metà del II secolo pensava che il Dio dell’AT non fosse
altro che un “demiurgo, cioè un dio minore, responsabile di una creazione
malvagia, fondata sul principio della retribuzione e privo di bontà ed amore”
(6) bontà e amore che solo raramente toccava
l’esistenza delle donne.
Anche il rapporto con il cristianesimo non è facile per le donne perché sin dai
primi anni della sua vita, dopo aver abbandonato la spontaneità del movimento
di Gesù per costituirsi come chiesa, proprio il cristianesimo ha violato la
differenza femminile accostando ai testi biblici neo testamentari, che hanno
una apertura verso le donne, una tradizione non meno autorevole di quella
biblica.
Non sono rari gli esempi che troviamo nella letteratura
gnostica o in quella patristica in cui l’unico modo per le donne per essere in
presenza di Dio è legato alla metafora del “diventare maschio”. (7)
Diventare maschio come soluzione di passaggio da uno stato
inferiore a uno superiore.
Nell’evangelo gnostico di Tommaso leggiamo:
“Simon Pietro disse loro: “Che Maria si allontani da noi,
perché le donne non sono degne della vita”. Gesù disse: “Io stesso la guiderò
per fare di lei un maschio, affinchè anche lei possa diventare uno spirito
vivente simile a voi maschi. Perché ogni donna che si fa maschio entrerà nel
regno dei cieli” (logion 114).
Clemente di Alessandria a proposito della moglie cristiana
gnostica che si libera dalla schiavitù della carne e raggiunge la perfezione
allo stesso modo del marito, scrive: “Le anime non sono né maschi né femmine,
quando non prendono più moglie né sono date in matrimonio. Non è forse
diventata uomo la donna che è femmina più di quanto lo sia lui. Ed è una donna
perfetta, virile”.
Origene sostiene che “Uomini e donne sono distinti secondo
le differenze del cuore. Quante donne appartengono al sesso femminile, mentre
di fronte a Dio sono uomini forti, e quanti uomini invece devono essere
considerati donne deboli e indolenti”. L’obiettivo della salvezza viene
descritto come l’abbandono dello stato femminile, come un cessare di essere
donna mediante un cambiamento di sesso.
“…Didimo traccia
una chiara linea di demarcazione tra il mondo dei sensi da un lato e quello
spirituale dall’altro. Nel primo è stato Dio a decretare se una persona debba essere
uomo oppure donna, e la natura da lui assegnata non è modificabile; invece nel
mondo spirituale si può sceglie di diventare uomo. Una donna può, progredendo
spiritualmente, diventare uomo e quindi anche diventare un maestro con
l’autorità di guidare e ammaestrare altri, ossia può conseguire una legittima
autorità. Soltanto essendo un uomo spirituale in costante progresso l’anima può
raggiungere la più alta perfezione”.
Afferma Gerolamo “Finchè una donna è soggetta al parto e
alla cura della prole, differisce dall’uomo come il corpo differisce
dall’anima. Se però sceglie di servire Cristo più che il mondo, allora cesserà di essere una donna e sarà
detta uomo, giacchè noi tutti aspiriamo a diventare un uomo perfetto”. Quindi,
solo se una donna diventa ascetica cessa di essere donna e può essere chiamata
vir.
Palladio scrive: Non dire donna bensì essere umano, perché
essa è un uomo nonostante l’apparenza esterna del corpo”…oppure Gerolamo
descrive, in una lettera a Lucino, Teodora, la moglie di quest’ultimo così:
“essa è diventata tua sorella, da donna si è trasformata in uomo, da tua
suddita a tua pari.
Ma non solo la letteratura patristica ha influenzato la
costruzione dell’identità della donna cristiana anche la filosofia ha offerto
il suo lugubre contributo.
Non possiamo dimenticare, ad esempio, che Aristotele
“spiega la debolezza della costituzione femminile con l’umidità e la freddezza,
provocate dalle perdite della sostanza sanguigna che le donne subiscono
regolarmente: mentre gli uomini perdono occasionalmente il sangue per scelta,
ad esempio in guerra, le donne invece subiscono le perdite ematiche, senza
poterle controllare…-e sostiene anche che- la generazione di figlie femmine è
dovuta a un’imperfezione, a una parziale impotenza del seme maschile:
quest’ultimo, quando è al suo meglio, dovrebbe generare infatti solo figli
maschi. Quando invece c’è debolezza maschile e la materia non è dominata,
prevale l’animalità, si apre cioè la strada ai mostri, di cui il primo grado è
la femmina…”. (8)
Rimane quindi un problema di fondo, cioè che: “nel sistema
patriarcale androcentrico e misogino la donna – come dice Wanda Tommasi - non
disponga di un luogo proprio, cioè non possa amarsi né ritornare a se stessa
senza passare attraverso l’amore e lo sguardo dell’altro, del maschio. Secondo
la rappresentazione patriarcale di come le donne dovrebbero essere, vi è
l’impossibilità, per la donna, di specchiarsi nello sguardo delle proprie
simili per ritornare a se stessa senza essere deportata in un ordine simbolico
estraneo a sé”. (9)
Se penso alle mie madri cioè alle donne valdesi che dal
1215 furono considerate eretiche e quindi perseguitate non posso di nuovo che
attestare l’atopicità delle donne. Nonostante fosse loro riconosciuta una
capacità magistrale teologica e biblica all’interno del primo movimento
valdese, Bernardo, abate di Fontcaude scrive nei verbali dell’inquisizione:
“Oltre agli errori già detti, alle donne che accolgono nel loro consorzio
consentono di insegnare, nonostante ciò sia contrario alla dottrina apostolica”
(10).
Furono quindi condannate perchè osarono accostarsi ai
testi biblici, patrimonio indiscusso maschile, fonte di autorità suprema e per
gli inquisitori misura da usare per condannare e mettere a morte coloro che non
camminavano, secondo loro, con fedeltà evangelica nella vita.
E’ in questo modo che furono uccise molte donne mentre
altre si salvarono dopo essere state costrette al pubblico pentimento e a
rilasciare dichiarazioni, suggerite ovviamente dai chierici, nelle quali si autodenunciavano definendosi
come quelle che “Dopo la predicazione ogni giorno più lautamente mangiavamo, ci
sceglievano ogni notte nuovi amanti, trascorrevamo il tempo senza essere
sottoposte ad alcuno, senza preoccupazioni, senza impegni di lavoro, senza pericoli...”
(11)
In quegli stessi anni, 1298, la chiesa cattolica prese una decisione
drastica anche rispetto alle donne che vivevano nei conventi. Mentre in passato
proprio i conventi potevano essere visti come piccole oasi, quindi luoghi di
frontiera, in cui era possibile ricevere una formazione culturale e teologica
con il decreto “Periculoso” Bonifacio VIII, impone la clausura.
“Noi ordiniamo con questa costituzione, la cui validità è
perpetua e che non potrà mai essere messa in discussione, che tutte le monache
e ciascuna di essa, presenti e future, a qualsiasi ordine possano appartenere,
dovranno ormai restare nel loro monastero sotto una clausura perpetua”.
Questi solo alcuni degli esempi dei frutti di quel
patriarcato che ha generato e continua a generare violenza e guerra.
Mary Daly sostiene su “Via Dogana” che “ poichè (Dio)
l’uomo- il Dio dei maschi- non ha alcun potere di creare, di dare la vita,
esprime la sua impotenza cosmica distruggendo le donne e la natura. Guerre,
stupri, assassini, atti di tortura sono legittimati da questo simbolo: le nuove
tecnologie riproduttive che umiliano, mutilano e torturano le donne vengono
legittimate da Dio. La sofferenza atroce e la morte di animali, la
manipolazione genetica di piante inflitta dai bioingegneri hanno dimostrato che
vogliono diventare un tutt’uno don Dio. Questo significa che scelgono di
identificarsi sempre di più con il loro ruolo di distruttori di vita” …”Il
nostro mondo viene distrutto dai seguaci di ‘Dio’. Dobbiamo trovare il Coraggio
di Peccare – di parlare ed agire contro il patriarcato e le sue legittimazioni
teologiche. E dobbiamo aver fiducia che le donne seguano il nostro esempio e
acquisiscano il Coraggio di vedere, attraverso tutti gli inganni che
imperversano. Dobbiamo osare fare questo, perché la sopravvivenza della nostra
vita su questo pianeta dipende da noi”. (12)
CHE FARE ALLORA?
Penso semplicemente che Dio vada immaginato di nuovo,
radicalmente da capo, vada liberato/a dalla costruzione in cui i maschi
“cristiani” lo hanno costretto/a.
Quando parlo di immaginazione non intendo parlare di
fantasia, voglio invece parlare di quell’immaginazione che non è legata alle
idee astratte, al sogno. Parlo invece di quell’immaginazione legata alla vita
concreta e materiale. La vita di tutti i giorni che ci vede legati/e alle
relazioni che abbiamo con le/gli altri, ai nostri e agli altrui bisogni.
Dio, così come io lo immagino, mi trascende e sapete che
trascendere significa attraversare, fare ponti, costruire nessi, dunque un Dio
che attraversa la mia esperienza e che è intento/a con me a costruire ponti tra
me e lui/lei, tra me e le altre e gli altri.
In questo gesto che ci vede intenti a costruire nessi e
ponti mi sembra che Dio acquisti di nuovo movimento cercando di parlare al mio,
al nostro tempo.
Leggendo la teologa argentina Marcella Althaus-Reid ho
imparato una nuova parola “cuceb”.(13)
“Cuceb” è una parola che il popola maya dell’America
Latina usava per descrivere quella che noi oggi chiamiamo rivoluzione. Letteralmente
significa scoiattolo ed è il simbolo dei cambiamenti sociali e di rapidi
cambiamenti di direzione, difficili da prevedere.
“Cuceb” descrive bene il Dio in cui credo: un Dio
difficile da prevedere, impossibile da possedere ma capace nel contempo di
tracciare una strada inaudita.
“Cuceb” è quel Dio capace di sorprenderci proprio perché è
così mobile da proibire a chiunque di tradurne l’universale Parola proprio
perché le Parole del “cuceb” sono tante. Nessuna di esse è definitiva perché
viaggiano e si modificano con il tempo per arrivare a noi mutate e arricchite
dalle nostre storie.
“Cuceb” è quel Dio che può aiutarci a resistere alle mille
strutture di peccato di questa società, divisa in pochi ricchi e sempre più
poveri, società che genera e alimenta la paura, e che uccide l’amore visto come
espressione di solidarietà e generosità.
Nello svolgimento di questo esercizio di immaginazione mi
sono imbattuta anche nel lavoro degli hacker.
Gli hacker sono donne e uomini che programmano con passione
e che ritengono che la condivisione delle informazioni sia un bene positivo.
Credono inoltre che sia un dovere etico non solo condividere le loro competenze
ma anche e soprattutto facilitare l’accesso alle informazioni e alle risorse di
calcolo ogni qualvolta sia possibile. (14)
Un/una hacker ha a che fare con l’abilità e con la
dedizione per ciò che fa e proprio loro
mi hanno suggerito un modo diverso di vedere il mondo.
Hanno infatti creato:
1. una nuova etica del lavoro che sfida quella mentalità
che ci ha resi schiavi di quell’etica del lavoro individualista legata solo alla produttività.
