XXVII Incontro nazionale
delle Cdb italiane
Formia 1-3 novembre 2002
In questa sezione sono raccolte la scheda predisposta dal
Collegamento nazionale per il Forum iniziale e
le schede elaborate dalla Cdb responsabili dei laboratori
A) Scheda Forum
1) la Bibbia come liberazione o come origine dei fondamentalismi?
(Viottoli-Pinerolo);
2) Conformità e ricerca critica nell’ambito delle ‘religioni del Libro’ (San Paolo-Roma);
3) Donne e fondamentalismo (Comunità di Oregina Genova
4) Le religioni fra pace e guerra (Isolotto-Firenze);
5) Laicità oltre il Laicismo (Controinformazione ecclesiale, Roma);
6) Giovani (Redazione di Oltre)
A)
Scheda Forum
Nell’economia
dell’Incontro il Forum costituisce lo spazio per collocare la nostra
riflessione sui fondamentalismi nel quadro dei processi reali e nel vivo del
dibattito che li rappresenta.
A tale scopo è
stata sottolineata l’opportunità di aprire il Forum ai contributi e alle testimonianze esterne
alla realtà delle CdB.
Tali testimonianze
devono essere chieste a personalità che
vivono intensamente, seppure criticamente, le loro esperienze religiose e di
fede, e i loro orientamenti ideali e culturali, e non rifiutano l’identità che
ne deriva, ma sono critici verso il fondamentalismo anche nelle forme che
assume all’interno della cultura nella quale si riconoscono. Ci si muove
ovviamente nell’ipotesi: a) che il fondamentalismo non sia presente solo nelle
esperienze/istituzioni religiose, ma anche negli orientamenti culturali e nelle
organizzazioni che se ne dichiarano estranei, b) che in tutte le forme da esso
assunte siano presenti i pregiudizi della cultura patriarcale. Nelle culture e
negli orientamenti oggi prevalenti sono ancora irrilevanti i tentativi di
ripensarli alla luce del valore della differenza di genere proposto negli
ultimi decenni dal movimento delle donne.
Dal Forum dovrebbe
emergere, senza facili irenismi o sincretismi di facciata e sulla base di
concrete esperienze (piuttosto che di astratte enunciazioni
teologico-filosofiche) se è pensabile che una collaborazione, certamente
dialettica, tra i diversi orientamenti culturali e religiosi possa contribuire
e in quali forme
-
a ridurre le
intolleranze e i conflitti prodotti dai fondamentalismi nelle loro diverse
forme
-
a promuovere un
generalizzato confronto con la differenza di genere
-
ad evitare l’uso
“politico” delle religioni e la mistificazione ideologica dei conflitti
d’interessi in una prospettiva di secolarizzazione e di democrazia
-
a favorire la
convivenza pacifica, la contaminazione delle culture e l’integrazione dei
popoli e delle etnie
-
a promuovere la
ricerca di forme non violente per sanare o “congelare” i conflitti inevitabili
-
a costruire
un’etica condivisa fondata sulla responsabilità verso la specie umana che ormai
la planetarizzazione e gli sviluppi tecnologici condannano all’estinzione se
gli inevitabili conflitti continueranno ad essere risolti con la guerra e se la
legittima espansione della qualità della vita non si misura con la quantità
delle risorse ambientali disponibili.
Agli invitati si
chiederà che non si limitino a un’esposizione del loro pensiero ma siano disponibili a interloquire
(ordinatamente!!) attingendo prevalentemente alle loro esperienze e incalzati
dal moderatore sulla base di questi interrogativi.
L’origine storicamente definita del termine e l’uso indiscriminato
che se ne fa (si parla di fondamentalismi,
animalista, ambientalista ….del mercato) lo rendono equivoco? E’
legittimo confonderlo con l’integrismo, l’integralismo, il tradizionalismo, il
conservatorismo …?
Il F. minaccia tutte le religioni o il F. è intrinseco a
tutte le religioni ? – I F. religiosi generatori o conseguenze di problemi
economici – I F. religiosi e le diverse condizioni di genere –
La responsabilità dei cristiani e della Chiesa Cattolica –
I F. “laici” sono e perché diversi da
quelli religiosi (meno dogmatici, non hanno lunga vita, ecc)? – F. e
secolarizzazione, diritto al dissenso e all’eresia. - Cosa vuol dire essere
eretico oggi?
Accezione negativa del primo termine termine (omologazione, globalizzazione avanzata) – Bisogna parlare di bisogni o di valori ? – Si può parlare di etiche compatibili? – Gli irrinunciabili: ci sono, ci devono essere, quali ? – Quali rapporto tra valori e diritti. - Quali sono i minimi sui quali costruire i diritti (sul piano istituzionale) – Rivendicazione dei diritti di genere - Chi gestisce la rivendicazione dei diritti ? (rapporto violenza – non violenza) - Chi ne garantisce l’agibilità – Scontri di civiltà) - Quale responsabilità hanno gruppi, donne/uomini (di fede)?
1) Laboratorio
La Bibbia come liberazione o come origine di
fondamentalismi?
Riflessione introduttiva: “Per
una lettura biblica oltre i
fondamentalismi“
Siamo consapevoli che il primo
fondamentalismo con cui oggi ci troviamo a fare i conti è il “fondamentalismo
imperiale” (Tariq Alì, Lo scontro dei fondamentalismi, Rizzoli) del
pensiero unico: “Fuori del mercato non c’è salvezza” (Concilium 2/2000, Fuori
dal mercato non c’è salvezza, Queriniana.)
La storia del fondamentalismo
che dal protestantesimo di fine ‘800 ha invaso il cattolicesimo e l’ortodossia
registra un passaggio ed una estensione dal piano biblico alla dimensione
dogmatica. Sono preziose le ricostruzioni storiche di Enzo Pace – Piero Stefani
(Il fondamentalismo religioso contemporaneo, Queriniana), di Enzo Pace –
Renzo Gualo (I fondamentalismi, Edizioni Laterza), di Basssam Tibi (Il
fondamentalismo religioso, Bollati Boringhieri).
Nel ricostruire la storia del
fondamentalismo religioso rimane centrale l’attenzione al dato culturale e
politico: il fondamentalismo come reazione alla modernità in tutte le sue
dimensioni. Significativa l’organizzazione e l’articolazione sociale del
neofondamentalismo (La Maggioranza
Morale e la Christian Coalition).
“Il fondamentalismo nasce nel
mondo protestante, come corrente teologica che prende forma alla fine
dell’ottocento negli Stati Uniti d’America, in opposizione alle tendenze della
teologia liberale già manifestatesi in Europa. Il dibattito teologico si incentrava
sul modo di interpretare la Bibbia: mentre i teologi liberali pensavano che
fosse necessario utilizzare tutti gli strumenti critici delle moderne scienze
umane per purificare il testo sacro dalle mitologie e dai condizionamenti
storici che in esso si erano venuti sedimentando, i teologi conservatori si
opponevano con forza a questa tendenza perché ritenevano che l’apporto della
scienza moderna avrebbe finito per alterare l’integrità della verità depositata
nel libro sacro.
Se il conflitto fosse rimasto nel
ristretto ambito teologico, probabilmente non avremmo assistito alla nascita di
veri e propri movimenti sociali organizzati su basi religiose. In realtà la
discussione fra teologi ebbe subito una vasta eco nel mondo dei credenti delle
chiese evangeliche e gli effetti sociali della disputa astratta divennero
presto materia concreta di conflitto sociale ed ideologico.
I teologi conservatori
statunitensi, infatti, presero ufficialmente posizione contro le nuove mode
interpretative del testo biblico in una conferenza che si tenne nel 1985 a
Niagara Falls. Alla fine dell’incontro essi redassero un documento che
costituisce l’atto di nascita del fondamentalismo protestante. I punti nodali
che vennero solennemente ribaditi furono i seguenti:
a)
assoluta inerranza del testo sacro;
b)
la riaffermazione della divinità di Cristo;
c)
il fatto che Cristo sia nato da una vergine;
d)
la redenzione universale garantita dalla morte e
resurrezione di Cristo;
e)
la resurrezione della carne e la certezza della seconda
venuta di Cristo.
Come si può notare il primo
punto costituisce in verità il criterio supremo – la grande norma ermeneutica –
che consente di distinguere l’atteggiamento religioso di tipo fondamentalista
rispetto ad altri più aperti all’uso del metodo storico-critico nell’esegesi
della Bibbia. L’applicazione del metodo storico-critico, secondo la linea
sostenuta dai teologi fondamentalisti del manifesto di Niagara Falls,
comportava gravi rischi teologici: metteva in discussione verità consolidate e,
nel tentativo di comparare la rivelazione cristiana con altre religioni coeve o
antiche, ridimensionava o peggio revocava in dubbio dogmi centrali, come per
esempio la verginità di Maria, o, infine, finiva per presentare in forme troppe
umane la figura divina di Cristo.
Per avere un termine di
confronto in campo cattolico basterà ricordare che la tendenza liberale e
modernista si farà strada nell’ottocento anche fra teologi cattolici. Nel 1907
il modernismo verrà, infatti, condannato da Pio X nell’enciclica Pascendi.
La dichiarazione dell’inerranza
integrale del testo sacro, inoltre, veniva a significare per il mondo
protestante l’affermazione dell’esistenza di una autorità incontrovertibile: la
Bibbia. Il libro sacro veniva in tal modo a configurarsi non più come un libro
aperto rispetto al quale il credente si dispone a comprendere la rilevanza
della Parola “qui ed ora”, concedendo perciò a chi la interpella il diritto ad
interpretarla alla luce della storia che muta, ma come una istituzione perenne,
un corpo di dottrine immutabili che l’essere umano non può interpretare senza
porsi costantemente il problema del rispetto della verità incontrovertibile
contenuta nello stesso testo sacro.
Infine, è opportuno soffermarsi
sull’ultimo punto del manifesto di Niagara Falls: il richiamo alla certezza
della seconda venuta di Cristo. Si tratta di un motivo teologico che diventa
ricorrente agli inizi dell’ottocento nel mondo protestante, grazie ai movimenti
di risveglio evangelico tanto in Inghilterra che negli USA. Stiamo parlando del
millenarismo.” (Enzo Pace – Piero Stefani, Il fondamentalismo religioso
contemporaneo, Queriniana - pag. 25-28).
Il fondamentalismo è
”imparentato” ma non perfettamente coincidente con “evangelical”, integrismo,
integralismo, conservatorismo, tradizionalismo, letteralismo. La stessa lettura della Dichiarazione di
Ligonier (1973), di Chicago del 1978 e di Chicago del 1982 su
autorità, ispirazione e inerranza
della Scrittura mettono in luce
non solo il significato del vocabolo “fondamentalismo”, ma anche l’animus
profondo che attraversa e caratterizza il movimento che, comunque, rimane
variegato.
Molti studi (già dal classico
“dialogo” Peterson-Ruggieri edito dalla Queriniana nel 1983) mettono in crisi
la vecchia affermazione secondo la quale i fondamentalismi troverebbero il loro terreno di cultura solo
nelle religioni monoteistiche. Anche la storia recente dell’induismo e del
sikhismo (etnofondamentalismo) sembra
orientare oltre le religioni monoteistiche e allargare il quadro.
Possiamo continuare a ripetere
che il cristianesimo è una “religione del Libro”? La Bibbia o la Sacra
Bibbia? Non si tratta di spaccare il capello in due, ma di cogliere alcune
possibili implicanze e accentuazioni.
Il fondamentalismo sia biblico
che dogmatico esercitano un fascino: “E’ scritto così”, “la Bibbia
dice”, “tu ti vuoi aggiustare la Bibbia a piacimento”, “la Bibbia deve essere
letta con semplicità”, o “a forza di
interpretare si stravolge e si vanifica la Parola di Dio”…
Come dialogare con le
esperienze e le persone di cultura fondamentalista?
Attenzioni, conoscenze,
valorizzazione delle loro preoccupazioni….
Come documentare la necessità
dei processi ermeneutica?
E’ possibile privare il
messaggio cristiano della esclusività? Come leggere oggi i linguaggi
esclusivisti della Bibbia?
Come rileggere alla luce della
cultura del dialogo interreligioso la teologia e la pratica pastorale delle
“missioni”? Come valorizzare la “svolta ermeneutica” della teologia? Come
utilizzare recenti studi (Claude Jeffré, Credere e interpretare,
Queriniana – François Vouga, Il cristianesimo delle origini, Claudiana)?
In una stagione ecclesiale in
cui il fondamentalismo si coniuga spesso con ambigui “ritorni del sacro”, con
il fanatismo, con il marialesimo e la papolatria, può essere utile distinguere
accuratamente tra radicalità cristiana e fondamentalismo.
Ø
Illustrazione della “riflessione introduttiva”,
presentazione dei testi biblici su cui verrà condotta l’analisi: Marco 16,
4-18; Atti 4, 1-12; Matteo 21,33-46
Ø
suddivisione in sottogruppi e confronto sui testi
Ø
breve plenaria del laboratorio
Ø
presentazione dei testi biblici su cui verrà condotta
l’analisi: Giovanni 11, 1-44; Efesini 5,21 - 6,9
Ø
suddivisione in sottogruppi e confronto sui testi
Ø
analisi e confronto di tutti i partecipanti al laboratorio
sulle esperienze e modalità di lettura biblica nei singoli gruppi e realtà
comunitarie di provenienza
ALLEGATO: Scheda
introduttiva alla tematica dei fondamentalismi da cui siamo partiti/e nella
nostra ricerca in occasione della due giorni comunitaria di spiritualità del 31
agosto e 1 settembre scorsi
Intanto esiste sul termine fondamentalismo una controversia
non irrilevante. Sovente si corre il rischio di usare il termine come
un’etichetta apposta in modo non appropriato su realtà differenti e in contesti
diversi (integrismo, integralismo, tradizionalismo, conservatorismo …)
La prima avvertenza da seguire è di parlarne al plurale,
consapevoli che ogni analisi va poi compiuta al singolare, cioè dentro un
particolare contesto.
Le diverse teorie sul fenomeno “fondamentalismo”:
-
il
Fondamentalismo come reazione alla
modernità;
-
il
Fondamentalismo come espressione della
crisi della modernità;
-
il
Fondamentalismo come ripresa
dell’utopia dello Stato etico;
-
il
Fondamentalismo come rivincita di Dio.
Origini storiche del
fondamentalismo in ambiente protestante e suoi sviluppi nel neofondamentalismo contemporaneo.
Il “progetto educativo” del neofondamentalismo.
Esiste un’istanza positiva dentro i vari
fondamentalismi? Quale? Dove avviene la “svolta patologica”?
La “globalizzazione” del mercato è una nuova forma di pensiero
unico che abbraccia tutti gli ambiti dell’esistenza e tutti gli “spazi”
geografici. Globalizzazione come fondamentalismo laico che si riveste di
sacralità (la difesa dei valori, della civiltà, …)
Globalizzazione -
ideologia - fondamentalismo -
idolatria.
Parentele tra patriarcato e fondamentalismi. La cultura
della guerra.
I fondamentalismi delle tre religioni sorelle: ebraismo,
cristianesimo, islam. Dalla religione dell’amore alla “religione del Libro”
e del dogma.
Occorre un’attenta analisi del fondamentalismo
cattolico (sue basi, sue maschere, i movimenti cattolici tra
fondamentalismo biblico e cultura del mercato, dell’azienda). Fondamentalismo e
dogmatismo nel “Catechismo della chiesa cattolica”. Tradizione e
tradizionalismo. Tradizione come antidoto al fondamentalismo.
Il fondamentalismo nelle religioni dell’India
contemporanea (Hinduismo, Sikhismo …). Esiste un fondamentalismo buddhista? Il
fascino dei fondamentalismi.
2) Laboratorio
Conformità e ricerca
critica nell’ambito delle ‘religioni del Libro’
Comunità di San Paolo
Scheda di presentazione
L’idea del tema di questo
laboratorio è nata nelle riunioni di comunità in cui si è discusso l’argomento
che si andava delineando per l’Incontro nazionale: i “fondamentalismi”
religiosi e la contrapposta ricerca, se non proprio di un’etica universale,
almeno di “frammenti di valori” che si possano condividere e che possano
portare un barlume di speranza per il futuro dell’umanità.
Per quanto ci riguarda, tenendo conto del nostro percorso dal
Concilio Vaticano II ai giorni nostri, ci siamo soffermati sulla esigenza di
ricercare se esista qualche esperienza simile alla nostra nelle altre religioni
del libro: nelle chiese cristiane dunque, sia quelle orientali ortodosse che
quelle nate dalla Riforma, nel mondo
ebraico, nell’Islam.
