XXXII INCONTRO NAZIONALE DELLE COMUNITÀ CRISTIANE DI BASE IN UN TEMPO DI SOPRAFFAZIONE E DI PRECARIETÀ "DATE RAGIONE DELLA SPERANZA CHE È IN VOI" 30/31 ottobre - 1° novembre 2010 Borgaro Torinese (TO) Le comunità cristiane di base dialogano su: "Giovani in un tempo di crisi dei valori e di dissesto sociale ed economico"
Intervento del pastore Stefano D'Amore (coordinatore gruppi giovani della Chiesa Valdese di Torino, consigliere FGEI) L’intervento che vorrei proporvi prende spunto da quello che sono, che faccio e dalle riflessioni che ho condiviso con altre compagne e compagni di viaggio. Nello specifico, parto: 1) dalla mia esperienza come pastore della chiesa valdese qui a Torino, a cui è stato chiesto di coordinare un progetto neonato di animazione e formazione giovanile, anche aperta al territorio; 2) dal fatto che sono stato giovane (fino a poco tempo fa) e che sono ancora per qualche mese piacevolmente legato alla realtà della FGEI (Federazione giovanile evangelica italiana) e Agape. Nel nostro percorso e nel mio ministero la dimensione biblica e teologica ricopre un ruolo importante. Ed è per questo che vorrei partire da un passo biblico e terminare poi con un altro. Geremia è quel profeta a cui Dio aveva rivolto una vocazione e che aveva risposto: «Ahimè, Signore, DIO, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo». 7 Ma il SIGNORE mi disse: «Non dire: "Sono un ragazzo", perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò, e dirai tutto quello che io ti comanderò. 8 Non li temere, perché io sono con te per liberarti» A Geremia viene chiesto di portare al suo popolo un messaggio spesso duro e critico. Mi piace pensare che al suo inizio questo profeta fosse probabilmente un ragazzino, insicuro, magari con qualche problema di balbuzie, ma che ciononostante è scelto da Dio per denunciare le ingiustizie dei governanti. Il passo che vorrei leggervi si trova al cap. 22, 13-16. Geremia parlando del figlio del Re di Giuda usa parole forti che credo abbiano a che vedere con il titolo del nostro incontro. Leggere il brano Il nostro paese è questa casa in costruzione. La situazione dei lavoratori – ora soprattutto di quelli più giovani – è segnata dall’incertezza del salario e dalla precarietà. I giovani e le giovani sono chiamati a collaborare alla costruzione del paese, ad incentivare la sua produzione, accrescerne la cultura, sollevarne l’economia, creare delle famiglie, costruire il futuro, ma spesso senza che venga garantito loro un giusto compenso per i compiti che svolgono o che vorrebbero svolgere. Come nel passo di Geremia il prossimo non viene pagato come dovrebbe per il suo lavoro e in quella parola biblica di “salario”, io ravviso non solo la paga di fine mese, ma anche la garanzia del lavoro, la stabilità che ne consegue, la possibilità di progettare le esistenze, di prendere degli impegni, di vivere una vita affettiva serena e costruttiva. La precarietà a cui oggi le giovani generazioni sono obbligate è a mio avviso l’ingiustizia nei confronti dei costruttori (di Geremia). Nel corso degli ultimi due secoli abbiamo capito che l’uomo e la donna sono esseri che possono e che hanno diritto di realizzare se stessi nel lavoro. Quindi il lavoro ha acquistato una posizione centrale nella natura dell’essere umano e nella società. Ma il binario del lavoro corre accanto al binario della vita che altro non è se non tempo che trascorre per l’uomo/la donna. Questo tempo si distingue solitamente in non più, ora e non ancora (passato, presente e futuro). Per cui una persona acquisisce delle esperienze di vita e di lavoro nel presente, che si trasformano via via e vanno a costituire il suo passato, e contemporaneamente la stessa persona immagina dei progetti per il domani. Questo quadro si riferisce ad una situazione in cui il lavoro che accompagna la vita è stabile, ma nel momento in cui il lavoro da stabile diventa precario, da giusto diventa ingiusto, ecco che la vita e anche il suo sviluppo nel tempo subisce dei grossi cambiamenti che non possono essere sottovalutati. In una situazione di lavoro precario vengono scardinate le classiche dimensioni del tempo: il passato diventa un accumulo di piccole e brevi esperienze frammentate, il futuro ha una data di scadenza legata alla fine del contratto di lavoro e il presente si dilata e diventa un’attesa dello scadere del tempo, e si disgrega così l’immaginazione del domani, il diritto a sognare, i progetti, le speranze. Il terreno è un terreno fragile che, si sa, in una certa data si sgretolerà. Tutto ciò non rende possibile quella tensione verso il futuro che è fondamentale per lo sviluppo di ogni persona, e la impoverisce e la priva di una parte importantissima di sé! Senza tensione verso il futuro, si perde anche il diritto a