In un lontano passato il lavoro era legato alle condizioni del tempo e della
natura (luce, notte, stagioni…). Nel corso della storia i monasteri cattolici,
iniziando a scandire la propria attività con l’orologio per segnare il tempo
dell’horas officiis (laudes, prima, sexta, nona, vespera, completorium,
matutinae), offrono un modello lavorativo diverso, ripreso in seguito dalla
tradizione protestante, e tuttora utilizzato per ordinare il tempo lavorativo e
spesso anche quello libero. Anche quest’ultimo infatti viene legato ad una
qualche forma di produttività.
Gli hacker, invece, vedono il lavoro come intrattenimento
svincolato dalla produttività. Ciò che li muove è la passione per quello che
fanno. Il percorso diventa quindi più importante dell’obiettivo perché questo
viene raggiunto in forma collettiva dopo che le scoperte individuali vengono
mandate in rete e modificate per tornare di nuovo alla fonte dalla quale erano
partite.
2. Una nuova etica del denaro, quell’etica cioè di
condivisione delle informazioni che non rappresenta il modo dominante di fare
soldi nella nostra epoca.
E’ questo, anche, il principio etico secondo il quale
l’attività degli hacker non deve essere motivata dal denaro ma soprattutto dal
desiderio di creare qualcosa che la comunità di pari possa liberamente e
gratuitamente scambiarsi. Ed è proprio questa pratica che origina ciò che viene
ritenuto patrimonio collettivo e valore comune.
3. Una nuova etica del network o netica. Quella capacità,
cioè, di dare un grande valore al legame
e quindi importanza alla rete e al piacere per la relazione con e per le altre
e gli altri.
Ecco che allora vedere Dio come un “cuceb” e noi come
hackers può aiutarci ad avere una nuova visione del mondo. Una visione che
coglie Dio nel movimento e noi nella lotta e nella resistenza, con Lei/Lui, a
tutti quei meccanismi neoliberisti che creano un mondo in cui la ricchezza di
pochi produce la povertà di moltissimi/e attraverso un’iniquità che a molti/e
appare come norma.
In questo esercizio teologico “cuceb-hacker” forse sarà
possibile iniziare ad amare di nuovo, ad avere di nuovo occhi per vedere, con
disincanto, ma anche con speranza, già ora, un nuovo mondo possibile perchè:
“L’atto di amare, di manifestare amicizia, di far regnare
la giustizia è il nostro modo di incarnare Dio nel mondo....Con noi, grazie a
noi, attraverso di noi Dio vive, Dio diviene, Dio cambia, Dio parla, Dio
agisce...”. (Carter Hayward) (15)
Abbandonando ogni categoria teologica sedentaria,
monologistica e fallocentrica si può allora coltivare quell’arte della
slealtà (16) verso quest’epoca incivile,
che però già vede delle sacche di resistenza testimoniate da noi che siamo qui
a Firenze e da tutte/i quelle/i che quotidianamente creano mondo nuovo,
attraverso parole e gesti in cui sia possibile fare della politica, non un
esercizio di guerra e di potere, ma come dice Simone Weil (17), una politica
che cominci ad essere:
“L’ARTE DELLO STARE INSIEME E LA CURA DEL BENE COMUNE”
1. Marga Buhrig,
Donne invisibili e Dio patriarcale. Introduzione alla teologia femminista,
Torino, Claudiana, 1989, pag. 11.
2. Mary Daly, Al di là di Dio Padre.Verso una filosofia
della liberazione delle donne, Roma, Ed. Riuniti 1990, pag. 21 .
3. Ibid., pag. 27.
4. Laura Boella, Le parole chiave della politica, Mantova,
Edizioni Scuola di Cultura Contemporanea, 1993, vedi pagg. 5-22.
5. Carlo Tullio-Argan, Le grandi religioni a confronto. L’età
della globalizzazione, Milano, Feltrinelli, 2002, pag. 134.
6. Thomas Romer, I lati oscuri di Dio. Crudeltà e violenza
nell’Antico Testamento, Torino, Claudiana, 2002, pag. 8.
7. All’interno del volume a cura di Kari Elizabeth
Borresen, A immagine di Dio. Modelli di genere nella tradizione
giudaico-cristiana, Roma, Carocci, 2001, vi è un bellissimo saggio di Kari Vogt
proprio sulla metafora del diventare maschio dal quale ho ripreso le citazioni
presenti nel testo.
8. Wanda Tommasi, I filosofi e le donne, Mantova, Tre Lune
Edizioni, 2001, pag. 59.
9. Ibid., pag. 63.
10. Pagine molto interessanti sull’argomento sono state
scritte da Augusto Armand Hugon, La donna nella storia valdese, Torre Pellice,
Società di Studi Valdesi, 1980.
11. Grado Giovanni Merlo, “Le ‘misere donnicciuole’ che
predicavano” nella rivista Beidana, n. 3, maggio 1986, pag. 18.
12. Via Dogana. Rivista di pratica politica, n. 48,
febbraio 2000, pag. 9.
13. Marcella Althaus-Reid ha utilizzato la parola “cuceb”
all’interno di un articolo apparso sulla rivista teologica Concilium, 1996, dal
titolo “L’indecenza del nostro insegnamento. Note per un insegnamento cuceb di
teologia femmnista”, pagg. 199-210.
14. Molto bello è il libro di Pekka Himanen, L’etica
hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Milano, Feltrinelli, 2001 che
indirettamente mi ha suggerito la figura della/del credente come hacker.
15. Luce Irigaray (a cura di), Il respiro delle donne,
Milano, il Saggiatore, 1997, pag. 121 .
16. L’”arte della slealtà” è una espressione che devo alla
lettura di Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità,
Roma, Donzelli, 1995 usata dall’autrice per proporre la pratica di resistenza
del nomadismo di “un soggetto –cioé- in
transito e tuttavia sufficientemente ancorato ad una collocazione storicamente
determinata da accetarne le responsabilità e , grazie a questo, in grado di
risponderne” pag. 14. Uno sguardo critico, quella della nomade, che “è
assimilabile a ciò che Foucault chiama contromemoria; è una forma di resistenza
all’assimilazione e all’omologazione…” pag. 31.
17. Alessandra Bocchetti, Cosa vuole una donna. Storia,
politica, teoria. Scritti 1981/1995, Milano, La Tartaruga, 1995, pag. 244.
3) Relazione
La Teologia della Liberazione e la costruzione della Pace
nel contesto geopolitico attuale:
tra monolitismo e pluralismo religioso
Giiulio Girardi
Problema della pace e problema dell’alternativa 1
Non c`è pace senza sovversione (del disordine vigente) 1
Ruolo delle religioni , in particolare del cristianesimo,
nella costruzione della pace sovversiva 2
Le contraddizioni interne al cristianeisimo 3
Il cristianesimo tra pluralismo e monolitismo religioso 3
L’impatto omologante della globalizzazione neoliberale 4
La trasmigrazione di popoli,culture e religioni 4
La guerra contro il terrorismo islamico 5
I- IL
MONOLITISMO CRISTIANO-CATTOLICO 6
ISPiRATORE DI VIOLENZA E DI GUERRA 6
Il monolitismo cristiano-cattolico, ispiratore della
conquista. 6
Il monolitismo cattolico attuale, sorgente di violenza? 8
II IL MONOLITISMO ISLAMICO, LEGITTIMAZIONE DELLA VIOLENZA E DELLA GUERRA SANTA 9
La jihad, guerra di liberazione e di affermazione
dell’Islam 10
La jihad, terrorismo legittimo e necessario 10
La jihad, fondamentale dovere religioso 10
La jihad, guerra contro l’imperialismo con i suoi stessi
metodi 11
III –IL PLURALISMO RELIGIOSO E LAICO NELLA COSTRUZIONE
DELLA PACE 12
Come sorge in
prospettiva cristiana il problema del pluralismo religioso 12
Che cos’è il “pluralismo religioso” 13
Una premessa
metodologica 13
Definizioni mistificate del pluralismo religioso 13
Descrizione del pluralismo religioso 14
Fondamento filosofico
del pluralismo religioso e della pace 15
Fondamento teologico del pluralismo religioso e della pace 15
La teologia del pluralismo religioso e della pace,
espressione di una esperienza di fede profondamente rinnovata 16
Rapporto fra
pluralismo religioso e pluralismo laico 17
III-IL MACROECUMENISMO POPOLARE INDOAFROLATINOAMERICANO 18
Genesi del movimento 18
Senso del movimento macroecumenico “assemblea del popolo
di Dio” 19
Nuovi orizzonti aperti dal movimento macroecumenico
all’ecumenismo e alla teologia 20
IV- IL MACROECUMENISMO POPOLARE HA UN FUTURO IN EUROPA? 21
Domande che il nuovo
contesto multietnica, multiculturale e multireligioso impone all’impegno
macroecumenico dei cristiani 21
CONCLUSIONI : Macroecumenismo
e teologia della pace 22
Problema della pace e problema dell’alternativa
Il presente contesto geopolitico , all’interno del quale intendiamo impostare il problema della
pace, è caratterizzato fondamentalmente , come
hanno mostrato le nostre analisi
precedenti, elaborate in sintonia con il movimento di Porto Alegre, da due grandi fenomeni , il processo di
globalizzazione neoliberale e la guerra antiterrorista...
La globalizzazione neoliberale ci si è rivelata come una
guerra economico-politica di conquista e di colonizzazione del mondo, condotta
da una minoranza privilegiata dell’umanità contro la grande maggioranza. La
guerra antiterrorista poi non ci è
apparsa come un avvenimento particolare,
del quale sarebbe possibile indicare l’inizio e la fine, ma come una
prassi diventata permanente, diventata cioè lo strumento “normale” di una
politica di dominio del mondo da parte delle grandi potenze, in primo luogo
degli Stati Uniti. La guerra economico-politica e la guerra militare sono parte
dello stesso progetto neoimperialista.
In tale contesto,
il problema della pace coincide con quello dell’alternativa di civiltà. Dire che “un
altro mondo è possibile”, che è “in costruzione”, significa dire che “è possibile la pace, che
essa è in costruzione”.Il popolo di Porto Alegre nel suo impegno per progettare un mondo
diverso ha ritenuto essenziale affermare che “un mondo senza guerre è
possibile”. Individuando poi nell’esercizio della democracia partecipativa ,
cioè dell’autodeterminazione solidale il centro propulsore dell’alternativa di
civiltà, ha chiarito che per affermare fondatamente la possibilità di un mondo
senza guerre è necessario mostrare la
possibilità di un mondo dal quale siano eliminate le cause della guerra, e
quindi in primo luogo la volontà di dominare gli altri; è necessario inoltre mostrare che è possibile
istaurare un sistema di rapporti fondato
sull’amicizia e la solidarietà liberatrice, tra le persone, i popoli, le razze
i continenti; tra l’umanità presente e la futura; tra l’umanità e la natura.
Non c`è pace senza sovversione (del disordine vigente)
La
pace intesa come alternativa di civiltà
è la pace dei popoli e non quella degl’imperi. Essa ha come perno l’esercizio
dell’autodeterminazione solidale di
tutti i popoli e si contrappone per
questo alla pace degli imperi , alla pace americana, fondata invece sulla sottomissione della maggioranza dei
popoli al gruppo dei popoli più ricchi e
potenti, egemonizzati dagli Stati Uniti.