Consapevoli di come sia
improprio applicare il nostro concetto di dissenso ad altre realtà religiose
che non hanno, come la Chiesa cattolica, una struttura unica e centralizzata la
quale rivendichi per sé il diritto all'interpretazione autentica del
"Libro", abbiamo esplicitato meglio il senso della nostra
ricerca: esaminare se esistano, nelle religioni che si ispirano ad un
"Libro rivelato", movimenti, espressioni, persone che all’interno
della propria fede, del proprio mondo religioso, esprimano idee, tendenze critiche
nei confronti delle espressioni più “fondamentaliste” delle stesse.
Idee, tendenze, persone quindi
che siano animate dalla volontà di superare gli steccati che le religioni
tendono a mettere intorno a sé, in certi casi forse per la necessità di
preservare in situazioni difficili la propria identità, e che offrano invece
prospettive di speranza di valori condivisibili al di là delle differenze
religiose, culturali ed ideologiche.
Il nostro Laboratorio dunque è un laboratorio
essenzialmente di ricerca e di scambio di conoscenze. Per farlo funzionare
quindi ci affidiamo ad esperti che ci guidino in questo percorso: l’obiettivo
finale non c’è, tenteremo di delinearlo insieme strada facendo.
Nel pomeriggio di venerdì 1
novembre ci aiuterà a condurre questa ricerca Paolo Naso, direttore della rivista ecumenica e di dibattito
interreligioso “Confronti” e direttore della rubrica televisiva RAI
“Protestantesimo”, curata dalle Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane.
Con lui saranno Mustafa El Ayoubi, della Comunità Islamica
presente in Italia, e Giorgio Gomel Consigliere
della Comunità Ebraica di Roma, rispettivamente redattore e collaboratore di
“Confronti”.
Allegati
1-3
1)
A. Cohen, “Il Talmud”, Laterza 1935 (pp. 89 – 98)
ISRAEL E LE
NAZIONI.
Dopo aver considerato gli Elyonim, le creature che
abitano nel cielo, passiamo ora ai Tachtonim, le creature che abitano la
terra. Basandosi sulla tavola genealogica di Gen., x, i Dottori affermano che
il mondo è popolato da settanta nazioni, e settanta sono le lingue che vi si
parlano.
Niente di più naturale che trovare in scritti di Ebrei per
gli Ebrei attribuita al popolo di Israel una importanza eccezionale. Invero, si
può dire che gli abitanti del mondo vengano classificati in due categorie:
Israel e gli altri popoli. È dogma fondamentale essere Israel il popolo eletto.
Questa, che è dottrina biblica, viene dai Dottori elaborata e arricchita.
Dovunque nel Talmud si insiste sulla intima ed unica relazione che esiste fra
Dio e il Suo popolo.
Si può citare il seguente brano come tipico di questo
punto di vista: “ II Santo che benedetto sia disse a Israel: Io sono Dio per
tutti coloro che vengono al mondo, ma soltanto a te ho associato il Mio nome.
Non sono chiamato il Dio degli idolatri, ma il Dio di Israel” (Esodo R., xxix, 4). “II Santo che benedetto sia,
ha unito il Suo nome a Israel. A questo proposito si può istituire un paragone
con un re che aveva la chiave di un piccolo forziere. Diceva il re: ‘Se la
lascio così com’è, si perderà. Ecco, io le farò una catena, così che, se si
perde, la catena indicherà dov’è’. Similmente parlava il Santo che benedetto
sia: ‘Se lascio i figli d’Israel come sono, saranno inghiottiti fra le nazioni
pagane. Attaccherò dunque ad essi il Mio grande nome e vivranno’” (p. Taan., 65
d).
Quest’ultima citazione suggerisce la ragione per cui
questa dottrina occupa un posto così notevole nell’insegnamento rabbinico. Essa
nasce quando il popolo esce da una crisi terribile: Il Tempio era stato distrutto, lo
Stato abbattuto, il popolo disperso in paesi stranieri. Nella loro sventura,
molti devono aver sentito che il loro Dio li aveva abbandonati. Per questo,
nelle scuole e nelle Sinagoghe venne predicata la parola di conforto che Israel
era ancora il popolo di Dio e che la Sua protezione non era cessata.
Ecco uno
di questi messaggi vivificatori: “Vieni e vedi come sono amati i figli d’Israel
dinanzi al Santo che benedetto sia;. perché dovunque andarono esuli, la Shechinah
fu con loro. Furono esiliati in Egitto e la Shechinah fu con loro, come
è detto: ‘Non mi esiliai[1]
invero alla casa di tuo padre quando erano in Egitto?’ (I Samuele, n, 27).
Furono esiliati in Babilonia e la Shechinah fu con loro; come è detto:
‘Per vostro amore Io fui mandato (sic) a Babilonia’ (Isaia, xliii, 14). Cosi, quando nel futuro
saranno redenti, la Shechinah sarà con loro; come è detto: ‘II Signore
tornerà[2]
con la tua cattività’ (Deut, xxx,
3). Non è detto: ‘II Signore ricondurrà’, ma ‘tornerà con’, il che significa
che il Santo, che benedetto sia, verrà indietro con loro” (Meg., 29 a).
La stessa
tendenza si può rilevare nella interpretazione della cantica che Israel cantò
presso il Mar Rosso: “II Signore è mia forza e canto " (Esodo, xv, 2) che
voleva significare — ciò che si applica anche alle età posteriori — “Tu sei
Colui che aiuta e sostiene tutti coloro che vengono al mondo, ma me ancor più.
Tutti i popoli del mondo proclamano la lode del Santo che benedetto sia, ma la
mia Gli è più gradita della loro. Israel dichiara: ‘Ascolta, o Israel, il Signore
è nostro Dio, il Signore è uno’ (Deut., vi,
4), e lo Spirito Santo grida: ‘Chi è come il Tuo popolo Israel, nazione una
sulla terra?’ (I Chron., xvii,
21). Israel dice: ‘Chi
è come Te fra i potenti, o Signore?’ (Esodo, xv,
ii), e lo Spirito Santo proclama:
‘Te beato, o Israel, chi è come te?’ (Deut., xxxiii,
29). Israel dice: ‘Chi è come il Signore nostro Dio, tutte le volte che Lo
invochiamo?’ (ibid., iv, 7) e lo
Spirito Santo grida: ‘ Quale grande nazione v’è, che abbia Dio così vicino a
se?’ (ibid.). Israel dice: ‘Poiché Tu sei la gloria della loro forza’ (Salmo
lxxxix, 17), e lo Spirito Santo
proclama: ‘Israel, in cui sarò glorificato’ (Isaia, xlix, 3)” (Mech. a xv,
2; 36 b).
Così strette sono le relazioni che intercedono fra Dio e
Israel, che il trattamento usato ad Israel sulla terra, si riflette su Dio nel
cielo. “Chiunque insorge contro Israel è come se insorgesse contro il Santo che
benedetto sia” (Mech. a xv, 7; 39 a).
“Chiunque aiuta Israel è come se aiutasse il Santo che benedetto sia” (ibid., 39
b). “Chiunque odia Israel è come chi odia Dio” (Sifrè, Num., §84; 22 b).
Se dunque Israel è il popolo eletto, non è allo scopo di
ricevere da Dio speciali attestazioni di favoritismo. Lungi dall’essere in
condizione più favorevole delle altre nazioni dal punto di vista materiale,
come conseguenza di questa elezione, Israel porta su di sé una maggiore
responsabilità ed è esposto maggiormente ai castighi. “Israel è al seguito del
Re e il suo dovere è di imitare il Re” (Sifrà a xix, 2). “Poiché Dio amò Israel, moltiplicò le di lui
sofferenze” (Esodo R., i, i). “Tre doni preziosi fece il Santo che benedetto
sia, a Israel, e tutti glieli dette a mezzo di sofferenza; essi sono: la Torah,
la terra d’Israel, e il mondo avvenire” (Ber., 5, a).
La responsabilità maggiore di Israel e la custodia della
Torah, divina Rivelazione. Poiché lo scopo della creazione del mondo fu la
glorificazione di Dio per mezzo della Torah, ed Israel la ricevette, ne
consegue che “Israel era nel pensiero di Dio avanti la creazione dell’Universo”
(Gen. R., i, 4). " II cielo e
la terra non furono creati che per il merito d’Israel “(Lev. R., xxxvi, 4) e “Come il mondo non potrebbe
esistere senza i venti, così è impossibile al mondo di esistere senza Israel”
(Taan., 3 b). Non è questa una autoglorificazione, poiché i detti
aforismi si riferiscono ad Israel solo come custode della Torah e stabiliscono
quindi un fatto spirituale.
L’elezione di Israel non fu una scelta arbitraria; e per
evitare a Dio l’accusa di favoritismo, una tradizione racconta che la Torah fu
offerta a tutte le nazioni, ma Israel solo consentì ad accettarla. “Perché il
Santo che benedetto sia, scelse Israel? Perché tutti i popoli ripudiarono la
Torah e rifiutarono di riceverla; ma Israel consentì, e scelse il Santo che
benedetto sia e la sua Torah” (Num. R., xiv,
10).
Questa idea viene elaborata nella leggenda che: “Quando
l’Onnipresente si rivelò per dare la Torah ad Israel, non a lui solo si
manifestò, ma a tutte le nazioni. Si recò dapprima presso i figli di Esaù e
disse loro: ‘Volete accettare la Torah?’. Domandarono essi che cosa vi era
scritto e Dio rispose loro: ‘Non uccidere’, ed essi replicarono: ‘Sovrano
dell’Universo! La natura stessa dei nostri avi era sanguinaria; come è detto:
“Le mani sono le mani di Esaù” (Gen., xxvii,
22) ragione per cui suo padre gli predisse: “Sulla tua spada vivrai” (ibid.,
40). Andò allora Iddio presso i figli di Ammon e Moab e disse loro: ‘Volete
accettare la Torah?’. Domandarono che cosa c’era scritto ed Egli rispose: ‘Non
commettere adulterio ’, ed essi replicarono: ‘Sovrano dell’Universo!
L’esistenza stessa di questa gente sorge da un atto di impudicizia’[3].
Egli andò e trovò i figli di Ishmael e disse loro: ‘Volete accettare la Torah?’.
Domandarono che cosa c’era scritto ed Egli rispose: ‘Non rubare’, ed essi
replicarono: ‘Sovrano dell’Universo! La vita stessa dei nostri avi dipendeva
dal furto, come è detto: “Egli sarà come un asino selvatico fra gli uomini, la
sua mano si rivolgerà contro tutti” (ibid., xvi,
12)’. Non vi fu una sola nazione presso la quale Egli non si recasse ad offrire
la Torah; perciò è detto: ‘Tutti i re della terra Ti renderanno grazie, o
Signore, perché hanno udito le parole della Tua bocca’ (Salmo cxxxviii, 4). I figli di Noah non furono
neppure capaci di conservare i sette precetti che avevano accettato[4],
ma se ne spogliarono e li dettero ad Israel” (Sifré Deut., §343; 142 b).
Se nessuna nazione avesse accettato la Rivelazione, lo
scopo della Creazione sarebbe venuto meno e l’intera popolazione del mondo
sarebbe stata annientata, poiché la Torah è la sua ragione d’essere. Si narra a
questo proposito la “Parabola di un re che possedeva un orto piantato a filari
di fichi, viti, melograni e meli. Lo affidò ad un giardiniere e si allontanò.
Dopo qualche tempo, il re venne a ispezionare l’orto e a verificare ciò che il
giardiniere aveva fatto. Lo trovò pieno di pruni e di spini; così incaricò dei
sarchiatori di tagliarli via. Però vide fra quei pruni una bella rosa, che
colse: la odorò e si deliziò della sua fragranza. Disse il re: ‘Per amore di
questa rosa, tutto l’orto sarà salvato’. Similmente l’intero Universo fu creato
soltanto per amore della Torah. Dopo ventisei generazioni, il Santo che
benedetto sia ispezionò il mondo per vedere ciò che era divenuto e lo trovò
pieno di acqua, per la quale le generazioni perverse erano perite. Incaricò dei
tagliatori di distruggere il mondo, come è detto: ‘II Signore sedeva al
diluvio’ (Salmo xxix, 10), ma
scorse una rosa, cioè Israel, che prese e odorò quando gli dette il Decalogo e
se ne deliziò. Quando Israel esclamò: ‘Noi faremo e udiremo ‘ (Esodo, xxiv, 7), il Santo che benedetto sia,
disse: ‘Per amore di questa rosa sarà risparmiato l’orto, per merito della
Torah e di Israel sarà salvato il mondo’” (Lev. R., xxiii, 3).
Israel, dopo l’esodo dall’Egitto, sarebbe perito se avesse
rifiutato la Rivelazione. “II Santo che benedetto sia, capovolse su di loro il
monte Sinai come un enorme vaso e dichiarò: ‘Se accettate la Torah, benissimo;
se no, qui sarà il vostro sepolcro’” (Shab., 88 a). È quindi evidente,
che, nell’opinione dei Dottori, il popolo non era dotato di una superiorità
eccezionale in lui innata, per cui meritasse la distinzione concessagli da Dio,
e, coll’abbandono della Torah, lo stato di privilegio sarebbe cessato
immediatamente. Inoltre, non considerava come suo possesso esclusivo, la Torah,
che, al contrario, era destinata a tutto il genere umano. Felice il giorno in
cui tutte le nazioni l’accettassero.
Da questa speranza derivano testi siffatti: “Ogni frase
uscita dalla bocca dell’Onnipotente si divideva in settanta lingue” (Shab., 88 b);
“Mosè espose la Torah in settanta lingue” (Gen. R., xlix, 2). La migliore espressione di questo stesso pensiero
si trova nella spiegazione del verso: “Voi dunque osserverete i Miei statuti e
le Mie leggi, che se un uomo li metterà in pratica, vivrà per essi” (Lev., xviii, 5): “Donde si deduce che perfino
un pagano che osserva la Torah è uguale al sommo Sacerdote? dalle parole: ‘che
se un uomo li metterà in pratica, vivrà per essi’. Similmente è detto:
‘Questa è la legge del genere umano, o Signore Iddio’ (II. Sam., vii, 19). Non
dice: ‘Questa è la legge dei Sacerdoti, o dei Leviti, o di Israel’, ma ‘la
legge del genere umano’. Cosi non è detto: ‘Aprite le porte, che entrino i
Sacerdoti, i Leviti o Israel’, ma ‘aprite le porte, che entri un pagano[5]
giusto che osserva la fedeltà’ (Isaia, xxvi,
2). Altrove, non è detto: ‘Questa è la porta del Signore, per essa entreranno i
Sacerdoti, o i Leviti, o Israel’, ma ‘per essa entreranno i giusti’ (Salmo cxviii, 20).
Similmente,
non è detto: ‘Rallegratevi nel Signore, voi Sacerdoti, o Leviti, o Israel’, ma
‘Rallegratevi nel Signore, voi giusti’ (Salmo xxxiii,
1). E neppure è detto: ‘Benefica, o Signore, i Sacerdoti o i Leviti o Israel’,
ma ‘i buoni’ (Salmo cxxv, 4).
Perciò, anche un pagano che osserva la Torah è uguale al Sommo Sacerdote”
(Sifrà a xviii, 5).
La portata
universale di questa dottrina è degna della maggiore attenzione, perché contraddice
l’opinione corrente che il Giudaismo rabbinico sia strettamente
particolaristico ed etnico. Anche i sacrifizi nel Tempio si facevano per
l’intera umanità. “L’ottavo giorno della Festa dei Tabernacoli, si offrivano
settanta giovenchi in favore delle settanta nazioni. Guai ai popoli del mondo
che hanno perduto e non sanno che cosa hanno perduto! Perché, fino che esisteva
il Tempio, l’altare espiava per essi, ma ora chi espia per loro?” (Suk., 55 b).
D’altra
parte dobbiamo ammettere che si incontrano anche affermazioni ispirate a
tutt’altro spirito. Eccone dei tipici esempi: “Un pagano che si occupa dello
studio della Torah, è degno di morte, perché è detto: ‘Mosè ci comandò la
Torah, eredità dell’assemblea di Israel’ (Deut., xxxiii, 4), cioè l’eredità è per noi, non per altri”
(‘Sanh., 59 a). “Mosè chiese che la Shechinah rimanesse sopra
Israel, ed Egli lo concesse; come è detto: ‘Non è vero che Tu cammini con noi?’