sperare. Ma la speranza, credo, è uno dei fondamenti della fede cristiana. Il sistema sociale ed economico in cui viviamo (cioè la casa in cui dovremmo vivere in Geremia), viene progettato e costruito senza che siano garantiti né il diritto al lavoro né coloro che lavorano. Ecco allora oggi la casa che non ha le sue fondamenta nella giustizia sociale, ecco la casa il cui sviluppo non è accompagnato dalla giustizia economica. Come credenti è nostro dovere interrogarci anche su questo: l’economia è una questione di giustizia, e quindi è una questione teologica e di fede. E allora è giusto, io credo anche denunciare sistemi ingiusti. Dio, attraverso la voce di Geremia, pone una domanda retorica al re e chiede “vivi forse per il cedro?”, cioè “vivi forse per il soddisfacimento dei tuoi desideri, che non corrispondono ai bisogni del tuo popolo?” “Tuo padre forse non mangiava e non beveva?”, cioè, “ti sei forse dimenticato che la vita è fatta di cose necessarie, bisogni primari, più importanti di quello di avere degli infissi in legno pregiato?”. Come hai fatto in pochi anni, nel giro di una generazione, a dimenticare quali sono le cose che io gradisco?. “Giudicare la causa del povero e del bisognoso”. La Fgei, nel gennaio di due anni fa ha avuto un Seminario di studi intitolato “In Fiducioso equilibrio sui chiodi. Precarietà e discepolato”. Voglio leggervi alcune frasi dal documento finale di quel campo. “Nella nostra riflessione abbiamo potuto notare che quello lavorativo è solo uno degli aspetti di una precarietà che si riflette anche sul modo di vivere le relazioni affettive e interpersonali. Il bisogno di autonomia economica spinge spesso i giovani e le giovani a gravosi impegni nel lavoro, che nascono anche dalla forte competitività attuale, che limitano o condizionano la capacità di dialogare con il prossimo e di dare attenzioni a chi è loro vicino. L’instabilità del lavoro limita per molte coppie la capacità di unirsi in modo stabile e creare un nuovo nucleo familiare e contemporaneamente le difficoltà economiche possono diventare spesso causa di attriti nelle relazioni affettive. Per quanto riguarda l’ambito culturale è diventata sempre più precaria anche l’appartenenza e l’identificazione del proprio ruolo nella società; molto spesso oggi è difficile per le nuove generazioni definirsi in base ad un modello culturale univoco. È emersa, come causa principale, la frammentazione tipica della vita postmoderna che si ripercuote inevitabilmente anche nella sfera religiosa. Infatti, la continua messa in discussione dei propri valori e delle proprie credenze, se da un lato favorisce la crescita personale, dall’altro rischia di creare fenomeni di appartenenza parziale, che si concretizzano in una sostanziale immobilità.” In quell’incontro si era scelto di lavorare su questo binomio “precarietà e discepolato” perché si era notato come anche la vocazione, anche la chiamata a vivere un impegno in una comunità di fede, anche la militanza del credente e della credente sono messi in crisi da un sistema che impone flessibilità, crea precarietà, genera sfiducia e che oggi vede la disoccupazione giovanile oltre il 26%. E sempre in quell’incontro era stato interessante osservare come è vero anche che discepolato è precarietà: a Chi segue Gesù Cristo è chiesto di non portare bisaccia, né bastoni, né sandali, né tunica di ricambio; la promessa che accompagna il discepolo e la discepola include, in modo costitutivo, tratti tutt’altro che consolanti, come il fatto di dover rendere testimonianza di fronte ai tribunali di questo mondo, nonché di venire separati, a motivo di Cristo, dagli affetti più cari. Discepolato è precarietà perché si tratta di seguire il colui che è vissuto precariamente dalla nascita (quando non c’era posto per lui nell’albergo) alla morte in croce, passando per un’esistenza nella quale egli non ha avuto dove posare il capo. È chiaro che la precarietà di cui ci parla l’evangelo non è la stessa di quella dei nostri giorni. Perché quest’ultima io credo sia contraria alla volontà di Dio nella misura in cui nega i diritti, affossa la dignità, ostacola la creazione di relazioni e la crescita della persona. In una la speranza è schiacciata, perde il suo significato e diventa l’attesa di piccole sicurezze che non arrivano. Nell’altra, con l’invito a seguire Gesù, avviene una nuova creazione dell’esistenza che mette al centro la giustizia, l’annuncio dell’Amore di Dio e la testimonianza della speranza del suo Regno che viene. Viviamo dunque in questa tensione che ci pervade: tra la chiamata a seguire Gesù, a testimoniare la speranza in un mondo differente e la realtà che vediamo e tocchiamo ogni giorno. E a questo proposito vorrei avvicinarmi alla conclusione leggendovi il secondo passo: Luca 7, 