Dicendo
che la pace consiste in una alternativa di civiltà, vogliamo dire che essa , per essere autentica
e stabile, non può consistere unicamente
nella cessazione della guerra, ma che essa implica lo sradicamento delle
cause della guerra, che sono oggi il processo di globalizzazione neoliberale e
l’egemonismo delle grandi potenze. Quanto dire che la pace dei popoli implica
la sovversione del disordine vigente; e
che quindi la sua costruzione suppone una lunga lotta popolare.
E’ quindi
esatto che “non c’è pace senza giustizia”; ma bisogna completare l’affermazione dicendo: “non c’è pace senza
sovversione del disordine vigente; non c’è pace senza una lunga lotta popolare”
Ruolo delle religioni , in particolare del cristianesimo,
nella costruzione della pace sovversiva
La nostra
riflessione si propone di collocare in
tale contesto le religioni, e particolarmente
il cristianesimo. Nella costruzione della pace ( e quindi
dell’alternativa di civiltà) le religioni sono (come spesso pretendono) parte
della soluzione o parte del problema? Sono fattori di pace o promotori di
guerre?
Una prima risposta clamorosamente negativa la fornisce
oggi il terrorismo islamico, denunciato dal potere americano e occidentale come
il nemico principale della civiltà. In effetti, qualunque cosa si pensi della
legittimità delle guerre scatenate in
nome dell’Islam, è evidente che una
versione integralista di questa religione giustifica ed esalta la “guerra
santa”.; che quindi non è un fattore di pace ma di guerra.
Molti occidentali
pensano però che, comunque, un’accusa di questo genere non si possa rivolgere
al cristianesimo, che appare
invece come un promotore della pace.. Dopo l’11 settembre, , il papa convocò
particolarmente cristiani e musulmani
all’incontro di Assisi del 24 gennaio 2002, per proclamare che “la religione non deve mai diventare motivo
di conflitto”Tuttavia il nostro problema
non è di stabilire ciò che le religioni, e in particolare il
cristianesimo, debbono o non debbono
essere, ma ciò che esse sono e sono state storicamente su questo terreno.
La stessa denuncia dell’integralismo islamico da parte dei cristiani avrebbe un
tono molto diverso se fosse accompagnata dal riconoscimento che
l’integralismo non è proprio dell’Islam,
ma è presente in molte religioni, e particolarmente nella storia passata e
presente del cristianesimo.
E’ sulla storia del cristianesimo che vogliamo
ora concentrare la nostra attenzione,
nella convinzione che solo una coscienza critica delle nostre
responsabilità possa creare le
condizioni di un dialogo con l’Islam ,
che induca anche alcuni dei suoi fedeli
a riflettere autocriticamente sulla loro storia.
Ci domandiamo quindi, alla luce della storia, qual’ è nel presente conflitto geopolitico la
scelta di campo del cristianesimo? Cual’è il suo progetto di civiltà? E’
impegnato dalla parte degli oppressi o
degli oppressori?dalla parte del diritto o della violenza? dalla parte
dell’ordine imperiale o della alternativa popolare ?è un fattore di omologazione o di identità dei
popoli? il suo progetto di pace
coincide con quello dei popoli o con quello degl’imperi?
Le contraddizioni interne al cristianeisimo
Analizzando il cristianesimo alla luce della storia , e
non solo dell’ideologia, ci rendiamo
conto che la risposta a queste domande
non può essere univoca. Il cristianesimo è lacerato da profonde
contraddizioni interne, che ci obbligano a parlare piuttosto di
“cristianesimi”, cioè di modelli diversi ed antagonisti , che si o sotto lo stesso nome e che assolvono
storicamente ruoli diversi e contrapposti. Esistono cioè dei cristianesimi “imperiali”, alleati , da
Costantino ai giorni nostri , con i poteri oppressori ed esistono cristianesimi popolari , identificati con gli oppressi e
con le loro lotte di liberazione.
Questi due modelli di cristianesimo danno alla domanda
fondamentale che ci preoccupa due risposta antagoniste.Il cristianesimo imperiale
ha giustificato il processo di
colonizzazione e unificazione del mondo intorno agli imperi, e per ciò
stesso, la violenza militare, politica
ed economica che fu suo strumento; . Il cristianesimo popolare invece riconosce
il diritto dei popoli oppressi all’autodeterminazione
solidale e pertanto alla diversità
culturale e religiosa. Lottare per la pace e per l’alternativa significa
per esso impegnarsi a costruire una civiltà
segnata appunto dall’esercizio
dell’autodeterminazione solidale del popolo e dei popoli.
Tuttavia , come cercheremo di chiarire, le religioni e in
particolare il cristianesimo possono giungere autenticamente ad essere
costruttrici di pace solo se prendono coscienza del fatto che storicamente sono
state spesso fattori di guerra, di guerre religiose e di guerre
politico-economiche. Sono state e continuano ad essere fattori di guerra nella misura in cui hanno, come il
cristianesimo, un carattere monolitico: nella misura cioè in cui si considerano le uniche religioni
pienamente vere e pertanto chiamate a diventare la religione universale, il
pensiero religioso unico dell’umanità. Si considerano quindi legittimate a
squalificare le altre religioni ed a imporsi esse stesse con la violenza
culturale e magari con la violenza politica e militare. Con questo
riferimento al monolitismo religioso
come fattore di guerra stiamo introducendo il tema centrale della nostra riflessione sulla pace,
quello del pluralismo religioso e laico.
Il cristianesimo tra pluralismo e monolitismo religioso
In questa
contrapposizione tra due modelli di cristianesimo, assume oggi particolare
importanza la presa di posizione di fronte al pluralismo religioso,
l’alternativa tra pluralismo e monolitismo. Il problema s’impone per varie
ragioni, che desidero esplicitare.
L’impatto
omologante della globalizzazione neoliberale
In primo luogo, la globalizzazione neoliberale è un
processo di colonizzazione e di omologazione del mondo da parte delle grandi
potenze, che conculca il diritto dei popoli all’autodeterminazione
e alla diversità, non solo politica ed economica , ma anche culturale e
religiosa. Ma a questa aggressione molti popoli, in particolare indigeni, cercano di resistere, riaffermando il loro
diritto alla diversità anche culturale e
religiosa. E’ questo che come cristiani ci domandiamo : la nostra religione è
schierata dalla parte del processo di colonizzazione o dalla parte della
resistenza dei popoli.
La
risposta o le risposte a questo
interrogativo fondamentale dipendono dall’atteggiamento di fronte alla teologia
del pluralismo religioso. Se la si respinge e condanna, come fa il magistero
cattolico, ci si allinea alla tendenza omologante del processo, dissociandosi
dalla resistenza dei popoli, delle culture, delle religioni che rivendicano il
diritto all’autodeterminazione ed alla diversità. Se invece si riconosce questo
diritto , come fa la teologia del pluralismo religioso, ci si schiera al fianco
della resistenza e dell’alternativa popolare al neoliberalismo.
La
trasmigrazione di popoli,culture e religioni
Ma
l’urgenza di questo problema dipende anche da altri fattori. Il processo di
globalizzazione neoliberale ha tra la sue conseguenze una spinta senza
precedenti alla trasmigrazione di masse
popolari verso i paesi ricchi, in cerca di lavoro e di sopravvivenza. Con i
popoli, trasmigrano necessariamente le loro culture e religioni.
Particolarmente numerosi i fedeli musulmani.
Di fronte a questo fenomeno, gli europei assumono
atteggiamenti contrastanti, sia a livello economico sia a livello culturale e
religioso. A livello economico, gli “extracomunitari” rappresentano per alcuni
una minaccia, che toglie il lavoro ai nazionali, che promuove il narcotraffico
ed altre forme di delinquenza, che crea in molti quartieri condizioni di
insicurezza; sono per altri una risorsa di cui le economie europee hanno
urgente bisogno.
Anche a livello culturale e religioso, gli
extracomunitari, in particolare i musulmani,
sono per alcuni una minaccia di contaminazione e di corruzione delle
nostre religioni. Assai diverso sarebbe
l’atteggiamento dei cristiani che fossero aperti alla teologia del pluralismo
religioso e che quindi potessero vedere nell’incontro con altre culture e
religioni uno stimolo capace di aprire nuovi orizzonti ai
rapporti di collaborazione, scambio e fecondazione mutua fra culture e
religioni.
Nei
confronti , in particolare, dell’Islam, è molto diffusa la convinzione che esso
sia per sua natura integralista e che quindi non possa diventare
l’interlocutore di un autentico dialogo. Ma quasi a dissipare questo
pregiudizio è uscito recentemente un quaderno della rivista Alternatives Sud,
intitolato Teologie della liberazione,
nel quale compaiono due articoli
sulla teologia islamica della liberazione . Questi contributi rivelano
la presenza di un certo pluralismo all’interno dell’Islam e incoraggiano la
ricerca di interlocutori musulmani non integralisti.
La guerra contro il terrorismo islamico
Ma vi è
un altro fondamento dell’attualità di questo problema che vogliamo segnalare.
Come abbiamo ricordato in apertura, uno dei fenomeni che segnano la nostra
epoca è la guerra antiterrorista. In occidente poi, il terrorismo viene
associato all’integralismo islamico. Questa situazione determina una
demonizzazione dell’Islam, associato quasi automaticamente all’integralismo ed al terrorismo. Per cui
l’ipotesi di aprire un dialogo fecondo con sorelle e fratelli musulmani non
viene neppure preso in considerazione.
Ora, è
doveroso domandarsi: in che misura la teologia e l’educazione cristiana dispongono i fedeli, i sacerdoti, i vescovi a
questa demonizzazione e quindi a questa guerra culturale e religiosa? Che cosa
cambierebbe su questo terreno nel comportamento dei cristiani se essi si
aprissero ad una prospettiva pluralista? Quale potrebbe essere in questa prospettiva il loro contributo alla pace culturale e
religiosa e quindi alla pace senz’altro?
Il cristianesimo , e concretamente ogni cristiano ed ogni
cristiana, si trova quindi nella necessità di scegliere tra monolitismo e
pluralismo ; ed ognuna di queste opzioni è carica di implicazioni politiche e
teologiche antagoniste, che è necessario
esplicitare. .
Questa scelta impone ai cristiani ed alle comunità che
l’assumono ,di affermare la loro autonomia nei confronti della gerarchia e
quindi di ridefinire la loro identità senza includervi la sottomissione alla gerarchia, ma in funzione
dell’identificazione con gli oppressi e
le oppresse come soggetti. Mentre cioè
riconosciamo il diritto degli altri
all’autodeterminazione religiosa, difendiamo lo stesso diritto per i cristiani
e le loro comunità nei confronti della
gerarchia.
La nostra riflessione sulla pace si concentrerà in primo
luogo sul monolitismo religioso, specialmente cristiano e islamico, come
ispiratori di violenza e di guerra; per poi parlare del pluralismo religioso e
laico come costitutivo essenziale della pace.
Tra le forme di pluralismo religioso daremo particolare rilievo al
macroecumenismo popolare indoafrolatinoamericano; per concludere domandandoci
se il macroecumenismo popolare abbia un futuro in Europa e particolarmente in Italia.