(Esodo, xxxiii, 16). Domandò che
la Shechinah non posasse sugli altri popoli del mondo, e Dio acconsentì;
come è detto: ‘Si che noi siamo distinti, Io e il Tuo popolo’ (ibid.)” (Ber., 7
a). Secondo ogni probabilità, dichiarazioni di questo genere furono
provocate dal sorgere della Chiesa cristiana, i cui membri studiavano anch’essi
le Scritture e sostenevano che la Grazia Divina posava su di loro.
L’ideale
religioso dei Dottori era l’estensione del Regno di Dio a tutti i popoli del
mondo, e per ricordarlo costantemente gli Ebrei avevano la regola che “una
benedizione che non faccia menzione del Regno di Dio non ‘è benedizione” (Ber.,
40 b). Ciò significa che la benedizione deve cominciare con la formula:
“Benedetto Tu sia, o Signore nostro Dio, Re dell’Universo”. Ne risultava
che non si poteva chiudere la porta in faccia ai pagani che desideravano essere
ammessi per motivi puri.
I
convertiti sinceri erano benvenuti e molto stimati. “I proseliti sono cari (a
Dio) perché sono descritti negli stessi termini degli Israeliti. I figli
d’Israel sono chiamati ‘servi’ come è detto: ‘Poiché a Me i figli d’Israel sono
servi’ (Lev., xxv, 55), e i
proseliti sono chiamati ‘servi’, come è detto: ‘Per amare il nome del Signore,
per essere Suoi servi’ (Isaia, lvi, 6).
Gli Israeliti sono chiamati ‘ministri’, come è detto: ‘Sarete chiamati i
sacerdoti del Signore, gli uomini vi chiameranno ministri del nostro Dio’
(ibid., lxi, 6), e i proseliti
sono chiamati ‘ministri’, come è detto: ‘Gli stranieri che si uniscono al
Signore, per essergli ministri’ (ibid., lvi,
6). I figli d’Israel sono chiamati ‘amici’, come è detto: ‘La stirpe di
Abraham, Mio amico’ (ibid., xii,
8), e i proseliti sono chiamati ‘amici’, come è detto: ‘(Dio è) amico del
proselito’ (Deut., x, 18). La parola ‘patto’ viene usata per Israele, come è
detto: ‘II Mio patto sarà nella vostra carne’ (Gen., xvii, 13), ed anche per i proseliti, come è detto: ‘Che si
tengono fermi nel Mio patto’ (Isaia, lvi,
6). La parola ‘gradimento’ viene usata per Israel, come è detto: ‘Che
essi possano essere graditi dinanzi al Signore’ (Esodo, xxviii, 38) e per i proseliti, come è detto: ‘I loro
olocausti e i loro sacrifizi saranno graditi sul Mio altare ‘(Isaia, lvi, 7)” (Mech. a xxii, 20; 950). Si trovano ancora altri
sviluppi di questa idea, tendenti a dimostrare che l’Israelita e il convertito
sono posti esattamente allo stesso livello.
Sul verso:
“E le anime che avevano acquistato[6]
in Haran” (Gen., xii, 5), vien
detto: “Abraham faceva proseliti fra gli uomini, e Sarah fra le donne. Chiunque
porta un pagano vicino (a Dio) e lo converte, è come se lo avesse creato” (Gen.
R., xxxìx, 14). Un Dottore arrivò
a dichiarare che “II Santo che benedetto sia, non esiliò Israel fra le nazioni
per nessun’altra ragione se non perché a lui si aggiungessero dei proseliti”
(Pes., 87 b).
Una
opinione contraria si trova esposta nel passo: “I proseliti sono dannosi a
Israel come la scabbia” (Jeb., 47 b); ma l’origine di essa è da cercarsi
nell’esperienza fatta in un’epoca in cui i convertiti si erano comportati in
modo da essere fonte di dolori e di pericolo per la comunità. Si pose allora
gran cura nell’esaminare chi desiderava convertirsi e furono rigorosamente
vagliati i motivi determinanti. La cerimonia dell’ammissione viene in tal modo
descritta: “Quando un proselita viene in questi tempi per essere accettato come
proselita, gli si chiede: ‘Qual’è il tuo scopo nel venire a convertirti? Non
sai che Israel è ora afflitto, perseguitato, umiliato, angariato e
soffre castighi?’. Se risponde: ‘Lo so, e sono indegno (di dividerne le pene)’
viene accettato ed istruito in alcuni dei minori e dei maggiori precetti, come
pure nelle pene che sono connesse alla trasgressione di essi. Gli si dice:
‘Sappi che prima di fare questo passo potevi mangiare grasso proibito,
profanare il Shabbath, senza incorrere in alcuna pena; ma se d’ora in avanti
farai queste cose, terribili pene cadranno su di te’. Nello stesso modo in cui
viene informato delle pene connesse ai precetti, si informa pure delle
ricompense. Gli si dice: ‘Sappi che il Mondo Avvenire è riservato ai giusti e
che Israel oggi non può avere abbondanza di bene o abbondanza di pena’. Essi,
dunque, non devono essere respinti con eccessivo rigore. Se il proselita
accetta tutto questo, viene circonciso subito. Quando è guarito, si sottopone
alla immersione[7] senza
indugio, e due discepoli dei Saggi più stanno dappresso e gli fanno conoscere
alcuni dei precetti più e meno importanti. Dopo che si è immerso nel bagno ed è
uscito dall’acqua, è Israelita a tutti gli effetti” (Jeb., 47 a, b).
II più autorevole difensore, dei proseliti fu Hillel, la
cui massima era: “Sii dei discepoli di Aaron, amante della pace e cercatore
della pace, amante delle creature tue simili e loro avvicinatore alla Torah “
(Aboth, i, 12).
Si racconta il fatto di un pagano che si recò da Shammai a
chiedergli di essere accettato come convertito a condizione che gli si
insegnasse l’intera Torah mentre egli si reggeva su un solo piede. Il Dottore
lo cacciò col bastone che teneva in mano. Egli allora andò da Hillel con la
medesima richiesta; e questi gli disse: “Ciò che non desideri per te, non fare
al tuo prossimo. Questo è tutta la Torah e il resto è solo commento. Va,
imparalo” (Shab., 31 a).
Ai pagani che non erano preparati a entrare nel gregge del
Giudaismo, si offriva un codice morale, conosciuto sotto il nome di sette
precetti dei figli di Noah. Essi erano: “Pratica dell’equità, proibizione di
bestemmiare il Nome, dell’idolatria, dell’immoralità, dello spargimento di
sangue, del furto e del mangiare un membro tolto da un animale vivo” (Sanh., 56
a). Con una condotta giusta, basata cioè su queste leggi fondamentali,
meriterebbero l’approvazione divina. Il testo: “La giustizia esalta una
nazione, ma il peccato è un’onta per i popoli” (Prov., xiv, 34), era applicato a Israel nella sua prima
parte, ai pagani nella seconda. Poiché la parola che vale “onta” (chésed),
significa pure “pietà”, fu data al testo suddetto l’interpretazione che anche
le azioni pie dei pagani sono un peccato per loro, poiché i motivi che le hanno
ispirate erano impuri. Questa interpretazione fu respinta da R. Jochanan b.
Zakkai, il quale dichiarava: “Come il sacrifizio per il peccato espia per
Israel, così la giustizia espia per i popoli della terra” (B.B., 10 b).
E Dio è così giusto nel suo giudizio che “giudica i pagani secondo il migliore
fra essi” (p. R. H., 57 a).
Le dure parole con cui talvolta il Talmud si riferisce ai
non ebrei, derivano dalla convinzione che “i pagani sono dediti alla
sregolatezza” (Jeb., 98 a). I Dottori erano disgustati dal basso livello
della condotta morale che veniva praticata attorno a loro, mentre erano grati
per gli ideali più alti che la religione offriva loro. Una preghiera, composta
per essere pronunziata uscendo dalla Casa di Studio, cosi si esprime: “Io rendo
grazie a Te, o Signore mio Dio e Dio dei miei padri, che hai posto la mia parte
fra coloro che siedono nella Casa di Studio e nella Sinagoga, e non hai posto
la mia parte fra coloro che frequentano i teatri e i circhi; perché, mentre io
lavoro per ereditare il Paradiso, essi lavorano per l’abisso della distruzione”
(p. Ber., 7 d).
Alcune delle parole più amare scaturirono da labbra
addolorate da una estrema provocazione. Fra queste, l’espressione più criticata
è: “Uccidi il migliore dei pagani, schiaccia la testa del migliore fra i
serpenti!” (Mech. a xiv, 7; 27 a).
Ma
si dovrebbe ricordare che ne è autore R. Shimon b. Jochai, che viveva durante
le terribili persecuzioni di Adriano, aveva veduto il suo amato maestro, R.
Akiba, subire diaboliche crudeltà per mano dei Romani, ed era stato costretto a
nascondersi per tredici anni in una caverna con suo figlio, per sfuggire ai
tiranni del suo popolo. Le sue parole non esprimono che sentimenti personali, e
sarebbe grave ingiustizia citarle come saggio dell’etica talmudica.
Dal testo seguente risulta chiaramente come l’opposizione
ai pagani fosse di origine etica piuttosto che etnica: “R. Eliezer diceva:
‘Nessun pagano avrà parte nel mondo avvenire; come è detto: “I malvagi
torneranno al mondo infero, come tutte le nazioni che dimenticano Dio” (Salmo ix, 17); “I malvagi” si riferisce
ai malvagi in Israele’. R. Jeoshua gli replicò: ‘Se il verso dicesse: “I
malvagi torneranno al mondo infero, come tutte le nazioni”, e si fosse fermato lì, sarei d’accordo
con te. Ma poiché il testo aggiunge: “che dimenticano Dio”, ecco, vi devono
essere fra le nazioni, dei giusti, che avranno parte nel mondo avvenire’”
(Tosiftà Sanh., xiii, 2). La
dottrina accettata dal Giudaismo rabbinico, è che i giusti di tutti i popoli
erediteranno la felicità dell’al di là.
[1]
In una vasca apposita per scopi rituali
2)
LA
GUERRA SANTA
Da: buhari
Raccolta di “Hadit” - UTET
II ğihād, che i nostri padri, guardando
più alla pratica che alla grammatica, resero con “guerra santa”, suona tradotto letteralmente “lo sforzo “ cui si
deve sottintendere aggiunto “sulla via di Dio”. MAO, 254.
La
definizione di un dottore dell’Islam è la seguente: il combattere che fa il
Musulmano contro l’infedele, col quale non abbia alcun patto (perciò non col dimmi, finché rimane fedele al patto), allo scopo di
esaltare la parola di Dio Altissimo “, cioè la
fede musulmana riassunta nelle parole della professione di fede: “Non ve altro dio che Iddio e Maometto è l’inviato
di Dio”; non quindi alla scopo di mostrare il proprio valore
o di fare bottino al quale, secondo alcuni, non deve partecipare se nel
combattere ha avuto questo scopo. HAL, I, 385.
E
necessario tenere presente che il diritto musulmano prende in considerazione il
mondo come diviso in due parti: Dar al-Islàm o “dimora dell’Islam” e, in
contrapposto. Dar al-Harb o “dimora
della guerra “, che per legge è da conquistare a
poco a poco e da assoggettare all’Islam. ISL, 424.
Per
quanto riguarda i nemici contro i quali si deve combattere. il diritto
musulmano stabilisce la distinzione tra i “politeisti” e la “gente del
Libro“, cioè quelli che professano religioni rivelate come
Cristiani ed Ebrei. Ai primi bisogna intimare, prima che dalla parola si passi
alle armi, l’alternativa fra l’Islam e la spada; per i secondi la scelta è fra
l’Islam e il sottomettersi pacificamente, mediante un patto di “protezione“, ai
Musulmani, in cambio del pagamento d’un tributo. ISL, 425 (si
veda l’Introduzione al Libro LVIII).
Il ğihād, dicono i dottori dell’Islam “è obbligatorio per ogni Musulmano, libero, maschio,
tenuto agli obblighi religiosi e che abbia la forza per sostenere le fatiche HAL, I, 386), ma non rientra nei cinque «pilastri”
dell’Islam, obblighi fondamentali per il Musulmano, che sono:
1. la
professione di fede “non ve altro dio che Iddio e
Maometto è l’inviato di Dio” (pronunciar la quale, per
esempio, è sufficiente per trasformare un non-Musulmano in Musulmano);
2. la
preghiera (si veda il Libro VIII):
3. la
decima (si veda il Libro XXIV);
4. il
digiuno (si veda il Libro XXX);
5. il pellegrinaggio alla Mecca (si veda il libro
XXV).
Sono assimilate al ğihād le buone azioni: “chi si da’ da fare per una vedova o per un povero è
come chi parte per il ğihād “ (si veda
la nota 2 al Libro LXIX).
Sergio
Noia.
Iddio sa
meglio di tutti che cosa avrebbero fatto.
(BUHARI.
Raccolta di “Hadit” – UTET)
Narrò il
figlio di ‘Abbàs - sia soddisfatto Iddio di ambedue -che il Profeta - Iddio lo
benedica e gli dia eterna salute - interrogato sulla sorte dei figli dei
politeisti, aveva detto:
“Iddio sa
meglio di tutti che cosa avrebbero fatto”.
Narrò Abù
Hurayrah che il Profeta - Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - aveva
detto:
“Ogni persona che nasce viene al
mondo nello stato di natura; sono i genitori che lo fanno Giudeo o Cristiano,
come voi allevate gli animali[8].
Forse che ne trovate di mutilati finché non li avete mutilati voi stessi?”
Domandarono allora:
“O
Inviato di Dio, qual è la sorte di quelli che muoiono nell’infanzia?”
Rispose:
“Iddio sa meglio di tutti che cosa
avrebbero fatto.”
.
3)
Documentazione: Tolleranza e guerra santa
nell’Islam,
Biancamaria Scarcia Amaretti, Sansoni 1974
L’internazionalismo islamico
Affidiamo di nuovo a un testo il compito di spiegare e definire
i termini sui quali abbiamo impostato la nostra analisi. Il brano che segue è
tratto dalla First Conference of the Academy of Islamic Research, al-Azhar,
Cairo, 1964, pp. 206-210. Siamo in piena epoca “nasseriana” (e avanti il 1967)
e tale testo è l’espressione dell’universalità religiosa per eccellenza del
mondo islamico. Una trattazione di questo genere non può avere altro scopo che
quello di fornire elementi per un incontro tra la teoria dello stato nasseriano
e la teoria religiosa islamica, nella prospettiva di un cammino comune. In
questo senso i principi enucleati per spiegare il ğihād e per
sostenere lo spirito “internazionalista” dell’Islam sono sia analisi storica
volta al passato, sia programma politico proposto per il presente.
Parlando di necessità di
combattere, Ibn Taymiyya [giurista siriano morto nel 1328] si domanda se questa
viene determinata dall’aggressione degli infedeli a danno dell’Islam e dal
conseguente desiderio di respingerla, o dall’infedeltà stessa degli infedeli.
Egli ammette la diversità di opinioni sull’argomento, e accanto alla scuola più
seguita, tutta nel primo senso, menziona un’altra scuola che si rifà
all’autorità di Shāfi’ī e che propende per la seconda motivazione, in
modo da garantire il consolidamento della “novella “ islamica, secondo la
parola di Dio per cui è missione di ogni musulmano chiamare all’Islam.
Ibn Taymiyya si esprime a favore
del primo punto di vista, accettato dalla maggioranza e confermato dal Corano e
dall’esempio offerto dal Profeta e dai suoi Compagni. “Combattete sulla via di
Dio contro chi vi combatte, ma non iniziate per primi le ostilità” dice il
Corano. E. ancora: “Combattete finché non ci sia più persecuzione, e il culto
sia reso a Dio. Ma se desistono, che non ci sia più ostilità se non contro i
malfattori... Se volete punire, punite nella misura in cui siete stati offesi.
Ma se sopportate, in verità è meglio per chi è paziente”
Passando in rassegna le
tradizioni che risalgono al Profeta, si vede che questi fece guerra in due
casi soltanto:
1)
attacco contro i musulmani, o aspettativa di un attacco,
per sicura notizia di preparativi fatti in previsione di assalire la comunità
islamica. Perché il Profeta, nella sua saggezza, non poteva attendere che il
suo popolo venisse attaccato;
2)
il caso in cui i sovrani, come quelli bizantini,
costituissero un ostacolo tra lui e la sua missione, e quindi perseguitassero i
musulmani per costringerli ad abbandonare la loro fede.