11-16. Leggere il brano Mi colpisce l’immagine dei due cortei che dovrebbero schivarsi, che secondo il nostro buon senso dovrebbero prendere due direzioni opposte. Chi mai permetterebbe una manifestazione festosa di fronte ad un cimitero? Eppure questi due cortei si incontrano. Li immaginiamo fermarsi l’uno di fronte all’altro, magari in una via non molto larga, immaginiamo gli occhi della gente di un corteo scrutare quelli dell’altro e viceversa, magari un po’ imbarazzati, in attesa che si defluisca e che ognuno torni a ricomporre il proprio corteo. Due folle che seguono e cercano cose diverse: l'una il senso delle parole e dei gesti di Gesù, l'altra il senso di un evento così insensato come la morte dell'unico figlio di una vedova. Nel mezzo di questo stallo Gesù agisce. 1) Innanzitutto Gesù vede la donna, “vede” nel senso più profondo di “interessarsi”. Vede e va in contro alla donna. 2) Gesù si lascia coinvolgere in quella situazione. Gesù è commosso, soffre con lei e la consola . Vedendo la madre "...ne ebbe compassione e le disse "Non piangere!"" Significa: “non rassegnarti, Dio ti è vicino”. Perché effettivamente Dio viene per consolare e ridare dignità ad ognuno di noi, proprio nei momenti in cui questa dignità ci viene a mancare o ci viene tolta per qualche motivo. Dio viene per consolare e per rialzare. E infatti “Dio ha visitato il suo popolo” dicevano tutti a quel punto. Questo è il modo di Dio di visitare il suo popolo, quello di com-patire (soffrire insieme), consolare di rialzare. Nemmeno la morte può fare nulla contro questo modo di essere di Dio. 3) Gesù non fugge il contatto con la morte, ma la tocca contro la legge della purità, tocca la barella su cui era disteso il giovane e gli intima di alzarsi. (egeirein) significa: far levare, alzarsi, risvegliare, ma è anche il verbo della resurrezione (risorgere). Le parole di Gesù: "...dico a te, alzati!" non sono dirette solo al giovane, ma sono anche per quella madre e sono anche per noi. Ecco che i due cortei iniziali ormai non esistono più, quello funebre non ha più ragione di esistere e tutti sono diventati una folla unica. Quelli che accompagnavano Gesù nella sua predicazione e quelli che accompagnavano la vedova di Nain nel suo dolore, ora sono uniti nel glorificare Dio. E allora mi domando, per venire al nostro tema: in quale corteo siamo noi? Forse in entrambi. Come credenti dovremmo partecipare al corteo che segue Gesù. E allora, noi come corteo di Gesù, cosa facciamo quando incontriamo il corteo dei giovani senza speranza? Siamo capaci, anche come chiese, di: 1) vedere, interessarci e capire un disagio quando esiste, anche se non espresso o mascherato; 2) siamo capaci di lasciarci coinvolgere attraverso l’ascolto, la creazione di spazi di accoglienza e di formazione del pensiero critico (non solo di intrattenimento). Di lasciarci coinvolgere attraverso la ricerca di parole che davvero consolano e rialzano invece di giudicare o sminuire il problema; 3) siamo capaci di toccare la bara contro la legge? Di non preoccuparci di sporcarci le mani? Siamo capaci di costruire azioni comuni e comunitarie che testimoniano un messaggio di speranza a coloro a cui è stato tolto il futuro? Ma a volte siamo noi che prendiamo parte al corteo della disperazione. Perché le difficoltà, la perdita del lavoro, l’incapacità di compiere scelte importanti, tutte queste cose e altre ci prendono e ci mettono in quel corteo. E allora noi, come corteo che segue la bara, riusciremo ad unirci in un unico corteo con quelli che seguono Gesù? Sapremo accogliere il messaggio di speranza che ci viene portato? Sapremo credere nel miracolo della resurrezione e rispondere alla chiamata ad una nuova vita? Concludo il mio intervento con le ultime righe del documento della Fgei: “I discepoli e le discepole sono chiamati e chiamate ad abbandonare tutto per seguire Cristo, mantenendo però nel coraggio della scelta le loro fragilità e debolezze di donne e uomini. Tenuto presente questo permanere della mediocrità umana, la chiamata presuppone comunque una rottura, un punto di svolta, un mettersi in gioco che può generare smarrimento e incertezza e che paradossalmente fa sì che anche quella del discepolato sia una condizione di precarietà. Precarietà che però si differenzia in maniera forte da quella, spesso imposta, che investe il mondo contemporaneo e può anzi opporvi resistenza; essa è infatti sostenuta da una scelta libera e consapevole, da un forte desiderio di realizzare in maniera tangibile la propria fede, dalla consapevolezza di non essere soli e sole ma di far parte di una comunità e dalla costante tensione data dalla presenza di un Dio che non ci abbandona, e contemporaneamente non smette di giudicarci.” |
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