I- IL
MONOLITISMO CRISTIANO-CATTOLICO
ISPIRATORE DI
VIOLENZA E DI GUERRA
Vogliamo ora concentrare la nostra attenzione su uno dei
più gravi ostacoli alla pace, su una delle radici della violenza: il monolitismo
religioso, più spesso denominato “integralismo”o anche “settarismo”.Per
“monolitismo religioso” intendo la convinzione di una religione di essere
l’unica vera e l’unica salvifica, e quindi di essere chiamata a diventare la
religione universale e la norma etica
fondamentale della società e del mondo.
Perché il monolitismo religioso è una delle radici della
violenza? Perché la convinzione di essere l’unica vera e salvifica induce facilmente una religione a volersi
imporre con la violenza non solo culturale ma anche, dove possibile, politica e
militare , squalificando, reprimendo e perseguitando le altre , contrapponendo
il diritto di Dio e della vera religione al diritto delle persone e dei popoli
all’autodeterminazione (particolarmente religiosa).
La costruzione della pace implica
l’individuazione e lo sradicamento di tutte le forme di violenza. La pace non
si può definire assenza di guerra,
ma assenza di qualsiasi forma di
violenza, ossia di qualsiasi violazione dei diritti delle persone e dei popoli,
primo fra tutti il diritto di autodeterminazione politica, economica, culturale
e religiosa.
La formula “assenza di violenza” è apparentemente
negativa, ma sostanzialmente positiva. Significa infatti il riconoscimento
effettivo dei diritti di tutti, riconoscimento che suppone una visione
solidaristica dei rapporti tra le persone e tra i popoli.
La formula “assenza di violenza”è apparentemente statica,
in realtà è dinamica e conflittuale: in una società segnata dalla violenza dei rapporti
di dominio, l’eliminazione della violenza, cioè la riaffermazione dei diritti
violati, non può che essere l’approdo di una lunga e ardua lotta:in una società
segnata dalla violenza dei rapporti di
dominio, l’eliminazione della violenza,
cioè la riaffermazione dei diritti violati, non può che essere l’approdo
di una lunga e ardua lotta.
Il monolitismo cristiano-cattolico, ispiratore della
conquista.
Per noi l’aspetto più importante ed anche più
incandescente del problema è quello che nasce dal monolitismo cristiano
cattolico.La storia del cristianesimo da Costantino ad oggi è forse il
documento più evidente e più clamoroso del rapporto fra monolitismo religioso e
violenza: “a partire da Costantino”, cioè da quando il cristianesimo, prima
emarginato e perseguitato, diventa religione ufficiale dell’impero.Si apre allora una storia infinita di violenza,
esercitata in difesa della “verità rivelata”, quindi in nome di Dio: esercitata
contro i seguaci di altre religioni ed anche contro i cristiani che rifiutano
di sottomettersi alla dottrina ufficiale. In occasione del giubileo
l’attenzione del mondo è tornata a concentrarsi , per esempio,sul destino di
personaggi come Gerolamo Savonarola o Giordano Bruno. Le femministe hanno
denunciato con forza la caccia alle streghe, come espressione epocale della
violenza religiosa contro le donne.Ma probabilmente il momento più
significativo e più tragico del rapporto fra monolitismo cristiano e violenza,
è quello della conquista dell’America, ricordato e celebrato dalla chiesa
cattolica come quella della “prima evangelizzazione” del continente.
Significativo e tragico per l’evidenza con cui si
manifesta il ruolo della religione nella giustificazione e nell’esercizio della
violenza conquistatrice e colonizzatrice. Conquista e colonizzazione sono
giustificati, anzi sacralizzati dalla chiesa, perché renderanno possibile
l’evangelizzazione di quelle popolazioni. Evangelizzazione necessaria per la
loro salvezza, in forza del principio: “fuori della chiesa non vi è salvezza”.
E’ quindi il monolitismo della chiesa che legittima e consacra la violenza: sia
la violenza politica e militare della conquista, sia la violenza culturale e
religiosa implicata nell’evangelizzazione conquistatrice.
Il momento della conquista-evangelizzazione è
particolarmente significativo e tragico anche per l’entità e molteplicità della
violenza che viene scatenata e giustificata in nome della religione. Violenze
che i popoli indigeni, nella loro recente presa di coscienza, non esitano a
qualificare come genocidi: genocidi
fisici, ma anche culturali e religiosi;
violenze che il diritto moderno qualifica come crimini contro l’umanità.
Finalmente, il momento della conquista-evangelizzazione è
particolarmente significativo e tragico perché esso è all’origine della civiltà
occidentale cristiana e dei rapporti di dominio che la caratterizzano. La
nostra civiltà è segnata nelle sue origini da questo crimine contro l’umanità
che è il genocidio fisico, culturale e religioso dei popoli indigeni.
Le strutture politiche ed economiche generate da questo
crimine, sono l’istituzionalizzazione e perpetuazione di esso,
l’istituzionalizzazione e la perpetuazione del genocidio.La logica criminale
che segna le strutture della nostra civiltà diventa particolarmente evidente e
particolarmente distruttiva oggi, nel processo di globalizzazione neoliberale,
che rappresenta il passaggio della guerra di colonizzazione dell’America alla
guerra di colonizzazione del mondo.
Quando denunciamo, doverosamente, la violenza scatenata
dal processo di globalizzazione neoliberale, non dimentichiamo di denunciare
anche il monolitismo cristiano che ne ha segnato le origini.
La realtà di questo monolitismo diventa più chiara alla
luce della storia. Si tratta di un cristianesimo ispirato ad un progetto
storico di “cristianità”, ossia di cristianizzazione del mondo intesa come
affermazione a livello mondiale dell’autorità della chiesa.Questo modello di
cristianesimo è teorizzato dalla teologia della cristianità, le cui
affermazioni essenziali sono le seguenti:
1º. Il cristianesimo è l’unica religione vera e salvifica.
2º. Il bene superiore delle persone e dei popoli esige che
i diritti della verità cristiana, che sono i diritti di Dio, prevalgano sui
diritti della libertà culturale e religiosa, delle persone e dei popoli. In
altre parole: il diritto all’autodeterminazione delle persone e dei popoli non
è assoluto, ma subordinato ai diritti di Dio e della chiesa.
3º. È pienamente legittima la violazione del diritto di
autodeterminazione delle persone e dei popoli, quando sono in gioco i diritti
della verità di Dio, e della chiesa.
4º. È legittima, anzi doverosa, l’evangelizzazione intesa
come impegno per convertire al cristianesimo persone e popoli che praticano
altre religioni.
In una parola, la teologia della cristianità è una
legittimazione religiosa della violenza; è quindi incompatibile con una
teologia della pace.
Il monolitismo
cattolico attuale, sorgente di violenza?
Ci rimane da affrontare un problema decisivo: il
cristianesimo di cui stiamo parlando è solo quello di altri tempi, del medioevo
o della conquista, oppure è ancora attuale? La teologia della cristianità è
solo quella che ha ispirato la conquista
o anche quella che ispira oggi la pastorale missionaria della chiesa?
Il problema si è imposto drammaticamente all’attenzione
dei cristiani in occasione delle celebrazioni e controcelebrazioni del V
centenario della cosiddetta scoperta d’America, e della cosiddetta prima
evangelizzazione del continente.I cristiani si trovarono allora a dover
decidere se associarsi alle celebrazioni di quell’avvenimento o dissociarsi da
esse, se associarsi alla celebrazione della “prima evangelizzazione” o
dissociarsi da essa. Prendere tale decisione significava valutare in una
prospettiva cristiana quell’avvenimento, quella svolta nella storia
dell’umanità e del cristianesimo. E’ stato un grande progresso, come
affermavano le potenze occidentali, promotrici della celebrazione? Oppure è
stato un crimine, come denunciava la resistenza indigena negra e popolare
gridando: “non abbiamo nulla da celebrare, come potremmo celebrare il
centenario del nostro genocidio”?
Emersero allora tra i cristiani due risposte antitetiche,
che corrispondevano a due concezioni contrapposte del cristianesimo:
- un
modello di cristianesimo identificato con le grandi potenze occidentali, con i
conquistatori, per il quale l’evangelizzazione rappresentava un’enorme
estensione del potere della chiesa, e quindi un grande progresso per il
cristianesimo.
- un
modello di cristianesimo segnato dalla scelta degli oppressi e quindi
identificato con la resistenza indigena negra e popolare, per il quale
l’evangelizzazione conquistatrice non era autentica, perché non era il
messaggio di liberazione annunziato da Gesù, ma era diventata un invito alla
sottomissione ed alla rassegnazione, uno strumento di colonizzazione culturale
e religiosa, la giustificazione della dominazione politica ed economica.
In una parola, si contrapposero e si contrappongono
tuttora, un cristianesimo imperiale ed un cristianesimo popolare. Il
cristianesimo imperiale , rappresentato dalla chiesa cattolica istituzionale,
si associò pienamente alle celebrazioni del centenario, assunse anzi in esse un
ruolo di protagonista, preparando il ‘92 con un novenario di nove anni. Con queste
celebrazioni la chiesa cattolica affermava la sua fondamentale continuità con
la chiesa della conquista e con la sua concezione dell’evangelizzazione.
Come la chiesa della conquista, essa si considera l’unica
vera religione, chiamata ad affermarsi in tutto il mondo, a cristianizzare
l’intera umanità.Come la chiesa della conquista, essa ritiene legittima e
doverosa un’evangelizzazione che induca le persone e i popoli ad abbandonare le
loro religioni tradizionali ed a
convertirsi all’”unica vera religione”. Come la chiesa della conquista, essa
non riconosce il diritto dei popoli all’autodeterminazione religiosa, o
comunque lo considera subordinato al diritto di Dio e quindi della stessa
chiesa.Come la chiesa della conquista, essa giudica positivamente la conquista
e la colonizzazione, la violenza che esse hanno esercitato, perché hanno reso
possibile l’evangelizzazione e quindi il progresso del cristianesimo.
La persistente attualità della teologia della cristianità
ha avuto una conferma nella dichiarazione
Dominus Jesus, emanata dalla
Congregazione per la dottrina della Fede nell’agosto del 2000. Essa è una decisa condanna della
teologia del pluralismo religioso, ed una riaffermazione della chiesa cattolica
come depositaria esclusiva della rivelazione piena e definitiva. Il documento
ha suscitato numerose e vivaci reazioni entro e fuori della chiesa cattolica,
perché considerato come una grave minaccia per l’ecumenismo e il
macroecumenismo.Fra queste reazioni ricorderò quella di Don Pedro Casaldaliga che
ha chiesto perdono ai fedeli di altre religioni per la ferita loro inferta.
Su queste posizioni la Congregazione per la dottrina della
Fede è tornata nel febbraio 2001 con una notificazione al P. Jacques Dupuis,
teologo gesuita di origine belga, professore emerito della pontificia
università gregoriana, a proposito del suo libro “Verso una teologia cristiana
del pluralismo religioso”.Pur conoscendo la volontà dell’autore di rimanere nei
limiti dell’ortodossia, la notificazione segnala nel suo pensiero notevoli
ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di rilevante portata, che possono
condurre il lettore a opinioni erronee e pericolose.
È in questo clima di vigilanza e di sospetto che deve
muoversi il macroecumenismo indoafrolatinoamericano. Mi sembra necessario
prenderne coscienza nel momento in cui vogliamo proporre queste scelte
all’attenzione dei cristiani europei di
base.