Noi non abbiamo dubbi nel
sostenere la posizione di Ibn Taymiyya, ma ci si pone il problema di chi,
leggendo i capitoli dedicati alla guerra e alle spedizioni militari nei
trattati di diritto, dovesse giungere alla conclusione che i giuristi sono
inclini a considerare lo stato di guerra, e non quello di pace, come base delle
relazioni tra i popoli. Ora, come potrebbe un’autorità quale Ibn Taymiyya avere
citato in modo erroneo i dati elaborati dai giuristi, e come questi potrebbero
aver mal interpretato il Corano e la tradizione profetica? Tanto più che
proprio i giuristi parlano di “territorio di guerra” (dar al-harb) e che tale definizione non può che passare attraverso
un’altra definizione, quella cioè di aggressore e di aggredito, perché, nel
caso in cui tale distinzione non fosse possibile, significherebbe che si è
addivenuti a una convenzione e che il territorio in questione è diventato
“territorio d’accordo”. D’altra parte, non bisogna trascurare il fatto che i
giuristi hanno formulato le loro definizioni al tempo in cui la libera ricerca
giuridica deduttiva era ancora possibile...
Insomma, i musulmani hanno
sempre offerto tre alternative ai loro vicini: 1) un trattato che li garantisse
dall’aggressione; 2) la conversione; 3) la guerra. Se i vicini non si
convertono, e non accettano un accordo che garantisca i musulmani dall’aggressione
e permetta loro di continuare la loro missione, ne deriva che essi sono
oggettivamente in uno stato intenzionalmente aggressivo, per cui non è
possibile alla comunità dei credenti di attendere che l’aggressione si compia.
Un grande combattente musulmano
quale Ali ibn abl Talib ha detto: “Nessun popolo che accetti l’invasione della
propria terra trova scampo dall’umiliazione”. Si potrebbe arguire proprio dalle
definizioni dei giuristi che le relazioni dei musulmani con gli altri popoli
siano relazioni di guerra fino a quando non sia conclusa la pace. Si può anche
credere che le relazioni internazionali dell’Islam siano rette da dati fattuali
piuttosto che da nobili ideali religiosi, e siano quindi simili alle attuali
relazioni, che giustificano oggi gli uomini di governo nelle loro aggressioni.
In risposta vogliamo dire che i giuristi hanno adottato i dati fattuali come
denominazione di causa, invece di usare la legge islamica come denominazione
assoluta, senza per questo abbandonare i principi ideali dell’Islam, quali la
difesa dei valori, delle libertà e della giustizia. D’altro canto i giuristi,
nel loro momento storico, non potevano chiamare i fatti con nome diverso da
quello che avevano, cioè era un dato di fatto che la guerra fosse in espansione
e che il territorio degli aggressori fosse territorio di guerra, in mancanza di
una convenzione o di un trattato di pace.
La scelta di una denominazione
piuttosto che di un’altra non impedisce però che le relazioni tra i musulmani e
gli altri siano basate sulla giustizia, la libertà e la virtù; e in questo
senso i dotti e gli esperti non hanno mai parlato di uno stato islamico in cui
la sovranità potesse, essere garantita dalla conquista, piuttosto che basata
sulla virtù, sulla giustizia e sul timor di Dio. E non vi sono stati nell’Islam
padrone e schiavo, o vincitore e vinto, ma solo giustizia ed equità.
…Così si comportò Giosuè e così doveva
comportarsi, un vero modello della guerra come la legge di Dt 20 stabiliva
secondo la concezione dei suddetti circoli deuteronomistici. Ecco gli articoli
della normativa:
1.
I combattenti non devono temere i nemici “perché il
Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri
nemici” (20,1-4).
2.
“Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le
offrirai prima la pace”; in pratica è la richiesta di sottomissione (20,10).
3.
Se essa accetta, niente guerra ma assoggettamento pacifico
(20,11).
4.
Se invece rifiuta, sarà la guerra (20,12).
5.
Per una città straniera conquistata il trattamento sarà il
seguente: “ne colpirai a fil di spada tutti i maschi”, mentre il resto sarà
bottino (20,13-14).
6.
Lo sterminio (in ebraico herem) invece sarà totale per una città cananaica: “non lascerai in
vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio” (20,16-17).
Una prassi sconvolgente per la
sua violenta ferocia, ma parte integrante di una precisa ideologia sacrale di
timbro religioso-politico, che ha elaborato la tesi di un diritto divino del
popolo israelitico alla terra cananaica. Fondato sulla tradizione antica della
promessa patriarcale, esso legittima le tribù a rivendicarla scacciandone gli
abitanti o addirittura annientandoli. E il rilievo che si tratta di
un’ideologia elaborata nella mente delle persone più che di una concreta prassi
di condotta - infatti come abbiamo visto l’insediamento storicamente non è
avvenuto in linea ne con questa normativa di Dt 20 ne con i racconti
stereotipati del libro di Giosuè - , nulla toglie alla gravita del problema
teologico che investe in primo luogo le credenze e le concezioni religiose.
Scandalosa è appunto l’immagine di Dio di questi circoli deuteronomistici che
hanno dato un’impronta indelebile all’articolo di fede centrale della fede
ebraica: Dio ci ha dato il possesso della terra, un possesso ottenuto - dicono
– “a fil di spada” e votando allo sterminio coloro che nativamente possedevano
il paese, e ciò in ottemperanza al volere di Jahvè e per il suo intervento
bellico. Mai come in questo filone di pensiero della bibbia ebraica la più
spietata violenza umana si coniuga con una pari violenza divina: il divino
guerriero al centro di guerrieri umani, anzi un Dio bellicoso che forgia a sua
immagine un popolo bellicoso.
Il massimo della violenza
dell’uno e dell’altro è la legge dello sterminio (herem), che nelle guerre dell’antico Israele non costituiva un
elemento fisso, essendo praticato solo per un voto (cf.Num 21,2; Gdc 21,5) o
per una disposizione speciale del comandante (cf.Gs 6,17) o per una richiesta
del profeta (cf.l Sam 15,3), e poteva riguardare il bottino in natura. Invece
nel racconto deuteronomistico dell’insediamento diventa una legge generale
voluta da Dio e concerne particolarmente le persone, comunque tutti i viventi”23.
Mai più ferrea legittimazione
ideologico-teologica della violenza è stata elaborata. Si veda la valutazione
pertinente di N. Lohfink: “È stato così stabilito uno stretto legame tra
categorie del diritto e categorie della violenza. Il diritto viene imposto con
la violenza, e dietro ogni cosa sta la divinità”24. Da parte nostra
rileviamo che si è trattato di uno sviluppo negativo della fede tradizionale
dell’antico Israele, secondo la quale Jahvè ha promesso solennemente ai padri e
poi ha dato in possesso ai loro discendenti la terra di Canaan, senza che fosse
compresa la specificazione di una conquista a mano armata, aggiunta appunto dai
suddetti circoli deuteronomistici in maniera ideologica a sostegno della corona25.
Come negativamente si deve giudicare la riduzione della fede in Jahvè a
coraggio e determinazione di battersi per l’annientamento degli abitanti del
luogo; si veda per esempio Dt 1,29-32: “Non spaventatevi e non abbiate paura di
loro. Il Signore stesso vostro Dio, che vi precede, combatterà per voi...
Nonostante questo, non aveste fede nel Signore vostro Dio”. Ma già la corrente
sacerdotale ha emesso un giudizio negativo, sostituendovi un’interpretazione
della fede tradizionale in chiave non violenta e pacifista, come vedremo
subito.
2.2- Rilettura non violenta
Se la ricostruzione storica
porta a ritenere che l’insediamento delle tribù israelitiche nella terra non è
avvenuto senza violenza militare, dovendo esse impossessarsi di un territorio
occupato da altri, come fa notare giustamente Perlitt26, e se il
racconto dei circoli deuteronomistici di Deuteronomio-Giosuè lo ha inserito di
forza dentro le maglie ferree della loro ideologia bellico-sacrale, bisogna
però dire che la bibbia ebraica conosce anche un’altra e ben diversa
interpretazione, appunto in chiave assolutamente pacifista, e questo per merito
della tradizione sacerdotale, che ha inteso correggere la storiografia
precedente sostituendovi la sua versione.
_________________
23 Sullo sterminio (herem) vedi N. Lohfink alla voce in
«Theologi-sches Woerterbuch zum Alten Testament”, III, Stuttgart 1982, 192-213
e dal punto di vista religionistico l’articolo di D. Merli, Le «guerre di sterminio” nell’antichità
orientale e biblica, in «Bibbia e Oriente” 9 (1967) 53-68, che mostra come
dei popoli dell’area culturale del medio oriente antico solo Israele e Moab
(stele di Mesha) l’abbiano praticato.
24 // Dio della Bibbia e la violenza. 82.
25 In proposito appare illuminante
l’analisi che N. Lohfink ha fatto del verbo jarash,
usato spessissimo nel nostro racconto deuteronomistico dell’insediamento in
forma causativa o hiphil per indicare l’azione violenta con cui Jahvè fa
subentrare Israele nel possesso della terra che era nelle mani dei Cananei. Dio
è concepito come un re signore di ogni territorio; il cambio di proprietà si
effettua mediante il suo atto giuridi co che si chiama «dare”; così jarash viene ad assumere il significato
di prendere possesso in forza di una conquista e dell’annientamento
dell’attuale possessore. Cf. la voce
in «Theologisches Woerterbuch zum Al-ten Testament”, III, Stuttgart 1982,
953-985.
26 Israel und die
Voelker, 19. Ecco poi come lo stesso studioso descrive l’insediamento,
il periodo dei giudici e il tempo della prima monarchia in Israele; «Insediamento
nel territorio, ampliamento del territorio e rafforzamento del territorio...
non sono immaginabili senza una certa misura di guerra... Insediamento nel
territorio significò nelle intenzioni (e in buona parte anche nella pratica)
conquista. Ampliamento del territorio significò sottomissione più o meno
violenta delle città cananee fortificate, accanto alle quali in tutti i casi le
tribù prima o poi non sarebbero potute più vivere senza contatti con esse e in
maniera pacifica. Rafforzamento del territorio significò ben presto, dopo
l’insediamento e l’ampliamento, la difesa da successive tribù di nomadi, che
minacciavano pericolosamente i primi coloni, nonché guerra di liberazione
contro i filistei” (Art. cit., 20).
Donne
e fondamentalismi
Comunità di
Oregina
A partire dall’età del bronzo ( 4000 a. C. ) e
dall’instaurazione di una società esplicitamente patriarcale , assistiamo ad un
graduale declino della presenza femminile nelle attività economiche e nell’esercizio
di tecniche e di saperi socialmente rilevanti.
Gli uomini si appropriano di quasi tutti gli aspetti della
vita comunitaria e le donne vengono chiuse nel ruolo di mogli e madri , nel
lavoro di trattamento artigianale dei prodotti animali secondari e dei vegetali
ma del tutto escluse da ogni ruolo
pubblico.
I ruoli sociali si differenziarono sempre di più finché ,
nel VII secolo a. C. ( età del ferro )
, il processo di instaurazione di una
società solidamente patriarcale si può considerare non solo compiuto ma anche
culturalmente radicato.
Prenderemo in considerazione in queste tracce di
riflessione soltanto le tre grandi religioni dette del “Libro” , perché di esse
possiamo parlare a partire da un minimo di esperienza condivisa , non escludendo
che nel laboratorio possa esserci lo stimolo a confrontarsi anche con altre
religioni come il buddismo , l’induismo ( o induismi ? ) .
E’ chiaro che le tre grandi religioni abramitiche ,
monoteistiche si formano e si consolidano in contesti che , seppure differenti
per fasi storiche per ambienti
geografici e per condizioni socioeconomiche , sono pervasi dal dominio
maschilista e patriarcale , manifesto anche nelle forme di organizzazione
religiose sia cultuali che culturali.
A questo punto si pongono alcune problematiche, alcuni
interrogativi :
· Quale ruolo
svolgono i miti e le narrazioni sacre nel sancire l’inferiorità delle donne in
nome di un Dio ?
· Quale
rapporto c’è stato tra il messaggio di Mosè , di Gesù , di Maometto e il
contesto patriarcale in cui esso è stato annunciato?
· E’ possibile
leggere nel messaggio di questi tre “profeti” il tarlo del fondamentalismo e/o
dell’integralismo di genere che
accompagnerà nei secoli le religioni che dicono di rifarsi al loro annuncio?
· Quali sono
stati i meccanismi che nella
costruzione dei “Libri sacri” hanno permesso di soffocare se non di eliminare la presenza delle donne ?
· Una volta
costituitesi come “religioni” , cioè come organizzazioni gerarchicamente
strutturate , quale riconoscimento
hanno avuto le donne in queste organizzazioni?
Al fine di offrire ai partecipanti al laboratorio, e non
solo, uno stimolo alla riflessione, abbiamo pensato di costruire una scheda
comparativa ma schematica che presenta aspetti comuni e differenti delle tre
religioni monoteistiche viste soprattutto nella loro dimensione “ufficiale”
“ortodossa” : una scheda che non ha pretese di “scientificità” e di
“completezza”.
Oltre ai testi già consigliati dalle Comunità
dell’Isolotto e di Pinerolo , ci siamo riferiti per le parti relative al
fondamentalismo di genere, anche ai
seguenti testi:
· L’Islam
laico a cura di Olivier Carré ( ed.
Il Mulino )
· L’Islam a cura di Jolanda Gaurdi (
ed. Xenia )
· Storia delle
donne Ottocento e Novecento ( pagine relative all’ebraismo , al
cattolicesimo e al protestantesimo ) a cura di G. Duby e M. Pierrot ( ed.
Laterza )
· Le donne
delle minoranze a cura di Claire E.
Honess e Verina R. Jones ( Claudiana Torino)
· Donne e
fondamentalismi Risoluzione del Parlamento
Europeo del 13 marzo 2002, prima
firmataria Maria Izquierdo Rojo ( su Adista 1.4.2002)
TABELLA
|
EBRAISMO
(inizio 2000 anni
ante E.V.)
|
CRISTIANESIMO
(inizio 38 dopo Cristo)
|
ISLAMISMO
(inizio
622 d.C.) |
|
|
|
|
Definizione di
Dio
|
Il nome di Dio, non viene pronunciato (D-o) ma egli è sicuramente pensato e descritto
unico e con attributi maschili , inoltre viene definito come padre , come
sposo |
Unico, il Padre
proveniente dalla tradizione ebraica, tutti gli aggettivi di Dio sono al
maschile. |
Unico, maschile, è Allah
proveniente dalla stessa tradizione ebraico-cristiana |
|
|||
Presenza divina
femminile |
Inesistente |
Inesistente ( esiste la
Madre di Dio, per dogma , riconosciuta nella Madonna) |
Inesistente ( esiste la
Madre del libro un archetipo celeste del Corano) |
|
|||
Definizione
trinitaria
|
Inesistente anzi viene
ribadita più volte l’unicità di Dio |
Padre, Figlio, Spirito
Santo; la definizione trinitaria si forma in fase ellenistica |
Inesistente |
|
|||
Tipo di
religione
|
del libro ( la Torah) |
del libro ( la Bibbia) |
del libro ( il Corano) |
|
|||
Visione della
creazione |
Dio creatore, uomo prima
della donna, uomo dominatore natura (animali e vegetali) Riferimenti storici alla
Bibbia-Genesi |
Dio creatore, uomo prima
della donna, uomo dominatore natura (animali e vegetali), riferimento Bibbia
– Genesi |
Dio creatore, uomo prima
della donna, uomo dominatore natura (animali e vegetali) Riferimento Corano -
Sura II |
|
|||
Rapporto uomo-donna |
Prevalenza dell’uomo
sulla donna in ogni funzione importante, superiorità nei ruoli |
Principio di uguaglianza
nella diversità, accettazione e
conferma storica della sottomissione
della donna all’uomo |
Superiorità maschile
sancita dal Corano ( Sura IV ) |
|
|||
Comandamenti e
precetti |
Dieci (Mosè) + 613
precetti irrinunciabili |
Dieci (Mosè ) + catechismo |
Molte regole che formano il Codice islamico (Sura 17) |
|
|||
Segni o sacramenti d’appartenenza |
si ( circoncisione per i
maschi, ) l’essere ebreo o ebrea deriva dalla discendenza da madre ebrea,
oppure per scelta da adulto |
si, battesimo sia per le
donne che per gli uomini |
La professione di fede come fondamentale
segno (cinque pilastri dell’Islam preghiera, elemosina, testimonianza di
fede, pellegrinaggio rituale,obbedienza al corano) |
|
|||
Trasmissione appartenenza religiosa |
Per via matrilineare |
Per via comunitaria e
sociale (il battesimo come rito sociale) |
Per via patrilineare |
|
|||
Presenza del demonio |
si |
Si, descritto come tentatore di Cristo |
si |
|
|||
Presenza del peccato originale |
si ad opera di una donna |
si ad opera di una donna ( il
battesimo è anche eliminazione del peccato originale ) |
si ad opera di una donna |
|
|||
Comunità dei credenti |
si – forte senso di
appartenenza al Popolo eletto di D-o |
si – formazione di
Chiese strutturalmente molto organizzate dai battezzati |
sì – forte senso di appartenenza
alla Umma , la casa di tutti i musulmani |
|
|||
Impurità femminile |
Malattia, sangue
mestruale femminile, |
superamento dei concetti
d’impurità legati al mestruo femminile |
Donna mestruata
inavvicinabile |
|
|||
Visione della sessualità |
storicamente
l’eterosessualità è stata considerata con libertà e non solo dentro il
legame coniugale, ma sono proibiti tuttavia i rapporti sessuali
prematrimoniali in quanto in contrasto con la concezione del matrimonio;
l’omosessualità non è riconosciuta |
in genere si è affermata
una visione della libera sessualità come
peccaminosa; la sessualità
viene esclusivamente legata alla riproduzione nell’ambito del matrimonio
eterosessuale; l’ omosessualità è considerata devianza |
attiene alla sfera
privata ma non è in genere considerata peccaminosa; l’ omosessualità non è
tollerata una delle regole:”non
abbandonarti alla lussuria” |
|
|||
Concezione matrimonio
e famiglia |
Il matrimonio è un patto:
in genere è monogamico e la famiglia-tipo patriarcale. |
Il matrimonio è un
sacramento: è assolutamente
monogamico e la famiglia
storicamente patriarcale |
Il matrimonio è un
contratto:è ammessa la poligamia e la famiglia è patriarcale , si rileva una evoluzione
moderna verso la monogamia e in alcuni paesi anche verso una maggiore
autonomia delle donne |
|
|||
Adulterio
|
Grave colpa femminile |
Peccato |
Reato , |
|
|||
Divorzio e matrimonio
misto |
Ammesso il divorzio Non
ammesso il matrimonio misto
|
Non ammesso il divorzio Ammesso
matrimonio misto
|
Ammesso ripudio-divorzio Ammesso matrimonio misto |
|
|||
Metodi
contraccettivi
|
Anticoncezionali
femminili ammessi se presi
all’insaputa del marito, quelli maschili non sono ammessi |
Ammessi solo quelli naturali che sono
legati alla gestione controllata del ciclo femminile e del periodo di
fecondità, non ammessi tutti gli altri metodi |
Non sono in genere
vietati , ci sono state evoluzioni
sociali in diversi periodi storici |
|
|||
Aborto
|
Ammesso solo quello
terapeutico |
Considerato un grave
peccato |
Non ammesso |
|
|||
Rapporto con lo straniero |
Accoglienza |
Accoglienza e tolleranza religiosa |
Accoglienza |
|
|||
Eredità
femminile
|
Contemplata nell’ambito della stessa famiglia |
Riconosciuta solo
in tempi recenti (evoluzione storica e sociale) |
non riconosciuta ( evoluzioni moderne) |
|
|||
Rapporto con la
società |
separatezza formale ma forti
condizionamenti |
Pervasione ai fini della formazione di una società
cristiana ( evoluzione negli ultimi tempi ) |
Piena coincidenza tra
religione e società nei paesi a totale presenza islamica ( rapporto
problematico nei paesi senza religione di Stato ). |
|
|||
Rapporto con la legge
dello Stato |
separatezza |
separatezza formale ma condizionamento culturale |
Rapporto conflittuale ove c’è distinzione
tra la Sharia e legge civile |
|
|||
Rapporto con la
politica |
regole comportamentali diffuse
che condizionano la politica ( presenza di partiti politici ebraici nello
Stato d’Israele ) |
attribuzione
cristiana a partiti politici,
evoluzione di dottrina sociale |
Formazione di partiti
“religiosi” dove lo Stato si presenta almeno formalmente “laico” |
|
|||
Abiti e costumi
|
modernizzazione con
alcuni segni distintivi (kipa maschile e copricapo femminile) |
totale modernizzazione
alcuni abiti e segni di riconoscimento per clero e conventuali |
presenza di segni distintivi e abiti imposti ( burca,
velo, turbante, ) |
|
|||
Preghiere
|
rituali, regolari,
giornaliera con vasta formulazione
espressiva personale ( osservanza di un calendario liturgico) |
rituali, regolari,
giornaliere sia liturgiche che personali
e con formulazione espressiva personale ( osservanza di un calendario
liturgico) |
rituali, regolari,
giornaliere e imposte, limitata espressione personale ( osservanza
di un calendario liturgico) |
|
|||
Rappresentazione
iconografica |
assente |
Eccezionale sviluppo
dell’arte sacra, diffusa specialmente nel cattolicesimo e nell’ortodossia
, a carattere didattico |
vietata qualsiasi antropomorfica rappresentazione divina |
|
|||
Luogo di culto
|
sinagoga |
basilica , tempio |
moschea |
|
|||
Tipo di culto
|
collettivo e sacrificale |
collettivo e memoriale |
collettivo e peregrinante |
|
|||
Ministro del
culto
|
Non vi sono preti; ma
chi presiede il culto è maschio anzi
più maschi insieme, sono ammesse le donne in casi estremi in assenza
dei maschi. Il rabbino è un
interprete della Torah, un insegnante, un saggio, non necessariamente un
ministro del culto, i rabbini sono sposati |
Preti maschi nella chiesa
cattolica e ortodossa.Pastori , maschi e femmine , nella maggioranza delle
chiese protestanti. I preti cattolici di
rito occidentale devono essere
celibi, i /le pastori/e di altre chiese cristiane possono essere sposati/e |
esclusivamente maschio ma come per
l’ebraismo non è un sacerdote, bensì un saggio che interpreta il Corano (
sono detti ) ulama o mullas e sono
sposati. |
|
|||
Presenze
femminili
|
Nella storia
biblica matriarche, profetesse; in
epoca moderna nessuna in particolare |
Maria Madre di Gesù,
definita Madre di Dio, Apostole e discepole, numerose sante, |
Le donne dell’Islam c
oranico sono pochissime: Maria, Fatima Ancora oggi non possono
guidare il culto |
|
|
|
|
Presenza
fondamentalismi |
sì – ebrei
ultraortodossi |
origine protestante del
concetto di fondamentalismo, ancora
oggi vi sono correnti fondamentaliste
–nell’ambito del cattolicesimo dogmatico si usa parlare
di movimenti o posizioni
integraliste. |
Gli storici musulmani non accettano il concetto
occidentale di fondamentalismo , ma è forte la somiglianza del
fondamentalismo di origine ebraico-cristiano con quello presente in movimenti
di origine islamica |
|
|||
Presenza di movimenti
femministi |
Si, solo in epoca recente
a partire dalla fine dell’ottocento |
Si, con collegamenti con il movimento
femminista in generale (significativo sviluppo della teologia femminista) |
Si, con forte affermazione della peculiarità
islamica fin dall’inizio del novecento |
|
|||
Uso religioso della
Guerra |
Nella storia del popolo
ebraico molte sono state le guerre giustificate per volontà di D-o |
Nella storia delle
società cristiane molte guerre sono state giustificate con l’appoggio
della religione. |
La guerra santa è legittimata
dal Corano come lotta contro gli infedeli |
|
|||
-
Schematica presentazione
- Spunti
di discussione
Il fondamentalismo sorge nei periodi di crisi quando è
forte la paura di perdere l’identità e quando ci si sente minacciati?
Oppure è la religione, la quale nella sua realtà storica è
stata sempre molto aggressiva, ad essere per sua natura fondamentalista, perché
l’uomo avrebbe proiettato su Dio la propria aggressività?
E’ possibile una religione nonviolenta? E’ realmente
possibile liberare le religioni dalla violenza iscritta, come dice qualcuno,
nel loro codice genetico? Sono possibili un cristianesimo, un islamismo, un
ebraismo radicalmente nonviolenti, è possibile un buddismo non distrattivo e
non consolatorio?
Il compito di liberare le
religioni dalle radici della violenza è solo di chi sta “dentro” le religioni
stesse? Insomma i laici possono continuare a chiamarsi fuori dai problemi
religiosi, ecclesiali e perfino teologici?
Proponiamo il seguente itinerario di lavoro:
venerdì 1 novembre pomeriggio:
confronto a partire dagli spunti allegati di seguito;
sabato mattina: socializzazione
di esperienze concrete ( saranno presenti Luigi Ontanetti dell’Agesci e Lisa
Clark dei Beati Costruttori di pace);
sabato pomeriggio: tentativo di
sintesi del lavoro svolto.
Tenteremo di usare anche strumenti di comunicazione non
verbali.
Per approfondire alcuni aspetti del tema del laboratorio
segnaliamo:
Karen ARMSTRONG, In
nome di Dio – Il fondamentalismo per ebrei, cristiani e musulmani, Il
Saggiatore, Milano 2002.
Ernesto BALDUCCI, La
rivoluzione non violenta, Testimonianze n° 328, 9/1990.
AA:VV. Il fondamentalismo come sfida ecumenica, Concilium,
3/1992.
Spunti di
discussione
Premessa:
Il
fondamentalismo intollerante e violento è una degenerazione o è invece costitutivo
delle istituzioni religiose?
Il presidente Ciampi ha di recente sostenuto (a Bratislava
il 9 luglio scorso – così ci dicono i giornali) l’idea di inserire nella nuova
Costituzione europea un esplicito riferimento alla comune matrice religiosa cristiana.
Posizione ribadita da Giuliano Amato (vicepresidente della Convenzione europea
incaricata di scrivere il testo comune), il quale, col plauso di Gianfranco
Fini, ha detto che “la Carta dovrà contenere anche i valori identitari della
società e tra questi la religione, potente fattore di difesa dei principi di
tolleranza tipici della società europea. … Le religioni hanno una forza
straordinaria, non vedo ostacoli a inserirle nella Costituzione europea”.
Tralasciamo il problema
specifico della Costituzione europea, che merita altre competenze e altri
spazi. Invitiamo invece a porsi la domanda, che hanno evitato di porsi Ciampi,
Amato e Fini, se è vero, o meglio se è totalmente vero, che le religioni, e più
in particolare la religione cristiana nelle sue diverse connotazioni
confessionali, sono un “potente fattore di difesa dei principi di tolleranza”.
Se lo sono state in passato e se lo sono adesso. Se il fondamentalismo
intollerante e violento è una degenerazione o se è invece costitutivo delle
istituzioni religiose, dei loro impianti ideologici e simbolici, e in questo
caso se è costitutivo di tutte o solo di alcune religioni.
C’è chi sostiene che le
religioni sono radicalmente intolleranti e fonte di intolleranza. Il
fondamentalismo non sarebbe una degenerazione ma un connotato costitutivo di
tutte le religioni. Condividiamo una tale analisi? Ci rassegniamo a consegnare
alle strumentalizzazioni del potere, che esistono e sono forti, una immensa
risorsa di valori e di esperienze positive e creative quali sono le religioni.
Il problema esiste e resiste.
Dio-Assoluto o Dio-relazione e quindi re-lativo?
La nostra tesi, o meglio la nostra esperienza, è che le
religioni sono un potente fattore di tolleranza, ma soltanto per una specie di
codice genetico impresso nel profondo dalle esperienze che le hanno generate.
Non lo sono invece per gli assetti ideologici e istituzionali che le religioni
hanno assunto nella loro storia di connubio col potere. Le religioni sono un
potente fattore di tolleranza nella misura in cui i “credenti” hanno il
coraggio e la forza di ritrovare e rivitalizzare e portare a pienezza epoca per
epoca quel codice genetico. Non lo sono nella misura in cui i “credenti” si
assoggettano, si rassegnano, si adattano agli assetti ideologici e istituzionali
della codificazione violenta. Non sono fattore di tolleranza se i “credenti”,
che magari si impegnano per condannare e contrastare l’intolleranza, la
violenza e la guerra nella società laica, economica e politica, non esprimono
uguale impegno nel ricercare e contrastare le radici di intolleranza, di
violenza e dei guerra che si annidano negli ordinamenti ideologici, dogmatici e
simbolici della loro stessa fede.
Prendiamo spunto dal film di Pam Nalin Samsara. In prima istanza è
il protagonista, un giovane lama, che critica l’assolutismo radicalmente
violento e intollerante della rinuncia come unica via al nirvana. La sua non è
una critica di sole parole. Esce dal monastero, si innamora, si sposa e ha un
figlio. Poi però dopo varie esperienze sente di nuovo l’attrazione del
monastero e come Budda abbandona moglie e figlio per tornare alla vita della
rinuncia radicale. Infine è la moglie di lui che accusa il buddismo di essere
una esperienza di maschi per maschi. Intollerante verso la donna. Incapace di
capire e valorizzare il contributo femminile alla illuminazione. Che
illuminazione è quella del Budda, il maschio che abbandona la moglie e il
figlio? E’ una illuminazione a metà, è una illuminazione escludente e
intollerante. “Buon viaggio” dice la moglie al marito che l’ha abbandonata e
che dopo un drammatico colloquio sarebbe anche disposto a tornare a lei e al
figlio. E così lo lascia ai suoi tormenti di maschio, eterno bambino,
“credente” ma di una esperienza spirituale e in qualche modo religiosa che
promette miracolose illuminazioni ma rende incapaci di relazioni piene.
L’illuminazione è relazione sconfinata.
In termini diversi, la critica contenuta in Samsara si può applicare sostanzialmente anche alle altre
religioni. Più a fondo conosciamo la religione cristiana e cattolica e su
questa ci diffonderemo. Come l’illuminazione buddista, anche la salvezza
cristiana dovrebbe tendere a trovare il suo fondamento primo nelle relazioni
attualizzando epoca per epoca l’esperienza da cui sono scaturiti i Vangeli. Il
Vangelo è essenzialmente primato assoluto delle relazioni: ama Dio e ama il
prossimo. Il resto, tutto il resto viene dopo. E dovrebbero venire dopo, nel
cristianesimo, la verità, il sacramento, la rivelazione, il potere di
sciogliere e di legare, il dogma , la legge. E dovrebbe venire dopo anche
l’ovile, cioè la Chiesa come appartenenza. Prima è la relazione in quanto
relazione aperta, costantemente alla ricerca di un “oltre”, protesa al
superamento di tutti i confini e di tutte le appartenenze. Si direbbe che prima
è l’amore critico e creativo. Dio stesso, il Dio del Vangelo, è relazione. Dio
non è l’Essere perfettissimo, l’Assoluto, l’Onnipotente, l’Unico. Questa
concezione di Dio come onnipotenza, unicità, assolutezza è la proiezione umana
del senso del dominio e del potere. Ci torneremo dopo. Il Dio dei Vangeli non è
onnipotenza ma paternità, è Padre. Sorvoliamo sul fatto che anche Dio-Padre può
essere visto come proiezione del potere patriarcale. Anche in Dio-Padre c’è una
radice di violenza. Qui c’interessa però il primato della relazione introdotto
nel concepire Dio dai partecipi alla esperienza da cui nascono i Vangeli. Dio è
padre è figlio è spirito. Non è monoteista. Il monoteismo non viene dai Vangeli
ma dal connubio successivo dei poteri ecclesiastici col potere imperiale. E’ il
potere imperiale romano che per essere onnipotente deve essere unico ed ha
bisogno di specchiarsi in una divinità monoteista. E nel momento in cui il
cristianesimo accetta di piegarsi a coprire e sostenere l’unicità e
l’onnipotenza del dominio romano sul mondo allora conosciuto, in quel momento
modifica il suo Dna, diviene monoteista e viene costituzionalmente inserito nel
sistema di guerra. Dio unico e onnipotente, non è più che di nome il Dio del
Vangelo, in realtà è il dio della guerra.
La
violenza insita nel monoteismo
Per affrontare questo aspetto è d’obbligo riferirsi a uno
studio fondamentale di
Erik Peterson: Il monoteismo come problema politico,
Queriniana, Brescia, 1983. Il libro esce
in Germania nel 1935 da un dotto teologo tedesco che prima era stato
protestante e poi si era convertito al cattolicesimo in polemica con
l’accondiscendenza ai poteri politici delle dirigenze ecclesiastiche
protestanti. Peterson è un oppositore del nazismo e scrive il libro proprio in
funzione antiregime. Egli mostra e dimostra che il cristianesimo all’origine
non è monoteista. Il dio del Vangelo è essenzialmente relazione e in qualche
modo pluralismo: è un Dio trinitario, è un Dio amore in quanto relazione fra
persone diverse. E’ da Costantino che il cristianesimo diventa fede monoteista,
cioè adorazione di un Dio unico, Padre onnipotente, creatore e signore del
cielo e della terra, in funzione di giustificazione e sostegno all’assetto
imperiale universale del potere romano. E all’inizio lo fa per contrastare
l’accusa che veniva fatta ai cristiani di essere nemici dell’impero e negatori
della divinità dell’imperatore. Sono i Padri della Chiesa che dicono in
sostanza: guardate che i veri difensori della sacralità dell’impero siamo
proprio noi. La nostra religione è superiore alle altre proprio perché noi
crediamo in un solo Dio in cielo dal quale deriva la verticalità del potere
anche sulla terra. E’ il politeismo la causa delle guerre fra popoli e delle ribellioni.