II IL MONOLITISMO ISLAMICO, LEGITTIMAZIONE DELLA VIOLENZA E DELLA GUERRA SANTA
Presentiamo
il monolitismo islamico nella versione che conosce oggi una tragica
attualità, quella rappresentata da Osama Bin Laden come giustificazione ed
esaltazione della guerra santa. Lo facciamo senza dimenticare che si tratta
appunto di una versione dell’Islam, lasciando aperta la questione della sua
fedeltà o meno al messaggio originario di Maometto; e anche della sua
rispondenza all’ esperienza di fede di tutti i musulmani.
La jihad, guerra di liberazione e di affermazione
dell’Islam
La jihad,
terrorismo legittimo e necessario
La denuncia dell’imperialismo americano e della sua
aggressione politica, militare, economica e religiosa contro l’Islam fonda per
Bin Laden la giustificazione, anzi l’esaltazione della reazione terroristica
contro di esso. “Il terrorismo può essere lodevole o biasimevole. Terrorizzare
una persona innocente è discutibile e ingiusto…Ma terrorizzare i criminali e i
ladri è necessario per la salvezza delle persone e per la sicurezza dei loro
beni…Ogni stato ed ogni civiltà deve ricorrere al terrorismo in alcune
circostanze per abolire la tirannia e la corruzione. Il terrorismo che noi
pratichiamo è del tipo più lodevole, perché è diretto contro i tiranni e gli
aggressori, i nemici di Allah e coloro che commettono atti di tradimento contro
i propri paesi, la propria fede, il proprio profeta e la propria nazione.
Terrorizzare costoro è legittimo e necessario…Ci strappano le nostre ricchezze,
le nostre risorse e il nostro petrolio. Attaccano la nostra religione. Uccidono
e massacrano i nostri fratelli. Compromettono il nostro onore e la nostra
dignità, e se osiamo dire una sola parola di protesta contro l’aggressione ci
chiamano terroristi.” (p.98) “Se liberare il mio paese mi porta ad essere
bollato come terrorista, è un grande onore per me esserlo”. (p.101). ”Se l’istigazione alla jihad contro
gli ebrei e gli americani, volta a liberare la moschea di Al Aqsa e la santa
Ka’ba è considerato un crimine, la storia mi sarà testimone che io sono un
criminale.”(p.101)
La jihad, fondamentale dovere religioso
Questa violenza, che si caratterizza come difensiva e
liberatrice, non è solo giustificata, è anche un fondamentale dovere religioso.
La sua espressione più completa è la jihad o guerra santa. “Il nostro appello a ogni musulmano perché
partecipi alla jihad contro Israele e contro l’America la definiamo un dovere
religioso. Nel Corano il nostro grande Allah ci ha più volte incoraggiato a
combattere per lui….Abbiamo fatto una promessa ad Allah, di continuare la lotta
fin quando avremo sangue che scorre nelle vene o un occhio che vede ancora.”
(pp.91-92) “L’ostilità verso l’America è un dovere religioso, e noi speriamo
per questo di essere ricompensati da Dio, lode e gloria a Lui…Essere chiamati
*nemico numero uno* o *numero due* non ci preoccupa. Quello che ci sta a cuore
è compiacere Dio, lode e gloria a lui, facendo la jihad per la sua causa e
liberando i luoghi sacri dell’Islam” (p.100) “Non esiste alcun dovere più
importante che respingere il nemico americano fuori dalla terra santa…Non c‘è
altro dovere, dopo la fede, che combattere il nemico che sta corrompendo la
vita e la religione.” (p.126) ”La jihad è parte della nostra religione e nessun
musulmano può dire di non voler fare la jihad per la causa di Dio, lode e
gloria a lui. Questi sono i dogmi della nostra religione, e noi chiediamo: *c’è
un altro modo per respingere gli infedeli?*” (p.92)
La giustificazione e sacralizzazione della jihad si fonda
da un lato, come abbiamo visto, sul fatto che essa reagisce all’intrusione
sacrilega dell’imperialismo nei paesi islamici e in particolare all’occupazione
dei luoghi santi; si fonda d’altro lato sugli obbiettivi che essa persegue,
cioè la liberazione di questi paesi e di questi luoghi, la restaurazione dello
stato islamico e l’affermazione nel mondo intero dell’Islam, chiamato a
diventare la religione universale.
“La nostra chiamata all’Islam è stata rivelata da
Maometto. E’ una chiamata rivolta a tutto il genere umano. Siamo stati
incaricati di seguire le orme del Messaggero e di portare il suo messaggio a
tutte le nazioni, quello appunto di abbracciare l’Islam, la religione che
invoca la giustizia, la solidarietà e la fratellanza tra le nazioni… Siamo
incaricati di diffondere questo messaggio a tutte le genti.. E nello stesso
tempo lottiamo contro i governi e le genti che approvano l’ingiustizia contro
di noi. Combattiamo quei governi che attaccano la nostra religione e che rubano
le nostre ricchezze, ferendoci il cuore. E li combattiamo nella stessa maniera
e con gli stessi mezzi con cui essi combattono noi.” (pp.89-90)
La jihad, guerra contro l’imperialismo con i suoi stessi
metodi
Particolarmente significativo mi pare il riconoscimento
della affinità che questa guerra antimperialista dichiara con i modi e mezzi
dell’imperialismo che combatte. Essa
riconosce di muoversi nella stessa logica del suo nemico, quella del diritto
del più forte; riconosce pertanto di non rappresentare un’etica politica né una
civiltà alternativa nei suoi
confronti.” Nei massacri di Sabra e Chatila, ebrei e americani hanno demolito
le case sopra le teste dei bambini. E l’unico metodo che abbiamo per difenderci
da questi assalti è di utilizzare gli stessi metodi.” (p.90)
Come il terrorismo nordamericano, il terrorismo islamico
di bin Laden giustifica anche l’uccisione di innocenti, se questa è necessaria
per colpire il nemico: “Supponiamo che gli americani abbiano attaccato una
nazione islamica e rapito i miei bambini, i bambini di Osama bin Laden, per
usarli come scudo, e quindi abbiano cominciato ad uccidere musulmani, come
hanno fatto in Libano, Palestina e Iraq, o come quando hanno aiutato i serbi a
massacrare i musulmani in Bosnia. Secondo la legge islamica, se ci asteniamo
dal colpire gli americani per non uccidere i musulmani usati come scudo,
causiamo un male maggiore a tutti i musulmani che sono sotto attacco, male che
supera di gran lunga il bene di salvare quelli usati come scudo. Ciò significa
che, in casi come questo, quando diventa chiaro che sarebbe impossibile
respingere gli americani senza attaccarli, anche causando la morte di
musulmani, la legge dell’Islam impone di attaccare.” (p.112)
Come l’imperialismo che combatte, bin Laden afferma la
legittimità di tutte le armi, per esempio delle armi chimiche ed atomiche.
Interrogato sulla sua intenzione di usare armi chimiche, egli dichiara: “La
domanda presuppone che io possegga armi chimiche ed è volta a capire come noi
le useremo. Io rispondo che ottenere armi chimiche per la difesa dei musulmani
è un dovere impostoci dalla religione. Cercare di possedere armi chimiche che
possano contrastare quelle possedute dagli infedeli è un dovere. Se io avessi
tali armi, sarebbe perché ho assolto questo dovere e ringrazierei Dio di
avermelo permesso… Sarebbe un peccato per i musulmani non provare a possedere
le armi che preverrebbero gli infedeli dal causare del male ai musulmani. Ma
come potremmo usare tali armi e se le possediamo, è affare nostro.” (p.114)
Credo che noi cristiani, prima di qualificare questi
discorsi come “deliranti” dovremmo riflettere sull’affinità che la jihad presenta con le crociate indette per la
liberazione dei luoghi santi, alle quali bin Laden rimanda costantemente qualificando i nemici
americani come crociati; dovremmo anche
riflettere sull’affinità tra la jihad e
le guerre di conquista, benedette dalla chiesa come strumenti di
evangelizzazione e di istaurazione della cristianità; dovremmo riflettere
infine sulla nostra mobilitazione contro
il comunismo ateo e le guerre che essa ha giustificato.
III –IL PLURALISMO RELIGIOSO E LAICO NELLA COSTRUZIONE
DELLA PACE
Come sorge in
prospettiva cristiana il problema del pluralismo religioso
Il
pluralismo religioso non è evidentemente
un fatto nuovo. Fin dalle origini dell’umanità i popoli hanno percorso strade
diverse nella scoperta , la concezione e
il culto di Dio. Tuttavia, la comunicazione tra i diversi popoli era assai
limitata. Ogni popolo, anzi ogni
comunità, rappresentava per la persona
l’orizzonte ultimo della sua conoscenza
e della sua vita; rappresentava, in una parola, il suo mondo. Pertanto
la religione della sua comunità era la
religione del mondo.
La storia
dell’umanità si può considerare come un processo indefinito di scoperta della
pluralità dei popoli e delle culture, in un rapporto di scambio o di conflitto.
Questa scoperta avanza soprattutto con
il progresso dei mezzi di comunicazione e di trasporto. Si potrebbe quindi
tracciare una storia dell’umanità assumendo come criterio di periodizzazione
questo progresso.. Ma ciò che ritengo
interessante qui non è di ricostruire la
storia, ma di prendere coscienza di quello che significa la scoperta della
pluralità, e particolarmente della pluralità delle culture e delle religioni,
all’epoca della mondializzazione e soprattutto l’impatto di questo nuovo
contesto sulla situazione interiore di ogni credente.
Situazione
che può diventare drammatica e inquietante specialmente per i fedeli di
religioni che, come la cristiana, si considerano chiamate ad essere professate
da tutta l’umanità. Situazione
drammatica e inquietante per le domande che solleva, forse per la prima volta
nella storia: se il cristianesimo è chiamato da Dio ad essere la religione
universale, come si spiega che dopo duemila anni di azione missionaria,
appoggiata dai poteri forti politici, economici e militari, continui a
coesistere con molte altre religioni? che alcune di queste religioni, per
esempio il buddismo e l’islamismo, stiano crescendo e diffondendosi vigorosamente? che lo
stesso cristianesimo con tinui ad essere
minoritario nel mondo? che le previsioni
per il suo futuro , fondate sull’incremento demografico dei vari popoli e
continenti, vadano nel senso di una condizione sempre più minoritaria?
Questa
presa di coscienza imprime alla fede del
cristiano una forte scossa e le impone un processo di maturazione, che consiste
nel caratterizzarla sempre meno come l’adesione a un sistema di verità
definitive e sempre più come una ricerca critica personale e collettiva incessante: ricerca di
senso, ricerca di Dio, ricerca di Gesù di Nazareth. Questo processo di maturazione
passa per due tappe.La prima consiste nel trasformare l’adesione al cristianesimo in una opzione di
fronte ad una pluralità di religioni. La seconda consiste nel ridefinire la
natura del cristianesimo per il quale si opta: continua esso a considerarsi
come l’unica vera religione o diventa una religione consapevole del suo
carattere di verità parziale e storicamente condizionata, aperta quindi a riconoscere altre verità parziali ed a stabilire uno scambio con esse.
Si tratta ev identemente di due concezioni
profondamente diverse del cristianesimo. Qquest’ultima, che riconosce la
validità del pluralismo religioso, impone un ripensamento di tutte le
principali categorie teologiche: come quelle ; di “fede”, “ rivelazione”,
“religione”, “ salvezza”, ecc.; impone inoltre un riesame della divinità di
Gesù.