Perché ognuno ha il proprio Dio e tutti questi dèi sono in lotta perenne fra
loro. Solo la fede in un dio unico può portare a un unico dominio, quello
dell’imperatore romano, e alla pace stabile se non eterna fra le nazioni e i
popoli.
Tale problema esisteva ancor
prima di Costantino. Sembra che gli imperatori romani precedenti avessero già
tentato di incoraggiare e diffondere il culto a un dio generico, universale, un
dio supremo e celeste in cui tutti gli altri culti e religioni e anche i cristiani
stessi potessero riconoscere qualche tratto del proprio dio: e questo dio
universale era stato individuato nel “dio sole”. Sembra che Costantino nella
battaglia del ponte Milvio contro Massenzio non avesse sui labari l’insegna di
Cristo ma proprio quella del dio sole. Solo in un secondo momento, diventato
unico imperatore, avrebbe assunto la religione cristiana come strumento di
sacralizzazione della sua autorità unica e cemento dell’unità dell’impero.
E lo fa col consenso del potere
ecclesiastico ormai saldamente in mano ai vescovi. I quali si appoggiano nel
governo della Chiesa a intellettuali influenti e convincenti che vengono
chiamati “Padri della Chiesa” in quanto davvero hanno generato la ideologia
cristiana detta tradizione ecclesiastica, cioè il dogma, la morale, l’etica
dell’ordinamento liturgico e canonico, la visione complessiva della realtà.
Orbene, i Padri della Chiesa da Costantino in poi, seguono tutti la stessa
linea ideologica: uno l’impero, uno il potere, uno Dio, uno il Salvatore universale
Cristo Gesù.
- A cominciare da Eusebio, il
primo storico ecclesiastico vissuto in Palestina dal 265 al 340 circa e
divenuto vescovo di Cesarea di Palestina nel 313. Grande amico di Costantino,
suo biografo e da lui ricoperto di onori e ricchezze.
Esiste un profondo legame in
Eusebio– scrive Peterson – fra la fine degli stati nazionali e la fine del
politeismo, fra la monarchia di Augusto e la venuta di Cristo, fra la pax
romana e la pace portata dal “principe della pace”.
“Chi potrebbe non meravigliarsi – sono parole di Eusebio – se pensa tra sé e riflette che non può
essere opera di uomini, che soltanto a partire dai tempi di Gesù e non prima,
la maggior parte delle nazioni dell’ecumene siano giunte sotto l’unico dominio
dei romani e che contemporaneamente all’inaspettata venuta di Cristo fra gli
uomini, lo stato romano abbia cominciato a fiorire? Augusto diventò unico
sovrano sulla maggior parte delle nazioni … che ciò non coincidesse casualmente
con l’insegnamento del nostro salvatore, chi non lo vorrebbe ammettere, se si
pensa che per i suoi discepoli non sarebbe stato facile muoversi in tutte le
direzioni se le nazioni fossero state isolate fra loro … avendo ciascun popolo
la sua sovranità? Dio che è sopra di tutti aveva davvero preparato loro la via
e, attraverso il timore nei confronti dell’impero, aveva fatto cessare le
esplosioni di ribellione da parte dei superstiziosi del politeismo … ma quando
apparve il Signore e Salvatore e contemporaneamente al suo avvento, Augusto,
primo tra i romani, diventò sovrano fra le nazioni, si dileguò il frazionamento
pluralista della sovranità nelle singole nazioni e la pace avvolse tutta la
terra … sotto il nuovo nome di Cristo, innumerevoli popoli e nazioni hanno
abbandonato i loro dèi tradizionali e il loro vecchio superstizioso errore
politeistico richiamati a colui il quale è Dio unico … per questo viene ora
donata ad essi la pace più profonda poiché non esiste più una sovranità
pluralistica e una regalità locale, al contrario ognuno si riposa dal suo lavoro
agricolo all’ombra di una vite o di un fico poiché niente più lo spaventa”
Per cui, secondo Eusebio -
commenta Peterson –, il monoteismo è iniziato in linea di principio con la
monarchia di Augusto e con la fine delle nazionalità. E’ Augusto che inaugura
il monoteismo. Ciò che però ha avuto inizio con Augusto diventa realtà piena
con Costantino. All’unico re sulla terra corrisponde l’unico re in cielo e
l’unica religione sovrana quella di Cristo.
- Le idee di Eusebio hanno avuto
un’enorme influenza storica. Le ritroviamo ovunque nella letteratura dei padri
della Chiesa.
Prudenzio poeta cristiano
spagnolo, latino, del terzo secolo scrive:
“Vuoi che ti dica,
romano, qual è la causa del così grande successo dei tuoi sforzi, il sostegno
che ha permesso alla tua gloria di accrescersi al punto da imporre al mondo il
freno del tuo dominio? I popoli avevano lingue differenti, i regni civiltà
discordanti, Dio volle riunirli sottomettendo a un solo impero tutto ciò che
era civilizzato … affinché l’amore della religione tenesse uniti i cuori degli
uomini; infatti non c’è unione degna di Cristo se uno spirito unico non associa
intimamente le nazioni – infatti che posto potrebbe esserci per Dio in un mondo
violento e nel cuore degli uomini in disaccordo e che difendono in diversi modi
i loro diritti, come fu una volta?”.
S. Ambrogio, vescovo di Milano, del VI sec.: “Tutti gli uomini hanno imparato, vivendo sotto un unico impero universale, a proclamare col linguaggio della fede l’impero dell’Onnipotente”.
S. Girolamo, filosofo e biblista latino, del VI sec,: “Dopo che si giunse alla sovranità di Cristo, Roma ottenne di essere governata da un unico potere, e la terra divenne accessibile al cammino degli apostoli, e furono loro aperte le porte delle città ed il comando di uno solo fu consolidato dalla predicazione di un solo Dio”.
E via di questo passo…..
Peterson conclude criticando il
monoteismo come degenerazione pericolosa anche per il suo tempo, il tempo della
dittatura nazista. Rovesciando il ragionamento di Eusebio, secondo cui come si
è visto sarebbe soltanto dal monoteismo in cielo e dal governo di uno solo
sulla terra che verrebbe la vera pace, Peterson sostiene invece che proprio nel
monoteismo si annida la radice della dittatura, della violenza e della guerra.
Insomma la pax romana esaltata dai padri della Chiesa non è vera pace, anzi è
guerra infida, ancor più pericolosa e distruttiva della guerra dichiarata. E’
sistema di guerra che si ammanta di pace e così riesce ad abbassare le difese
etiche e psicologiche e a farsi accettare come bene supremo. E’ una guerra
vinta nelle coscienze prima ancora di essere combattuta.
Egli rivendica piuttosto il
ruolo teologico e politico del dogma cristiano della Trinità di Dio in
opposizione al dogma del Dio unico o monoteismo. Va riconosciuto a Peterson il
valore della sua analisi storica sulle origini del monoteismo e apprezzato il
suo sforzo nell’individuare nel monoteismo stesso radici della cultura del
dominio violento. Ma risulta debole quando trova la soluzione nella Trinità
intesa in senso dogmatico, personalizzato e totalmente trascendente. Questo
modo di intendere la Trinità è riduttivo. Un Dio relazione trinitaria, ma
relazione chiusa in se stessa in quanto astratta dal mondo, relazione
autosufficiente, relazione che crea e governa dall’alto tutte le relazioni
umane, in che si differenzia dal Dio unico? Forse occorre andare oltre il dogma
e oltre la trascendenza separata dal mondo e dalla vita.
Già il
Dio della Bibbia, Javhè, non nasce monoteista, lo diventa come proiezione del
potere monarchico. Il re David aveva preceduto Costantino.
Studiosi, storici e teologi, ci dicono che il
problema della esclusività del culto di Dio per il popolo d’Israele, sancito
dal primo comandamento (Non avere altro
Dio fuori di me, o tradotto in modo più appropriato: Non avere altro Dio al mio cospetto – Esodo, cap.5, 7), non ha
nulla a che fare col monoteismo, il quale sarebbe invece un approdo molto
posteriore alla codificazione del decalogo. Sembra che il decalogo biblico, le
famose tavole della legge, si radichi in antiche esperienze di vita nomade e
che prima della immigrazione in Palestina non esistesse un "popolo
d'Israele” schiavo in Egitto, ma solo tribù e gruppi tribali senza legame fra
loro. Erano le tribù del nomadismo povero senza diritti, diverse dai beduini i
quali erano proprietari di cammelli e potevano avanzare diritti su un certo
territorio. Vivevano pacificamente nella steppa ai margini meridionali della
terra palestinese coltivata, dove l’estate dopo il raccolto trovavano pascolo
per il proprio bestiame minuto. E’ forse da questa esperienza di sradicamento
che nasce in tali tribù il culto verso una divinità anch’essa sradicata, non
legata ad alcuna località, ma accessibile solo attraverso un patto di reciproca
elezione fra tribù e Dio, patto simboleggiato dalla tenda. E sarà questa
religione della tenda che le tribù del nomadismo povero si porteranno con sé
quando in determinate circostanze storiche riusciranno a insediarsi nella terra
coltivata non più solo per una stagione ma per tempi via via più lunghi. Il
primo comandamento è una disposizione legata al culto non dogmatica né
ideologica: quando prestate culto a me spogliatevi degli altri dèi. Essa trae
significato da uno sfondo che lo storico delle religioni definisce politeistico,
infatti è proprio perché gli ebrei convivevano pacificamente con più divinità
che nel momento del culto collettivo a Jahvè sentono il dovere e il bisogno di
dedicarsi a lui solo (Gerhard Von Rad, Teologia
dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia, 1975, vol I pag. 244).
Ma la storia d’Israele non
finisce con la immigrazione dal nomadismo alla terra coltivata della Palestina.
Il processo successivo è la conquista della terra e poi la nascita dello stato
monarchico.
Con la unificazione politica operata dalla monarchia,
anche Jahvè viene centralizzato e diventa il dio unico.
E Jahvè cammina e precisa la propria identità col
precisarsi della identità del suo popolo. E’ così che con la conquista, con la
unificazione di tutte le tribù, con la nascita dello stato, col consolidasi
della monarchia, con l’affermarsi del dominio di Israele sugli altri popoli
della Palestina, anche Jahvè acquista potere e s’impone. E quando David
trasporta a Gerusalemme l’arca e quando Salomone costruisce il tempio, il Dio
nato errante e sradicato diviene oggetto di un culto di stato in un luogo
istituzionale. E’ a cominciare da questo periodo storico di unificazione e di
relativa potenza che inizia il processo di riflessione su Dio che condurrà
all’esclusivismo di Jahvè non più solo nei momenti del culto ma come principio
ideologico. E’ qui insomma che nasce il monoteismo. Si sviluppa nei circoli di
corte, in un clima culturale che oggi definiremmo di secolarizzazione, quando
gli ambiti della vita e quelli del culto si differenziano e si separano. Il
monoteismo è un prodotto della mente che si emancipa dalla natura. La nascita
di Dio come entità assoluta ed escludente, la cui identità è definita dagli
intellettuali di corte ed è imposta a tutti come elemento politicamente unificante,
coincide con la morte di Dio del deserto, anima del mondo, fermento della vita,
della morte, delle relazioni, amore che unifica e libera dal di dentro, forza
da cui emanano direttamente e di volta in volta i carismi capaci di condurre il
popolo anche nelle azioni belliche. Ora anche la guerra non è più un evento di
popolo, legato alla lotta per la sopravvivenza, ma un affare di stato e un
sistema di potere. Il legame fra il trono di Jahvè e il trono di David diviene
indissolubile. E così nel Dna del Dio della Bibbia si è inserito il gene del
sistema di guerra. Contro quel gene si sono opposti molti profeti, alla radice
di quel gene ha posto la scure l’esperienza di Gesù di Nazareth.
Dal
Dio-relazione-amore dei Vangeli a Dio “cifra assoluta della aggressività
umana”.
Nel cristianesimo avviene lo stesso processo di
trasformazione di Dio che si è verificato nella tradizione ebraica. Possiamo
dire con Peterson, citato, che il Dio dei Vangeli è relazione trinitaria.
Precisando però, cosa che non fa il ricercatore tedesco antinazista, che tale
relazione trinitaria è anima della rete infinita delle relazioni umane e
cosmiche, e non dominio trascendente-separato. Senza questa precisazione
sostanziale, anche la relazione trinitaria diventa imperiale e fonte d’imperialismo.
Quindi Dio é relazione a sua volta compresa, realizzata creativamente da tutte
le relazioni umane e cosmiche. Non basta dire Dio Trinità. Forse bisogna dire
Dio-relazione incompiuta, Dio-relativo, imperfetto e bisognoso, Dio-speranza,
Dio-futuro.
Ci sono pagine di Ernesto Balducci che esprimono con
rigore e radicalità una tale trapasso storico compiuto nel cristianesimo.
In un Convegno delle comunità di base, a Firenze, nel
salone dei 500, nel 1987, egli affermò:
"Io sono
convinto che non ci può essere cultura della pace se non con la eliminazione
del sacro: la fine del sacro è la fine della cultura di guerra...quando è
avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane negli spazi del potere, c'è
stata la sacralizzazione della Chiesa ... il Cristianesimo si è inserito nei
quadri della cultura sacrale ed ha assolto la funzione di religione della
società; e la religione di una società ha il compito di portare i sigilli alla
violenza della società. …Il cristianesimo è lacerato al suo interno in maniera
irrimediabile da questa doppia polarità. Da una parte il cristianesimo pretende
di essere la religione della società, chiede spazi, concordati, riconoscimenti.
Allora esso è inevitabilmente funzionale alla logica della violenza, senza
rimedio. Ma il cristianesimo in quanto fede profetico-messianica è un annuncio
e una esperienza di liberazione dell’uomo da ogni forma di alienazione, da ogni
forma di sudditanza alla forza, e quindi è di per sé una profezia e una
esperienza di pace. Le comunità di base sono comunità di pace nel senso forte e
ricco della parola. Esse mirano ad esorcizzare la violenza che attraverso la
stessa pedagogia della fede abbiamo introiettato, la violenza che si annida
anche nei nostri riti, per inventare una forma di mediazione del messaggio
evangelico del tutto libera dalle categorie sacrali. ". (Enzo
Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso
creativo, Manifestolibri, Roma, 2002 – sezione a cura di Sergio Gomiti).
Poi Balducci spiega che il
“sacro” è una realtà complessa. Non va identificato, egli dice, con uno spazio
determinato. Il sacro non va reificato. Il sacro è la percezione del relativo,
il bisogno di trascendere il relativo in cui siamo immersi. Il sacro quindi è
la funzione critica della società. Esso richiede una gestione profetica, una
consapevolezza che parta dal basso, dal terreno della vita. Un sacro così
inteso e vissuto è il sogno del figlio di un minatore dell’Amiata, che
approdato a Firenze e condotto in un primo tempo a intrecciare rapporti con i
salotti della élite intellettuale e con le stanze del potere, aveva poi
sperimentato il suo “esodo” (Diario
dell’esodo è il titolo di uno dei suoi libri più significativi) come
ritorno alle radici della sua origine popolare. Ciò che va eliminato - spiega
ancora Balducci - è il sacro reificato, sequestrato dal potere, separato dalla
vita, collocato in spazi e luoghi e gesti e riti determinati, gestito da
persone sacralizzate. E’ il sacro che dalla rivoluzione del neolitico in poi ha
assolto la funzione di integrare la forza dentro le regole della ragione. Non
di eliminare la forza ma di sacralizzarne e regolarne l’uso come cultura:
cultura di guerra, momento dirimente dei conflitti sia interni che esterni alla
città. Va eliminata la sacralità come funzione del potere, del dominio e della
espropriazione dell’uomo. E’ proprio questa eliminazione del sacro reificato
l’esperienza che fecero le comunità del primo annuncio del Vangelo.
Sono affermazioni forti. E
soprattutto sono centrali nella elaborazione dello scolopio, figlio di un
minatore dell’Amiata, rimasto fedele alla cultura popolare delle proprie
origini. Purtroppo sono per lo più ignorate dai biografi di lui o annegate nel
mare di temi meno compromettenti per la sua futura santificazione.