Che cos’è il “pluralismo religioso”
Una premessa
metodologica
Per
definire e fondare il pluralismo religioso, non credo possibile né
legittimo rimanere in un’ottica teologica
cristiana; è necessario, mi pare,
partire da una base filosofica
più generale e fondamentale. Per quale ragione? Perché rimanere in una
prospettiva teologica cristiana
significa fondarsi essenzialmente sulla
bibbia e , per i cattolici, sul magistero ecclesiastico. Ora, come abbiamo
rilevato, il magistero cattolico ha costantemente respinto la teologia del
pluralismo religioso ed ha riaffermato recentemente questa condanna con la
dichiarazione Dominus Jesus. Vi sono poi
delle ragioni per pensare che molte chiese evangeliche hanno la stessa convinzione e interpretano la
bibbia a partire da essa.
D’altro
lato, la versione dei vangeli assunta
dalle chiese come fondamento
dell’esclusivismo cristiano è molto discutibile
in fatto di oggettività storica, perché fu elaborata tra 40 e 70 anni dopo la morte di Gesù da
persone che non lo avevano conosciuto
personalmente e che avevano come preoccupazione centrale non quella di
raccontare oggettivamente detti e fatti di Gesù, ma quella di legittimare il
processo di istituzionalizzazione del movimento; in altre parole, di fondare
l’origine divina della chiesa.
In ultima analisi , l’argomento principale che
le chiese adducono per fondare la loro
qualità di depositarie esclusive della
rivelazione piena e definitiva è la loro stessa autorità. Argomento che
convince solo i convinti. Per quanto
riguarda poi l’Antico Testamento , è difficile una interpretazione
esclusivista della rivelazione giudaica, espressa nella missione del “popolo
eletto”.
Per questo,
credo che una teologia del pluralismo religioso suppone necessariamente come
fondamento una filosofia della religione , elaborata in prospettiva liberatrice. Che cosa significa allora, più
precisamente il pluralismo religioso?
Definizioni mistificate del pluralismo religioso
Credo
necessario, prima di proporre una
definizione del pluralismo religioso, cominciare dicendo ciò che esso non è.
Perché molto spesso la critica e la condanna di questo orientamento si
riferiscono a una definizione arbitraria, nella quale molti dei “pluralisti”
non si riconoscono. E’ il caso, concretamente della Dichiarazione Dominus
Jesus. La dottrina che il documento vuole respingere è appunto la teologia del pluralismo religioso. Il
Cardinale Ratzinger la definisce come
"l'idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente
valide di salvezza". In questa prospettiva, i cristiani dovrebbero
sostituire il dialogo alla missione e all’appello alla conversione. Il dialogo
pone sullo stesso piano la propria posizione e quella dell'altro, stabilendo
tra gli interlocutori una relazione di reciprocità. Invece, l’appello alla
conversione suppone la convinzione che la dottrina cristiana è l'unica
pienamente e definitivamente vera e intende comunicare questa convinzione
all'interlocutore.
Ratzinger riconosce, nel suo intervento introduttivo, che
il "pluralismo religioso" si presenta in forme molto diverse e
afferma che la Dichiarazione non intende rinchiuderle in una formula unica. Ciò
nonostante, essa fa esattamente il contrario, indicando come presupposto
filosofico fondamentale di queste teorie il relativismo, secondo il quale ciò
che è vero per gli uni non lo è per altri (4); o il relativismo religioso, che
"porta a ritenere che “una religione vale l'altra” o che tutte le
religioni sono per i loro fedeli cammini ugualmente validi di salvezza.”(22). 1
Descrizione del pluralismo religioso
Nella caratterizzazione del pluralismo religioso che il
documento presenta come bersaglio dei suoi argomenti, molti cristiani "pluralisti"
non si riconosceranno. Poiché essi non pensano che una religione sia buona come
un'altra, né che la verità sia relativa. Ciò che essi escludono è che
un’istituzione umana abbia ricevuto da Dio l'autorità di definire quale
religione sia vera e quale sia falsa, quali libri siano ispirati da Dio e quali
no; che un’istituzione umana possa considerarsi depositaria esclusiva della
verità piena e definitiva rivelata da Dio; che Dio si sia ridotto a
manifestarsi attraverso un unico canale, in un’epoca e in una regione limitate
della storia umana, disinteressandosi della grande maggioranza dell'umanità
passata e presente. Essi pensano che tutte le conoscenze umane di Dio, comprese
quelle che procedono dalla rivelazione, hanno un carattere parziale; che pertanto
possono essere arricchite da altre conoscenze parziali.
Queste riflessioni sono valide, nella prospettiva
pluralista, anche per le verità rivelate da Gesù di Nazareth. Anche quelli che
riconoscono la sua divinità esclusiva, sottolineano il carattere autenticamente
umano, e pertanto limitato, delle sue parole; il carattere autenticamente umano
e pertanto limitato, delle testimonianze che riferirono, interpretarono e
trasmisero le sue parole. Il fatto che queste verità scaturiscano dalla Verità
Infinita del Verbo non toglie il loro carattere limitato e perfettibile.
Così pure, dialogare in condizioni di parità non significa
affermare l'equivalenza di tutte le religioni, ma escludere che una istituzione
abbia, per investitura divina, l'autorità di imporsi come l'unica religione
vera. Nel dialogo religioso, come in qualsiasi dialogo umano, ogni
interlocutore ha il diritto di considerare la propria posizione come valida; ma
nessuno ha il diritto di considerarsi depositario della verità totale e
definitiva.
Credo necessario denunciare una volta di più il metodo
scarsamente scientifico e largamente ideologico con il quale la Congregazione
per la Dottrina della Fede conduce la sua polemica. La Dichiarazione ricorda le
istruzioni sulla teologia della liberazione, che questo dicastero interpretava
come un sottoprodotto del materialismo ateo, il che gli permetteva di
squalificarla e confutarla facilmente. Ma nessuno dei destinatari di quelle
condanne si riconobbe nell’interpretazione vaticana. Questa metodologia squalifica
piuttosto i documenti che l'adottano e li priva di qualsiasi valore dottrinale.
La sua unica efficacia consiste nell'offrire nuove armi ai difensori
intolleranti dell'ortodossia.
Fondamento filosofico
del pluralismo religioso e della pace
Il pluralismo
religioso così inteso si fonda
filosoficamente sul diritto di autodeterminazione solidale, culturale e
religiosa di tutti i popoli e, in ultima analisi di tutte le persone. Perché il
diritto delle persone, anche sul terreno
religioso, è il fondamento ultimo del diritto dei popoli.
Il diritto di autodeterminazione è il diritto fondamentale
di essere se stesso ; è il diritto
all’autonomia , all’identità e alla diversità. L’aggettivo “solidale” con il
quale ritengo necessario caratterizzare questa rivendicazione, specialmente
nella sua versione indigena, intende
distinguerla dalla versione etnocentrica e imperialista, cioè europea o
nordamericana, che considera l’autodeterminazione come un privilegio dei popoli “superiori”, civilizzati”, avanzati,;
che pertanto hanno il diritto di esercitare l’ autodeterminazione imponendo il
loro dominio ad altri popoli. Invece, per i popoli indigeni insorti ,
rivendicare il proprio diritto di autodeterminazione “solidale”significa
riconoscere questo diritto a tutti i popoli e a tutte le persone; significa
anche esercitarlo per costruire una comunità solidale al suo interno e nella sua relazione con le altre comunità e gli altri popoli.
Ora questa distinzione
è importante non solo sul terreno politico , ma anche sul terreno
culturale
e religioso. Affermare il diritto di autodeterminazione
solidale sul terreno religioso significa
riconoscere questo diritto a tutti i
popoli ed a tutte le persone; significa quindi
negare a qualunque religione il diritto di considerarsi la religione
universale e pertanto di imporsi come norma obbligatoria nel nome di Dio, con
la violenza fisica o morale. Per tutte le persone e tutti i popoli l’itinerario verso l’afferrmazione o la negazione
di Dio dev’essere una scelta libera, un momento fondamentale nella costruzione
della sua propria identità.
Nella
prospettiva di una filosofia della liberazione, il diritto di
autodeterminazione solidale, con tutte le sue dimensioni, è uno dei “primi
principi”, di quelli che gli scolastici chiamavano verità per se notae,
evidenti di per sé e fondamento delle altre verità. Tuttavia, tra i “primi
principi” degli scolastici e quelli di una filosofia della liberazione vi è una
differenza importante : per gli scolastici si trattava di verità naturalmente
conosciute da ogni persona, di intuizioni intellettuali; per noi si
tratta di verità percepite solo a
partire da una presa di partito
etico-politica per gli oppressi e le oppresse come soggetti, di verità
quindi conosciute dalla persona nella sua integralità.
Ora
questo stesso diritto di autodeterminazione solidale, che fonda il pluralismo
religioso, è il perno di una civiltà e di una globalizzazione popolari,
alternativa alla civiltà e alla globalizzazione neoliberale. E’, in altre parole,
l’essenza della pace.
Fondamento
teologico del pluralismo religioso e della pace
Il
riconoscimento del diritto di autodeterminazione solidale, che abbiamo
affermato come principio fondamentale della filosofia della liberazione, è
anche, a mio giudizio, il principio
fondamentale della teologia della
liberazione. Coincide infatti essenzialmente con la “scelta dei poveri”, cioè , più
esattamente , degli oppressi e delle oppresse come soggetti.
Certo,
questo principio teologico si può
fondare e si suole fondare sulla vita e la parola di Gesù. Tuttavia, mi pare,
l’interpretazione del vangelo e di tutta la bibbia in una prospettiva
liberatrice ( come, del resto, in qualunque prospettiva), è necessariamente
selettiva. Deve infatti orientarsi tra le contraddizioni della stessa bibbia.
Se in questo cammino la persona non
riconosce come guida il magistero di una
chiesa (è questo il mio caso e quello di molti altri
cristiani) , deve fondarsi in una “precomprensione” , indipendente dalla stessa
bibbia, quindi in una intuizione di evidenza filosofica: la
quale, in una prospettiva liberatrice, è appunto il riconoscimento degli
oppressi e delle oppresse, pertanto di tutte le persone e di tutti i popoli,
come soggetti.
Ma se
questo à vero, a livello teologico
l’autodeterminazione religiosa delle persone e dei popoli non è solo un diritto naturale, ma, per ciò
stesso, un diritto riconosciuto e
conferito dallo stesso Dio, Amore Liberatore. Esiste quindi un’acuta contraddizione tra il diritto di
ogni persona e di ogni popolo, fondato sulla natura umana e per tanto sulla
volontà di Dio, all’autodeterminazione religiosa, e il presunto diritto delle
chiese e delle altre istituzioni religiose ad operare come se , per mandato di
Dio, avessero un’autorità universale. Esiste, in altre parole, un’acuta
contraddizione tra la volontà amorosa di Dio e il monolitismo religioso.
La
teologia del pluralismo religioso e della pace, espressione di una esperienza
di fede profondamente rinnovata
La
teologia del pluralismo religioso e
della pace non porta con sé solo un
cambiamento di atteggiamento pratico nei
confronti delle altre religioni: infatti, abbandonare la convinzione di essere
l’unica religione vera e definitiva impone un profondo rinnovamento teorico non
solo della teologia della cristianità , ma anche della stessa teologia della liberazione.
Non
possiamo analizzare qui tutti i cambiamenti
che questo ripensamento impone.
Ma un aspetto mi sembra indipesnabile segnalare: ed è che in questa prospettiva la fede
cristiana cessa di essere l’assenso
prestato a un insieme di verità rivelate certe e definitive e diventa
una ricerca incessante, critica ed
esistenziale. Critica, perché in essa
sono pienamente coinvolte
l’intelligenza, la scienza, la filosofia, la teologia: in una parola,
tutte le manifestazioni dello spirito critico. Ricerca esistenziale, perché in
essa è coinvolta tutta la persona e la
comunità, cioè non solo l’intelligenza,
ma l’affettività, la sessualità,
la volontà, l’impegno sociale e
politico.
Il
“credente” così inteso è una persona in
ricerca, che va elaborando le sue scelte, affrontando dubbi e crisi, scoprendo
progressivamente il volto di Dio,
verificando la , storicità di
Gesù, reinterpretando il suo messaggio aldilà delle diverse interpretazioni
attribuite agli apostoli, riscoprendo i cristianesimi primitivi nella loro
autenticità e diversità; rendendosi conto finalmente che lo stesso Gesù, vero
uomo, non aveva la sua missione
totalmente chiara fin dall’inizio, ma che è andato scoprendo, rettificando e
precisando i suoi obbiettivi.
Si
verifica così una convergenza, una comunicazione e una comunione, non più
intorno ad una ortodossia comune, ad un pensiero unico, ma ad una ricerca
inquietante, concreta e partecipativa . Non è certo che, come affermano alcuni, lo sbocco finale di questa convergenza debba
essere una religione universale: perché si tratta di una convergenza che non sopprime le
diversità e specificità , ma le valorizza.
Il
diritto alla diversità porta con sé il diritto al sincretismo, cioè ad una elaborazione personale e
collettiva della relazione con Dio, che accolga
elementi delle varie religioni, come succede per esempio nelle religioni
cubane di origine africana. I teologi
cristiani, cattolici ed evangelici,
formulano abitualmente sul
sincretismo un giudizio negativo.
Lo considerano infatti come una forma di confusione. Questo giudizio si giustifica
perfettamente se si riconoscono le istituzioni cristiane come norme dottrinali
e pratiche, detentrici dell’ortodossia e
chiamate in esclusiva a interpretare la rivelazione di Dio. Tuttavia, queste
sono qualità che le chiese si attribuiscono, ma unicamente sulla base della
loro autorità: l’autorità della chiesa
fonda l’autorità dei vangeli, che a sua volta fondano l’autorità della chiesa.
Rapporto fra
pluralismo religioso e pluralismo laico
Affermare
il pluralismo religioso significa per un credente affermare per sé stesso e per gli altri la
libertà della scelta religiosa. Significa cioè considerare la fede come una
scelta libera e matura e non come la sottomissione ad una prescrizione o ad una
pressione sociale.
Per
questo una società laica è molto più favorevole ad una religiosità autentica
che una società confessionale: perché costituisce un ambiente nel quale la fede religiosa non è subita come
un’imposizione, ma rappresenta una libera scelta.
Valorizzare
la libertà della fede religiosa non significa solo riconoscerla come esercizio
del diritto di scegliere tra le varie religioni, ma riconoscerla anche come
libertà di scegliere tra religiosità e
laicità o ateismo. Significa quindi includere la laicità e l’ateismo
nell’ambito del pluralismo legittimo. Per questo, nel momento in cui il problema del pluralismo religioso
assume una particolare attualità ed importanza, ritengo necessario estendere la
sua prospettiva anche alla scelta laica. Considero quindi il pluralismo
religioso e laico come componente essenziale
di una civiltà aperta; e la difesa di questo pluralismo come un compito essenziale della teologia
della liberazione.
Del resto
, laici ed atei non sono per nulla estranei alla ricerca religiosa, a meno che
non siano laici od atei dogmatici , che
hanno cessato di cercare il senso della
vita, perché pensano di possedere al riguardo certezze integrali e definitive. Invece i laici ed atei in ricerca hanno
recato storicamente ai credenti e recano loro tuttora un contributo
determinante, svegliando e rafforzando
il nostro spirito critico , obbligandoci a purificare sempre più la nostra
immagine di Dio e stimolandoci
------------------------------------------------
1) Altri
presupposti che, secondo la dichiarazione, ispirerebbero il "pluralismo
religioso" sono: la convinzione dell'inafferrabilità e ineffabilità della
verità divina, anche da parte della rivelazione
cristiana; il soggettivismo di chi considera la ragione
come unica fonte di conoscenza e che pertanto non arriva a cogliere la verità
dell'essere; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate
da differenti contesti filosofici e religiosi; senza preoccuparsi della loro
coerenza e connessione sistematica né della loro compatibilità con la verità
cristiana; la difficoltà di comprendere e accogliere nella storia la presenza
di eventi definitivi ed escatologici; lo svuotamento metafisico dell'evento
dell'incarnazione del Verbo eterno (4)
III-IL MACROECUMENISMO POPOLARE INDOAFROLATINOAMERICANO
Il macroecumenismo indoafrolatinoamericano è una forma di
pluralismo religioso, teorizzato e praticato dai cristiani che si sono
dissociati dalle celebrazioni del V
Centenario dell’evangelizzazione, impegnandosi invece nelle controcelebrazioni.
Per cogliere il significato di questo movimento dobbiamo partire dalla sua
genesi.
Genesi del movimento
Il cristianesimo popolare è rappresentato da quelle
minoranze evangeliche e cattoliche che, ispirate spesso dalla teologia della
liberazione, si sono identificate con la resistenza indigena negra e
popolare.Questi cristiani fanno propria la rivendicazione del diritto di
autodeterminazione dei popoli oppressi e quindi la critica della conquista e
della colonizzazione che tale diritto hanno calpestato.
Essi valorizzano il
diritto all’autodeterminazione culturale e religiosa dei popoli oppressi, in
particolare degl’indigeni e dei negri e quindi fanno proprie le loro critiche
dell’evangelizzazione conquistatrice e del genocidio culturale e religioso che
essa ha giustificato e perpetrato.
Riconoscere il diritto di autodeterminazione religiosa
degl’indigeni e dei negri significa anche per questi cristiani valorizzare le
loro religioni millenarie come canali autentici della manifestazione di Dio e
del suo amore;significa per il cristianesimo abbandonare la pretesa di essere
l’unico canale autentico della manifestazione di Dio; significa stabilire con
queste religioni un rapporto che non sia più di emarginazione e di persecuzione
ma di dialogo e di collaborazione.
Nasce così il movimento macroecumenico
indoafrolatinoamericano , che è appunto l’oggetto centrale della nostra
riflessione. Tale movimento
rappresenta quindi un momento importante
della reazione del cristianesimo alla violenza che esso aveva interiorizzato
per l’impatto della alleanza con l’impero, e pertanto nella riscoperta della non-violenza evangelica.
Questa
reazione sorge dal punto di vista e dall’indignazione delle vittime
coscientizzate e ribelli; si contrappone quindi frontalmente al punto di vista
dei conquistatori di ieri e di oggi; ma anche al punto di vista della chiesa
istituzionale, che coincide sostanzialmente con quello dei conquistatori. Il
punto di vista antagonista degl’indigeni non si riferisce solo alla conquista
ma a tutta la storia. Suo asse è la riaffermazione del diritto di
autodeterminazione solidale, politica, economica, culturale e religiosa dei
popoli oppressi, in una parola del loro diritto all’identità. Questo diritto
diventa per essi un’istanza critica della civiltà occidentale, costruita
appunto sulla base della violazione sistematica di quel diritto; diventa anche
l’asse di un progetto alternativo di civiltà, costruito sul riconoscimento del diritto di tutti i
popoli all’autodeterminazione solidale.
Debbo,per
onestà,aggiungere una precisazione. Il movimento macroecumenico non ha ancora,
e io spero non abbia mai, una sua dottrina ufficiale. L’interpretazione che ne
propongo, sotto la mia responsabilità, è quella di un teologo della
liberazione, coinvolto fin dalle origini
nella pratica del movimento sia nelle sue istanze continentali sia in
alcune iniziative locali, per esempio a Cuba, in Nicaragua, in Brasile.
Senso del movimento macroecumenico “assemblea del popolo
di Dio”
Il movimento macroecumenico indoafrolatinoaamericano sorge ufficialmente nel settembre del 1992 a Quito-Ecuador, dove
si riunisce il primo incontro
continentale dell’”assemblea del popolo di Dio”.Sorge dall’iniziativa di
cristiani di base, e per questo si chiama “assemblea del popolo di Dio”, per
distinguersi dall’assemblea episcopale che si sarebbe tenuta a Santo Domingo il
mese seguente. Si distingue dall’assemblea episcopale, e inoltre si contrappone ad essa. In effetti, l’assemblea episcopale di Santo Domingo si
iscrive nelle celebrazioni del V Centenario della “prima evangelizzazione” del
continente, è anzi, per la chiesa istituzionale il suo momento culminante;
l’assemblea del popolo di Dio si iscrive
invece tra le controcelebrazioni.
La conferenza episcopale condivide sulla conquista il
punto di vista dei conquistatori.Si muove infatti nella stessa prospettiva
della teologia della cristianità che aveva giustificato la conquista. Invece
l’assemblea del popolo di Dio, che condivide il punto di vista della resistenza
indigena, negra e popolare; si ispira
alla scelta dei popoli oppressi e alla teologia della liberazione.
Al fianco della resistenza indigena, negra e popolare,
l’assemblea del popolo di Dio riconosce il diritto dei popoli all’autodeterminazione non solo politica ed
economica, ma anche culturale e religiosa. Condivide la sua critica della civiltà
occidentale e il progetto di alternativa che essa persegue. Condivide anche la
critica del concetto di evangelizzazione che ha giustificato sia la conquista
sia la squalifica delle religioni originarie e afroamericane. Afferma quindi
l’urgenza di una contestazione radicale della teologia della cristianità in
nome della scelta degli oppressi e delle oppresse come soggetti, e
particolarmente di una contestazione dell’esclusivismo religioso che questa
teologia rivendica per la chiesa cattolica. Ritiene che questa contestazione
impone la rottura dell’alleanza tra il movimento di Gesù ed i poteri
oppressori; imponr quindi la riscoperta del messaggio liberatore dello stesso
Gesù.
L’assemblea del popolo di Dio riconosce
l’autodeterminazione religiosa dei
popoli indigeni e negri non solo come un diritto, ma anche come il fondamento
del valore teologico delle religioni che questi popoli sono venuti elaborando
nella loro ricerca di Dio.Con queste religioni , il movimento macroecumenico
intende stabilire delle relazioni di dialogo, collaborazione, fecondazione
mutua , in termini di uguaglianza e
reciprocità. Si impegna inoltre a collaborare alla riscoperta e rivalutazione
delle religioni originarie e afroamericane che per secoli le chiese hanno
perseguitato e che spesso stanno ancora perseguitando.
Nuovi orizzonti aperti dal movimento macroecumenico
all’ecumenismo e alla teologia
In conclusione, il
macroecumenismo indoafrolatinoamericano apre all’ecumenismo nuove strade, che
possiamo caratterizzare così:
1° Riconosce la validità e fecondità di una relazione
ecumenica, in termini di uguaglianza e reciprocità,con religioni non cristiane.