In una conferenza del 1988 e in una successiva conferenza
sulla Rivoluzione della nonviolenza fu
ancora più esplicito:
"Le religioni, nate come sono in questa cultura di guerra, sono
sempre religioni di guerra, nonostante che esse magari esortino alla pace,
invochino la pace. Esse legittimano il costume di guerra, le categorie mentali
della guerra....Per vivere, esse devono morire".
“Il
rapporto decisivo, sia per valore simbolico sia per una sua fondamentalità
metafisica, è quello uomo-Dio, che è servito da schermo e da sigillo ideologico
della cultura della violenza. Si tratta dell’asse antropologico in cui le mie
esperienze conflittuali sono più frequenti, quotidiane e quindi mi perdonerete
se vi insisto.
Le cose che devo dire sono certamente le più scandalose perché non
appena tocchiamo i centri nevralgici della nostra violenta sistemazione
culturale la reazione si fa più forte. Abbiamo esaltato all'infinito,
sacralizzandoli, i nostri istinti di aggressività nell'idea di Dio. Dio è la
cifra assoluta della aggressività umana. L'uomo ha scritto che Dio ha fatto
l'uomo a sua immagine e somiglianza. La verità è l'opposto: l'uomo ha fatto Dio
a propria immagine e somiglianza. Il Dio a cui siamo stati assuefatti è un Dio
aggressivo, discriminante, implacabile, giusto nel modo con cui noi pensiamo
che si debba essere giusti, capace di mantenere in totale estraneità da sé i
cattivi per tutti i secoli dei secoli. All'interno di un Dio così pensato
abbiamo collocato il Vangelo di Gesù Cristo”. Teologicamente è avvenuto questo (i
testi di teologia studiati per secoli dai preti sono lì a dimostrarlo): prima
si è dimostrato, in forza di ragione, come se la ragione fosse un metro allo
stato puro, conservato in edenica purezza, che Dio c'è e che cosa è Dio. Poi
abbiamo detto che questo Dio ideologicamente definito si è incarnato in Gesù
Cristo il quale ha fondato una Chiesa la quale ha tutti i poteri. ... Il
cerchio si chiude! L’aggressività passata attraverso Dio, sacralizzata ai
vertici, scende su di noi. La teocrazia fu la sistemazione teorica massima di
questa aggressività con la teologia sacrificale, secondo la quale Dio non
perdona l'uomo finché l'uomo non ha fatto una espiazione pari al peccato, cioè
infinita; non essendo questa espiazione possibile all'uomo, che è finito, era necessario
che ci fosse un uomo-Dio per cui l'espiazione fosse dell'uomo - e perciò del
soggetto peccatore - ma anche di Dio - e perciò infinita. Ed ecco Gesù Cristo
uomo-Dio! Questo è il cerchio della teologia aggressiva.
Noi riscopriamo che il Dio di Gesù Cristo non è questo Dio. Noi che
siamo i promotori di una rivoluzione nonviolenta, all'interno della Chiesa,
dobbiamo compiere questa rivoluzione e scoprire il Dio di Gesù Cristo. Il Dio
di Gesù Cristo non è scoperto dalla ragione umana che è sotto sospetto, ma è
manifestato dall'uomo Gesù di Nazareth. …. Dio si manifesta nel mondo come
servo sofferente, non come padrone dominante. … Soltanto i miti conoscono Dio …
Dio si conosce con la mitezza interiore, cioè col superamento della violenza,
l'abbandono di ogni atteggiamento di violenza, anche conoscitiva. … Dobbiamo
allora liberarci dalla cultura della violenza perfino nella nostra vita di
fede. Non è cosa da poco” (Testimonianze 328/1990, pagg 26-27).
Lavori in
corso
Balducci, da buon intellettuale, usava l’indicazione
“dobbiamo”: “dobbiamo liberarsi dalla cultura della
violenza perfino nella nostra vita di fede”. Noi da gente della strada
abbiamo un’altra indicazione: “lavori in corso”. Stiamo parlando della
esperienza delle comunità di base e di altre simili. E’ davanti a noi il
discorso di liberazione di Gesù a Nazareth e i segni profetici delle guarigioni
inviati dallo stesso Gesù a Giovanni Battista. Lavoriamo per liberarsi e
liberare per sanarsi e sanare. E non lavoriamo solo nelle regioni della consapevolezza.
Lavoriamo anche oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i
limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e soprattutto
della gente umile, della gente da sempre repressa, da sempre inginocchiata a
chiedere la salvezza dall’onnipotenza, incapace perfino di sognare, ai confini
del silenzio di donne e uomini dove l’inconscio si apre all’ignoto. Ai confini
di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi
nuovi. Ai confini di quei silenzi che dotti e maestri e sacri pastori ignorano
per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità necrofila,
“verità vera”, razionalità senza mistero. Lavoriamo per far emergere e sanare
traumi spirituali e morali che la mente e tutto il corpo hanno patito perfino a
loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento
senza parola, vuoto dell’anima (tutto questo è in straordinaria consonanza con
le nuove frontiere della psicanalisi -
cfr. Patrizia Cupelloni La ferita dello sguardo, Angeli 2002, in Corriere della
sera 22 maggio 2002 p. 37). Lavoriamo per passare dalla perdita inconsapevole e
dall’angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza: questo
vuol dire per noi comunità, primato delle relazioni senza confini,
cristianesimo dei segni dei tempi, religione dell’amore critico e creativo.
Anche da qui, da questa rivoluzione delle e nelle religioni passa l’anima
sociale e solidale del processo di globalizzazione.
Le nostre esperienze e riflessioni hanno individuato nel
Dio-Assoluto-Onnipotente una delle radici principali della violenza e del
sistema di guerra.
Intrecciate con questa e forse sue derivazioni altre
radici s’insinuano in ogni piega degli assetti religiosi sia del cristianesimo
sia delle altre religioni istituite.
Solo a titolo di esempio, presentiamo alcuni aspetti:
- Lo
stretto legame fra sofferenza, morte e peccato-ribellione.
Dio-Bontà e Perfezione assoluta non ha creato il dolore
del mondo e nemmeno la morte, li ha solo previsti nella sua onniscienza. Ha
creato esseri liberi. E’ dalla libertà che nasce la ribellione al progetto di
Dio, cioè il peccato, il male assoluto. E’ dal peccato-ribellione-male assoluto
che vengono la sofferenza e la morte. Il peccato-ribellione-male assoluto è il
nemico radicale della felicità. Per questo non ci sono limiti alla lotta contro
il peccato. La violenza e la guerra sono in radice necessarie. Anzi sono
connaturate alla funzione delle religioni come fulcro della lotta divina e
umana contro il peccato. Contingenze storiche possono consigliare più
misericordia e meno violenza e possono addirittura escludere la violenza e
condannare in certi casi la guerra. Mai però si può escludere la lotta contro
il peccato.
- Lo
stretto legame fra peccato e sacrificio, stabilito da Dio-Assoluta Giustizia.
Per vincere la morte eterna Dio
ha bisogno di vite infrante su questa terra, ha bisogno di sangue versato.
L’innocente stesso non può non essere sacrificato. Perché mai, se lui è un
essere così docile e buono? La risposta della teologia dominante non solo nel
cristianesimo ma, in forme diverse, in tutte e tre le cosiddette religioni del
libro è questa: Abele, prototipo dell’innocente, non può non essere sacrificato
perché in realtà anche lui non è innocente.
Anche il martire, prima di essere assunto da Dio come
testimone, è al fondo come tutti peccatore e in quanto tale destinato alla
morte eterna e al supplizio senza fine. Di fronte al peccato di origine con cui
Adamo ed Eva hanno inquinato tutta l’umanità per tutti secoli dei secoli non
c’è bontà che tenga. La giustizia infinita di Dio non può transigere di fronte
all’offesa infinita appunto perché è una giustizia infinita e perfetta. Per
salvare il genere umano peccatore e quindi per salvare anche il martire ha
bisogno di sangue versato. Caino e tutti i massacratori della storia sono al
fondo strumenti della giustizia divina, perversi quanto si vuole, liberamente
perversi, ma sempre strumenti, previsti e messi nel conto dalla onniscienza di
Dio.
La cosa poi nel cristianesimo si
complica ulteriormente perché tutto il sangue dei martiri e tutte le sofferenze
e tutte le morti non sarebbero affatto sufficienti. Il peccato di origine ha
prodotto un’offesa “infinita”, perché è ribellione a un Dio infinito, e quindi
ci vuole una riparazione anch’essa di valore infinito. Ecco il martirio di Dio
fatto uomo, Gesù. Solo lui, assumendo un corpo umano ma restando Dio, con la
morte di croce apre la salvezza al mondo intero. La croce è la sofferenza e la
morte di un uomo ma ha un valore infinito perché quell’uomo è Dio. E così Dio
dimostra il suo grande infinito amore. La giustizia infinita è placata ma è
soddisfatto anche l’amore infinito. Così stanno insieme giustizia infinita e
amore infinito.
Ma allora, se Cristo da solo è sufficiente, perché i martiri?
Non se ne poteva fare a meno? Non bastava il sangue e la morte dell’uomo-Dio?
No, perché i credenti in lui, i salvati, i buoni, sono la continuazione nel
tempo del suo corpo e quindi non possono non passare attraverso la
partecipazione alla sofferenza e alla morte di lui. Per risuscitare con lui
alla vita e alla felicità eterna non possono non essere crocifissi in qualche modo con lui e con lui sepolti nella
morte terrena. La felicità eterna ha bisogno di sofferenza terrena; la
risurrezione ha bisogno di morte. Ogni sofferenza e ogni morte è in qualche
modo un martirio attraverso cui si può accedere, se Dio lo vuole, alla vita
eterna.
- La trasformazione
della eucaristia in sacrificio perenne. L’eucaristia, come viene concepita e
vissuta, è la codificazione del legame inscindibile fra peccato e sacrificio e
il sanzionamento della perennità della violenza nel mondo.
Nel Vangelo non sembra che sia così. Tradotto in termini
espliciti, e quindi riduttivi, il messaggio che emana dalla simbologia
evangelica dell’ultima cena potrebbe essere questo: la via della salvezza non
passa attraverso il sacrificio rituale, che è solo consolatorio, anzi è un
imbroglio mascherato di sacro (il Tempio ridotto a spelonca di ladri). La via
della salvezza sta nella condivisione degli elementi offerti dalla natura e dal
lavoro dell’uomo, essenziali alla vita, simboleggiati dal pane e dal vino. E il
sacrificio? E’ scomparso? No, non è affatto scomparso. E’ anzi inserito, con un
significato però rovesciato, come elemento essenziale nella profondità del
significato della condivisione. La condivisione eucaristica del pane e del vino
non è una qualsiasi spartizione contrattuale: io do una cosa a te e tu dai una
cosa a me. La eucaristia è una condivisione esistenziale che non è mai appagata
dai livelli di giustizia raggiunti storicamente dalle spartizioni contrattuali.
Cerca e vuole livelli sempre più alti di giustizia e quindi tende di continuo a
un “oltre” che sfugge a ogni possesso. Perché il corpo e il sangue, la vita
umana, non si possono esaurire mai in un contratto o in un programma politico.
Il corpo e il sangue sono l’anima della trasformazione continua della storia.
Sono il motore intimo della lotta inesausta per la giustizia.
E’ sottile e profondo questo significato della eucaristia nel Vangelo.
Condividere il pane e il vino è salvifico, produce salvezza, perché è condividere corpo e sangue, è condividere la vita.
E condividere la vita, ecco un ulteriore passaggio, è accettare che la vita sia limitata e mortale. E quindi in qualche modo è anche vincere la morte. E’ un vincere pieno di drammaticità ma anche di positività: è gestire e superare l’angoscia della morte. Tant’è vero che il Gesù dei Vangeli affronta la conflittualità, con cui i dominatori del Tempio tentano di contenere e reprimere il carattere destabilizzante di quella condivisione, affronta lo scontro mettendo in gioco il proprio corpo e il proprio sangue. E così poi faranno i primi cristiani che affronteranno col martirio la conflittualità con la cultura e il potere dell’Impero, che vuole dominio sulla spartizione e non condivisione.
L’eucaristia è l’anima della ricerca inesausta e anche della lotta pacifica per la giustizia. Non si può condividere pane e vino, i simboli della eucaristia, senza condividere corpo e sangue.
E venne la transustanziazione a devitalizzare l’eucaristia.
Quando è avvenuto l'inserimento delle comunità cristiane
negli spazi del potere c'è stata la sacralizzazione della Chiesa. E' cominciata
l'avventura della fede dentro le categorie del sacro. Il cristianesimo-potere
ha rovesciato il senso di questa simbologia insita nell’ultima cena. E’ stata
sancita la transustanziazione. Il pane eucaristico non è più condivisione
perché non è più pane ma è il corpo di Cristo. Il pane è annullato per rendere
perenne la necessità del sacrificio. Il pane e il corpo sono stati di nuovo
contrapposti. La vita, la natura e il sacro sono stati di nuovo separati. E
all’ansia di giustizia e alla lotta pacifica per la giustizia è stata tolta una
parte dell’anima. E l’eucaristia è stata devitalizzata. E al posto della
giustizia e del diritto si è insediata la “carità cristiana”.
Le radici della
violenza e del sistema di guerra nelle religioni è un tema che non può essere
escluso dai nuovi traguardi per una globalizzazione sociale.
Il problema intriga da vicino anche l’attuale movimento “New global”.. La fase che si sta aprendo con Seattle, con gli incontri di Genova 2002, col Forum sociale europeo di Firenze richiede una particolare attenzione al rapporto col fenomeno religioso. La globalizzazione non è solo economica e politica. La dimensione religiosa e culturale della globalizzazione è altrettanto importante. Anche i centri del dominio globale di oggi hanno bisogno, come Costantino, di specchiarsi in un dio unico e onnipotente. Il monoteismo è moderno. Anzi è post-moderno perché s’intreccia con la religione del mercato e del danaro: un solo dio in terra, cioè il danaro, valore assoluto, un solo dio in cielo, cioè l’Assoluto.
“Dopo l’11 settembre occorre prendere le distanze dal fondamentalismo economico, politico e religioso” ha detto Naomi Klein nella videointervista all’affollato incontro padovano del Sherwod Festival 2002. Ma si doveva aspettare il crollo delle torri gemelle per rendersene conto? Ancora una volta a rimorchio?
Un mondo diverso ha bisogno di religioni diverse.
Religioni diverse non solo nella forma o nelle parole, ma nella sostanza.
Diverse perché capaci di diversa fedeltà al loro codice genetico generativo.
Per essere onesti però dobbiamo
riconoscere che non sono affatto chiari né l’obbiettivo né il percorso. Che
significa l’impegno di Balducci, “aiutare le religioni a morire”? Che significa
il motto buddista “essere pace e non soltanto operare per la pace”? D’altra
parte, di fronte a queste domande sta un altro interrogativo che è un po’ anche
una risposta: chi l’ha detto che per incamminarsi verso un mondo diverso
bisogna avere chiari obbiettivi e percorsi? Sono forse chiari gli obbiettivi e
i percorsi di una economia solidale? Insomma se si aspetta di aver chiari
obbiettivi e percorsi si resta fermi, come il millepiedi che pretendeva aver
chiaro il meccanismo e la successione del movimento di tutte le sue zampine.
Immaginare e tendere a costruire un mondo diverso significa scommettere e
rischiare. Anche a livello degli orizzonti simbolici-religiosi.
C’è qui un ulteriore passaggio
fondamentale. Aiutare le religioni a morire, con tutta la incertezza e il
rischio che comporta, e con tutta la saggezza che richiede, non può essere
ancora una volta un impegno religioso e per soli religiosi. Ha ragione il
sociologo Franco Ferrarotti nel sostenere che la fame di sacro e il bisogno di
religione vanno sottratti all'abbraccio mortifero della religione-di-chiesa,
burocratica e gerarchicamente autoritaria, ma aggiunge che ciò va fatto con una
lotta su più fronti, "dentro ma anche fuori della chiesa".
Insomma i laici non possono più
continuare a chiamarsi fuori dai problemi religiosi, ecclesiali e perfino
teologici.
Le frontiere della laicità non
si possono più disegnare in base al muffito metro del credere/non credere. C'è
bisogno di consapevolezze nuove e di percorsi inediti.
Ci si scalda quando gli
interventi ecclesiastici ci toccano negli interessi diretti e immediati:
contraccettivi, aborto, omosessualità, ingerenza politica, scuola cattolica,
violenza psicologica sui bambini a base di colpevolizzazioni. Ci si esalta e
giustamente quando i prelati o i preti condannano la guerra o denunciano la
ingiustizia o vivono da eroi fra i poveri. Il resto è considerato questione
interna alla religione. Questo giocar di rimessa con le religioni è una
caratteristica congenita del laicismo. Cent'anni fa, quando era
"certo" che la religione, considerata residuo dell'età infantile
dell'umanità, sarebbe stata superata dal progresso, poteva apparire razionale
lasciar sopravvivere la teocrazia come gioco da riserva indiana. Oggi tale
atteggiamento è chiaramente distruttivo. Perché il liberismo sta cavalcando la
ripresa delle religioni a livello mondiale con una capacità di penetrazione i
cui effetti si vedranno a lunga scadenza. Il sistema di dominio globale se ne
fa un baffo delle condanne ecclesiastiche. Le mette nel conto come pedaggio. A
lui serve che l’abbraccio materno delle religioni, contribuendo a rassicurare e
consolare, stabilizzi il potere.
Scrive Rita Levi Montalcini:
“Come affermato da A. Koestler (1969): ‘una
delle caratteristiche principali della condizione umana è questa suprema
esigenza e bisogno di identificarsi con un gruppo sociale e/o con un sistema di
credenze che è indifferente alla ragione, indifferente all’interesse
dell’individuo e anche all’istinto di conservazione … Siamo così portati alla
conclusione, che contrasta con quella dominante, che il problema della nostra
specie non deriva da un eccesso di aggressività per autodifesa ma da un eccesso
di devozione trascendentale’ …I sistemi etico-sociali ai quali l’individuo è
stato esposto sin dall’infanzia …dettano la condotta del giovane e dell’adulto
… I messaggi recepiti negli anni nei quali il cervello è immaturo,
dall’infanzia all’adolescenza, periodo nel quale esso gode della massima
plasticità neuronale, assume un valore fondamentale nel comportamento
dell’individuo adulto” (La Repubblica, 7 maggio 2002). Le stesse cose che
dice la scienziata del cervello le aveva dette lo studioso della psiche, Eric
Fromm, nel suo studio sulla Anatomia
della distruttività umana (1973). Insomma ci portiamo dentro a nostra
insaputa, e si porta dentro la intera società, la violenza insita nei grandi
sistemi etico-sociali e quindi nelle religioni. E’ su questo “eccesso di
devozione trascendentale” che il sistema di dominio mondiale fonda la propria
stabilità, oltre che sugli strumenti di condizionamento economico e sul sistema
di guerra. Ed è su questa radice profonda della violenza che bisogna lavorare.
E’ veramente possibile liberare le religioni dal gene della violenza e
della guerra?
La ripresa delle religioni è
moderna perché moderna è l'esigenza da cui scaturisce. La specie umana sta
scoprendo la propria mortalità, come più volte è avvenuto nella storia in altri
contesti, ma oggi in maniera altamente drammatica, e si scontra con le sfide
che ne derivano: la sfida del senso, dell'identità, della solidarietà. Tutti
siamo dentro tali sfide. Ignorarle pensando che siano questioni da risolvere
con scelte individuali è un regalo che si fa allo stesso sistema di dominio
globale. Ignorarle significa lasciare campo libero al bisogno forte di
esorcizzare la finitezza della specie stringendosi nell'abbraccio materno degli
assoluti e dei leaders religiosi o laici che sembrano incarnarli. Il quale
abbraccio però tanto è amorevole e allettante quanto ambiguo e capace di
generare mostri di distruttività e violenza anche quando a parole li esorcizza.
E comunque è un abbraccio che fa parte della morsa con cui il globalismo
liberista sta stringendo il mondo.
Si pone qui la domanda cruciale:
è realmente possibile liberare le religioni dalla violenza iscritta, come dice
Balducci, nel loro codice genetico? Sono possibili un cristianesimo, un
islamismo, un ebraismo non-religiosi, è possibile un buddismo non distrattivo e
non consolatorio? E’ realmente praticabile la convergenza auspicata da
Ferrarotti fra il “dentro” e il “fuori” o meglio un superamento di tale confine
ormai anacronistico?
Val la pena di tentare?
5) Laboratorio
Laicità oltre il laicismo: laico, laicismo, laicità,
Gruppo Controinformazione ecclesiale
1) Scheda
2) Allegato
1)
Scheda
Il termine laico, originariamente proprio del linguaggio ecclesiastico
per distinguere i fedeli dal clero, nel tempo ha assunto nuovi significati.
Usato - nei paesi dove si è affermato il cattolicesimo - in opposizione a religioso, dogmatico,
confessionale, fondamentalista …., ha configurato un modo di pensare e
caratterizzato un orientamento culturale che, evolvendosi, sono diventati parte
integrante dell’elaborazione della cultura europea. I termini laico, laicismo,
laicità possono quindi essere considerati elementi preziosi del patrimonio
culturale “dell’occidente” da valorizzare per individuare soluzioni valide ai
problemi posti dall’ormai irreversibile convivenza tra culture diverse.
Una riflessione che ne approfondisca l’attuale significato
e valore deve perciò muoversi tra passato e presente a partire dalla
ricognizione di casi concreti in cui si evidenzia che nell’uso comune il
termine laico è ricco di ambiguità e viene usato con significati diversi
rischiando di non averne più uno veramente significativo, tanto da essere
considerato da alcuni insignificante:
·
I diversi tentativi/rifiuti di attribuire alle diverse
forme di conflitto in cui sia implicato l’Islam il carattere di guerra di
religione, o di identificare la civiltà occidentale con il cristianesimo,
indicano la difficoltà a cogliere l’autonomia del profano dal sacro.
·
In sede di elaborazione della Costituzione europea si
discute non tanto sul valore delle “radici cristiane” dell’Europa quanto sulla
necessità di sancirlo formalmente nella Carta dell’Unione europea, dando vita
da un lato a schieramenti contrapposti dall’altro a “distinguo” infiniti.
·
Per anni in Italia si sono chiamati “laici” i partiti
centristi non democristiani e “laici” sono chiamati membri non “togati” del Consiglio superiore della magistratura,
eletti dal Parlamento
·
Il ritorno delle polemiche sul crocefisso nelle scuole
italiane evidenzia la mancanza di consapevolezza comune del confine tra
confessionale e laico nella scuola e nelle pubbliche istituzioni
·
Le frequenti manifestazioni d’intolleranza tra singoli e
gruppi di diversa religione e/o ideologia rivelano la difficoltà di individuare
il fondamento dell’accettazione reciproca.
·
Alcuni film di recente produzione cinematografica come Magdalene,
Banchiere di Dio, L’ora di religione, Amen, proponendo i temi del
rapporto tra religione, cultura e costume, e del contrasto Chiesa Stato, hanno
suscitato polemiche.
Dalla riflessione su questi casi può scaturire un discorso
che, insieme a una ricognizione storica della questione consenta di rispondere
agli interrogativi che nascono oggi dai
molteplici significati attribuiti ai termini in questione: laico, laicismo,
laicità.
·
Si può parlare di un “pensiero laico”, di una “cultura
laica? in riferimento alla religione, alle ideologie, ai rapporti stato/chiesa?
Sono laici sia il liberalismo sia il marxismo? e allo stesso modo? A partire da
quanto emerso nel Forum si può parlare di fondamentalismo anche per il
laicismo?
·
Che cosa intendono per laicità quanti la distinguono dal
laicismo pensando che possa essere conciliabile con l’idea di possedere la
verità assoluta? con una prassi autenticamente evangelica?
·
La laicità è proponibile alle culture “altre”, maturate
fuori dei principi e dei valori elaborati
dall’illuminismo europeo, per favorire il dialogo, la convivenza,
l’integrazione senza che sia un’imposizione?
La storia del pensiero umano c’insegna che ogni
generazione paga alla storia il pedaggio inevitabile di un cono d’ombra, che
vela le sue conquiste intellettuali ed etiche: saranno le generazioni
successive ad acquisire la lucidità necessaria per comprendere la natura e la
qualità dell’offuscamento. Si cita, a titolo d’esempio, l’età di Platone e la
piena integrazione dell’idea della schiavitù in un sistema filosofico che
prevedeva un’altissima concezione della dignità umana.
Siamo ben consapevoli dei ritardi culturali delle società
che negano parità di diritti alle donne e di quelle che disprezzano le civiltà
altre.
Forse, anche
quando parliamo di laicità come di criterio per misurare la pienezza del
rispetto dei valori di cui l’altro è portatore, non ci ricordiamo che in
qualche modo noi stessi abbiamo gli occhi velati: da quale nebbia, non abbiamo
la ventura di saperlo.
La fiducia che guida la nostra ricerca è la fede
nell’evangelo, nel suo invito a considerare il fratello per quello che è,
consapevoli di essere più annebbiati di lui mentre gli proponiamo la nostra
verità; e che solo il confronto con quella che lui ci porge può contribuire a
diradare un po’ la nebbia.
Ma la certezza…
quella siamo destinati a non averla mai. I nostri passi muovono dietro al breve
chiarore della lucerna di dantesca memoria.
2)
Una specie di purificazione della memoria e del linguaggio
potrebbe scaturire da un quadro di
acquisizioni che derivano da
diversi filoni di ricerca: educazione alla pace; elaborazione femminista; incontro
con religioni/culture non europee; confronto tra spiritualità orientale ed
occidentale; il dato negativo come parallelo a quello positivo, con cui capita
di convivere, delimitandone tuttavia ambiti ed incidenza, senza che si adottino
– nel medio tempo – soluzioni drastiche (cfr. parabola della zizzania).
In fondo, nella storia, chi è più debole si è distinto per
la capacità di durare e di resistere piuttosto che per le strategie e tattiche
di eliminazione; mentre ancora, anche nella cultura di sinistra, sembra talora
prevalere la subalternità a prospettive/linguaggi di tipo padronale e la
presunzione di poter annientare l’avversario.
Lo si può ricavare anche affrontando altre tematiche
scottanti, quali immigrazione, giustizia, ecc.
Lo stesso termine democrazia, pure così centrale, oggi può
aver bisogno di essere rivisitato
3)
Il Manifesto del 3/09/02 presentava nell’ultima pagina un
articolo assai interessante, sebbene la notizia che riportava non fosse nuova:
“A scuola con le pillole”, a firma di M. D’Eramo. Vi si commentava la
dipendenza da psicofarmaci riscontrata
in bambini statunitensi d’età scolare, curati - o meglio, alimentati - dai
genitori con Ritalin o Prozac, allo scopo di ridurre in loro gli effetti di una
sindrome, clinicamente definita come ”disordine di disattenzione per
iperattività” (ADHD: Attention Deficith
Hyperactivity Disorder).
Già dall’anno scorso la stampa agitava, specialmente nei
paesi dell’Europa centrale, il fantasma di questo nuovo disturbo mentale che in
forma quasi epidemica colpiva la popolazione scolastica dei paesi ricchi. E c’è
da riflettere sull’efficacia del linguaggio simbolico nelle malattie mentali
delle nuove generazioni: dopo la fuga dalla responsabilità nella droga,
l’anoressia/bulimia: fuga e ossessione da cibo, con le nevrosi da alimentazione
biologica; bullismo e indifferenza sessuale, accattonaggio, rifiuto di
crescere…
La notizia riportata dal Manifesto perciò, oltre a non
essere nuova, calata nel contesto delle altre informazioni che riguardano la nevrosi
educativa di genitori stressati da una competizione permanente, sembrerebbe non
superare il normale standard di “curiosità” da quotidiano estivo in crisi di
informazione seria.
Tuttavia, nel suo carattere paradossale, mi è sembrata
molto pertinente al nostro tema. Forse,
perso l’interesse ad una partecipazione fattiva al divenire politico, la più
forte spinta identificativa - dopo un’attività professionale vincente - è la
genitorialità premiata dal successo ad ogni costo?
Anche i figli debbono dimostrare di poter vincere la
corsa, e l’adeguamento agli standard è il minimo concesso all’individualità del
futuro concorrente?
Un simile precipizio è quello su cui si avventa ogni
“pensiero forte”, e la storia è ricca di esempi (segregazione razziale, discriminazione
economica, proselitismo e odi religiosi fanno testo).
Quale può essere il criterio da contrapporre a questa
deriva?
Forse un continuo confronto tra il fine: la liberazione
dai dogmatismi, e il mezzo: l’esperienza storica dei valori contingenti nella
società cui si appartiene, misurata con quella di chi condivide nel tempo e nel
pianeta la medesima stagione valoriale, alla luce del diritto di ciascuno alla
vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla felicità?
Una saggezza corretta da un costante esercizio di
equilibrio comparativo tra sistemi di valori pregressi e nuove esigenze
sociali, che interrogano ancor prima che maturino le condizioni culturali per
le risposte…?
4)
Ironia della
sorte: la giuria della prima Mostra di
Venezia riformata dal governo di destra
ha premiato il film Magdalene del regista Peter Mullan.
Il film intreccia le storie di quattro ragazze irlandesi
costrette dai genitori a vivere e a lavorare in un convento trasformato in una
grande lavanderia. L’isolamento totale dal mondo esterno rende la vita della
comunità ancor più claustrofobica ed ossessiva. A fatica si costruisce la
solidarietà tra le giovani donne vittime delle proprie insicurezze ed
attanagliate dal senso di colpa. L’esito dei singoli percorsi esistenziali sarà
tale che tutte sconteranno il peso della prematura esperienza di esclusione.
La stampa cattolica (Avvenire e L’Osservatore) ed alcuni
esponenti della gerarchia hanno bollato il film come “infame” , “un falso, una calunnia” (Baget Bozzo). Ma queste definizioni di per sé non
sarebbero sufficienti ad attirare l’attenzione sul film se questo non
contenesse una verità “urlata” dalla prima all’ultima sequenza: del corpo delle
donne si fa scempio in ogni società patriarcale. Troppo facile attribuire alla
sola Chiesa cattolica la responsabilità di quanto avviene nei conventi
Magdalene nell’Irlanda degli anni ’60. Di fatto sono i padri, il clan familiare
che decidono che la ragazza-madre, l’adolescente consapevole del proprio
fascino, addirittura la ragazza stuprata dal cugino debbano sparire dalla
società ed espiare in convento la colpa di avere un corpo femminile. Le madri
di queste giovani si dimostrano complici delle decisioni paterne, o sono
ridotte al silenzio per l’obbedienza dovuta alle istituzioni religiose e
sociali. Il regista Peter Mullan , già interprete dei film di Ken Loach, ha
scelto il registro espressivo del film-documento per dare sostanza alle
testimonianze raccolte (nel film, una piccola parte è interpretata proprio da
una donna che ha vissuto questo dramma) visto che l’ultimo convento è stato
chiuso nel 1996. Qualcuno, maliziosamente, aggiunge che l’organizzazione sia
stata smantellata per la diffusione delle lavatrici.
E’ un film da vedere perché aggiunge ancora qualche
elemento di riflessione critica sul
rapporto tra istituzioni religiose e società. Ma non sarà un caso che
negli ultimi mesi siano usciti nelle
sale cinematografiche film come Il banchiere di Dio (vicenda Calvi/ Ior/
Marcinkus), Amen (Pio XII e le persecuzioni razziali) e L’ora di religione di
Marco Bellocchio (conformismo religioso/ laicità). Molte volte il cinema fa
emergere e porta a maturazione idee che altrimenti avrebbero un percorso più tortuoso e difficile.
6) Laboratorio
PREPARANDO L'INCONTRO DELLE CdB
Se il tuo Signore volesse, tutti coloro che sono sulla
terra crederebbero.
Sta a te costringerli ad essere credenti?
Nessuno può
credere, se Allah non lo permette.
Egli destina all'abominio coloro che non ragionano.
Corano,
decima sura (YÛNUS), versetti 99 e 100:
[1] II verbo ebraico galah significa tanto "rivelare" quanto "essere esiliato
[2] II verbo ebraico è intransitivo, per cui la particella eth è usata nel senso della preposizione “ con “ e non come segno del complemento oggetto.
[3] Vedi Gen., xix. 36 e sg
[4] V. p.6
[5] La parola ebraica goi significa tanto “pagano” quanto “nazione”.
[6] In ebraico alla lettera “fatto”
[8] Il trovatello (abbandonato o esposto) è il bambino, appartenente alla specie umana, di cui si ignorano i genitori e la condizione (se è libero o schiavo). Allevarlo è un dovere incombente a tutti e da cui vanno esenti gli altri quando uno l’ha compiuto. Si presume libero fino a prova contraria e Musulmano se raccolto da un Musulmano in un luogo abitato da Musulmani, perché l’Islam è la religione originaria cui appartiene ogni neonato. SAN, I, 306