2° E’ un ecumenismo popolare , distinto dall’ecumenismo
istituzionale e autonomo rispetto adesso . Il movimento è nato infatti da
un’iniziativa delle basi cristiane nell’esercizio della loro autonomia. Il suo
sviluppo futuro dipende dalla capacità
di iniziativa e di autonomia delle stesse basi e dalla loro capacità di
resistenza alle censure inflitte dalle
gerarchie e dal centralismo romano. Il macroecumenismo popolare si distingue da
quello istituzionale anzitutto perché stabilisce con le altre religioni
rapporti di uguaglianza e reciprocità, mentre
l’istituzione cattolica , anche quando si apre nella pratica ad un nuovo
rapporto con le altre religioni e confessioni, mantiene ferma la sua
convinzione di essere l’unica religione pienamente vera. L’ecumenismo ed il
macroecumenismo che essa promuove
rimangono decisamente romanocentrici.
3° E’ un ecumenismo liberatore. Si definisce infatti come
un movimento religioso, ma indissociabile da un’opzione etico-politica
liberatrice, che gli impone una decisa autocritica delle alleanze stipulate lungo la storia di ieri e di oggi
dalla sua istituzione di riferimento con poteri oppressori. Anche per questo
tratto il macroecumenismo popolare si contrappone a quello
istituzionale, che prescinde da opzioni politiche ed evita quindi l’autocritica
che esse imporrebbero. Il macroecumenismo popolare quindi non intende
coinvolgere nella sua apertura tutte le esperienze religiose, ma solo quelle
che si si schierano per la liberazione dei popoli oppressi, riconoscendo il
loro diritto di autodeterminazione: quanto dire che si autoescludono dal
movimento le religioni o i settori religiosi alleati dei poteri oppressori.
Rimane però sempre aperta, anche con questi settori, la possibilità di un
dialogo fraterno.
Nella storia della teologia, il macroecumenismo
indoafrolatinoamericano rappresenta un momento di incontro fecondo fra la
teologia del pluralismo religioso e la teologia della liberazione. Queste due
correnti si erano sviluppate
storicamente in contesti di versi e in forma autonoma. La teologia del
pluralismo religioso , a differenza della teologia della liberazione, non si
era preoccupata delle scelte politiche dei credenti. La teologia della
liberazione, per parte sua, si era
mantenuta, prima del ’92, in una
prospettiva piuttosto cristianocentrica: il suo era un cristianesimo aperto,
liberatore, ma che intendeva mantenere la sua centralità nel progetto di Dio.
Il macroecumenismo indoafrolatinoamericano, ispirato dalla
teologia della liberazione, rappresenta
per tanto una svolta anche nella storia di questa teologia, aprendola al
riconoscimento delle altre religioni , ad una relazione di fecondazione mutua
con esse e orientandola a superare il cristianocentrismo.
IV- IL MACROECUMENISMO POPOLARE HA UN FUTURO IN EUROPA?
Per
conferire alla riflessione sul macroecumenismo maggiore concretezza ,mi sembra
necessario affrontare questo problema: il movimento macroecumenico, nato nel contesto
indoafrolatinoamericano, può essere lanciato in Europa, particolarmente in
Italia? Eventualmente, a quali condizioni? con quali interlocutori?
Domande che il nuovo
contesto multietnica, multiculturale e multireligioso impone all’impegno
macroecumenico dei cristiani
Una prima domanda che tale contesto impone ai cristiani ,
mi pare, è questa: potrebbe il macroecumenismo dare un contributo
specifico alla soluzione di problemi
così cruciali del nostro tempo?Per precisare il senso della domanda , credo
necessario distinguere tra lo spirito e il movimento macroecumenico. Mi pare
evidente che lo spirito macroecumenico dei cristiani sarebbe un contributo
straordinario all’accoglienza dei nostri
fratelli e delle nostre sorelle extracomunitari: contributo ad
un’accoglienza non puramente economica ,
ma culturale e religiosa; permetterebbe infatti di scoprire le ricchezze di
altre culture e religioni come anche le
nuove possibilità dischiuse da questa convivenza alla ricerca interculturale e interreligiosa.
Naturalmente l’efficacia di questo spirito non dipende solo dai cristiani, ma
anche dagli interlocutori che essi riusciranno
o non riusciranno a coinvolgere.
Ma la mia domanda vorrebbe andare più in là. Perché mi
pare difficile che lo spirito macroecumenico si affermi e si diffonda , che
riesca a superare la resistenza di tanti integralismi, se non sorge un
movimento che assuma la diffusione di
questo spirito come suo compito specifico.La domanda che sollevo è quindi la
seguente: si può pensare in Europa, si può pensare in Italia, alla formazione
di un movimento macroecumenico popolare, inteso a diffondere la teoria e la
pratica del macroecumenismo, specialmente nelle relazioni fra cristiani e
musulmani? Si potrebbe inoltre tentare
di coinvolgere in questo movimento non solo musulmani, ma anche ebrei, creando
le condizioni di un dialogo fra di essi?
Per chiarire il
senso del problema, bisogna aggiungere due precisazioni. La prima: interrogarsi
sulla possibilità e opportunità di un movimento macroecumenico, non significa
puntare su una mobilitazione massiccia. In Europa come in America Latina, un
movimento così innovativo e così controcorrente può sorgere solo da iniziative
minoritarie, da minoranze profetiche. Minoranze che nel nostro contesto non si
formano spontaneamente, ma per qualche provocazione, quale può essere quella
del nostro incontro; o per il contagio dell’audacia, acceso, per esempio dalle
esperienze indoafrolatinoamericane.
Altra
precisazione necessaria . Stiamo parlando di un macroecumenismo popolare, non
istituzionale. Non ci stiamo quindi domandando se esista nelle gerarchie
cattoliche ed evangeliche europee la disposizione a promuovere tale movimento:
questo mi pare abbastanza improbabile.Ci stiamo domandando se possa sorgere da cristiani
di base, cattolici ed evangelici, europei una iniziativa analoga a quella che è
sorta in America Latina.
Quindi
per stabilire se il macroecumenismo abbia un futuro in Europa, non dobbiamo
domandarci in primo luogo che cosa pensano le gerarchie o i settori
progressisti di esse; dobbiamo invece interrogarci sul livello di autonomia evangelica che le
comunitá cristiane hanno raggiunto o
sono in grado di raggiungere , di fronte a questo nuovo appello dello Spirito.
Certo, l’appoggio di qualche vescovo progressista, come quello che offre Don
Pedro Casaldáliga in America Latina, sarebbe molto utile e incoraggiante. Ma
non è questo il centro del problema
Il futuro del macroecumenismo coincide pertanto con il futuro del cristianesimo popolare,
della sua capacità di autonomia, della sua audacia, della sua tensione utopica.
Coincide con la sua capacità di svolgere l’impresa appassionante, che si sta
tentando in varie parti della chiesa: la riscoperta dei cristianesimi originari
e pertanto della realtà storica di Gesù. Questi cristiani in ricerca parlano
“dei” cristianesimi originari per evidenziare il pluralismo che segnò fin dalle
origini l’eredità di Gesù, prima che
essa venisse inquadrata e sequestrata dall’istituzione ecclesiastica; parlano
“dei” cristianesimi originari per valorizzare lo spirito di libertà con cui i
primi discepoli interpretarono e adattarono il messaggio del Maestro.
Un movimento macroecumenico europeo sarebbe un contributo
alla costruzione di un’Europa che cessi veramente di essere soltanto una
comunità economica, un mercato comune, per diventare una comunità di popoli
capaci di autodeterminazione e aperta alla solidarietà con tutti gli altri
popoli; un ‘Europa che abbandoni il suo complesso di superiorità culturale per
aprirsi al contributo fecondo di altre culture.
Lascio la domanda aperta come compito del nostro scambio ,
ma anche come tema di riflessione e di impegno delle nostre comunità per i
prossimi anni.
CONCLUSIONI : Macroecumenismo
e teologia della pace
Se le premesse da cui
siamo partiti sono valide, il macroecumenismo popolare si impone come un
importante capitolo di una teologia della pace.Questo capitolo impone alla
teologia della pace di rendere più esplicita la sua presa di posizione nei
confronti della teologia della cristianità e della teologia della
liberazione.La teologia della pace vuol essere un’applicazione e uno sviluppo
della teologia della cristianità , un’applicazione e uno sviluppo della
teologia della liberazione oppure una terza via tra queste teologie? Che cosa
significa più esattamente la “pace di Cristo”?
Questo nuovo capitolo della teologia della pace impone un
profondo ripensamento delle principali categorie teologiche come quella di
religione, rivelazione, evangelizzazione, fede, popolo di Dio,;impone in primo
luogo un ripensamento del concetto di Dio.
Desidero
appunto concludere questa riflessione tornando sul suo principio ispiratore, il
vincolo profondo che lega la scelta di campo per i popoli oppressi e la
scoperta dell’Amore Infinito di Dio. Vincolo che considero, per parte mia ,
anche il principio ispiratore di una
teologia della pace.
Riconoscere
i popoli oppressi come soggetti ci conduce a riscoprire l’amore appassionato di
Dio per tutti e per ciascuno degli
uomini, per tutte e ciascuna delle donne, per tutti e ciascuno degli esseri
della natura; riscoprire quindi la sua presenza liberatrice in tutti i tempi e
in tutti i luoghi della storia.
Ma perché
parliamo di “riscoprire” ? Perché le teologie cristiane avevano coartato Dio,
il suo amore e la sua grandezza, entro i limiti angusti delle nostre chiese,
delle nostre culture occidentali, delle nostre tradizioni, del nostro libro
sacro, della nostra epoca storica. Fuori del mondo occidentale, pensavamo, non
c’è salvezza, perché non c’è Dio. Il Dio chiamato cristiano era un padre che
dedicava la sua attenzione a una minoranza dei suoi figli, e si disinteressava
dell’ immensa maggioranza di essi.
In questo
dio non possiamo più credere. Il Dio nel
quale crediamo oggi è più grande del cristianesimo.La sua verità è più ricca
della bibbia. Per rivelarsi al mondo,egli non ha un solo cammino, ma infiniti ,
nessuno dei quali è esclusivo o privilegiato; nessuno dei quali esaurisce
l’infinita ricchezza del suo amore. Il vangelo di Gesù
tornerà ad essere una buona notizia solo se non pretenderà di essere
l’unico messaggero dell’Amore, riconoscendo che Dio è più grande. “Dio è più
grande” potrebbe essere uno dei nostri motti macroecumenici.
Da questa
nuova prospettiva sorge in noi il desiderio di esplorare le altre strade della
manifestazioni di Dio nel mondo, di contemplare i volti di Dio che non
conosciamo, di scoprire altre forme della sua presenza amorosa e liberatrice
nella storia.
Ci
incoraggia in questa nuova ricerca di Dio la parola di Gesù alla samaritana:
“ Credimi , donna, giunge l’ora, ci
troviamo già in essa, in cui voi adorerete il Padre senza dover venire al monte
Guerizim né andare a Gerusalemme…Viene l’ora, ed è quella che viviamo, in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità…Dio è Spirito, e quelli
che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità.” (Giov. 4, 21-24)
Così la
preoccupazione per l’egemonia del cristianesimo cederà il passo alla
preoccupazione per l’egemonia di Dio: del Dio Amore Liberatore di tutti i nomi.